|  
               
              
              
              
            Il treno si fermò  
              a Foggia, perché la stazione era stata occupata dalle squadre 
              fasciste  
              che lindomani  
              avrebbero dovuto marciare  
              sulla Capitale. 
           | 
            | 
          
           
             Nel nostro presente, ma io mi limiterei a dire solo orizzonte, 
              è entrata la nuova economia, che designa tutta linnovazione 
              dallorbita tecnologica a quella finanziaria. Un binario privilegiato 
              per tutti e per tutto è linformazione e la comunicazione. 
              Per questi termini cè la debolezza dellItalia 
              e degli altri Paesi europei, essendo attuale, vigente, solo negli 
              Stati Uniti. 
              Debbo però subito affermare che per noi la leggenda non è 
              mai esistita, perché ci siamo sempre esibiti e confrontati 
              fra noi sul fatto, sulla persona, sui valori singoli e individuali 
              e li abbiamo comunicati nella verità. Almeno nella nostra 
              verità. Perciò i grandi inviati sono divenuti grandi 
              reporter. E io stesso nella mia lunga carriera ho aspirato 
              e aspiro ancora a poterla concludere con questa qualifica.  
              Daltra parte i miei articoli sul settimanale della nostra 
              Federazione hanno riaffermato lobbligatorietà per la 
              nostra professione della legge del mercato, che è poi quella 
              dellopinione pubblica. E si tratta di articoli che risalgono 
              per lo meno al 1993, anno in cui mi dovevo dividere dalle cifre, 
              delle quali ho vissuto tutta la mia vita professionale, perché 
              lultimo mio articolo comparso sulla bella e importante rivista 
              Dimensione, edita dalla Camera di Commercio di Pescopagano, recava 
              come titolo Il prodotto interno lordo è unopinione. 
              Qualcosa di simile scrive un giornalista di spicco, Giorgio Bocca, 
              nel suo articolo La trappola del PIL, affermando tra 
              laltro che la tecnica e le scoperte sono a doppio taglio e 
              che il feticcio del prodotto interno lordo non è un rimedio 
              (LEspresso, 21 novembre 2000). 
              Sette volti, uno di essi non da leggenda, nella mia vita 
            Sono Nitti, mio compaesano e mio familiare, un colonnello 
              monarchico del 1922, Alberto De Stefani, Angelo Costa, Luigi Gedda, 
              Luigi Medici, Giulio Andreotti. 
              Ma prima di condurvi a questo confronto, debbo aggiungere che cè 
              il mio 3 giugno 1909 di nascita a Melfi e ora cè il 
              Giubileo a Roma, da giornalista decano, anticipato ma bruciato dal 
              tempo. Passato da impensabili Vie dellImpero, rivista del 
              1927 che richiese il mio primo articolo, alla trattazione dei fatti 
              del giorno in ogni momento preceduti dalla verifica. 
              Limmediatezza del passato cè stata solo nel teatro, 
              e solo perché non poteva diversamente essere. Forse perciò 
              cera un disegnatore satirico le cui caricature venivano presentate 
              come ritratti. Si chiamava Onorato, ma di lui le presentazioni giornalistiche 
              titolavano lOnorato Teatro. Era mio vicino di casa, sapevo 
              che era di Lucera, si distingueva per laccoppiamento con il 
              suo vestito di un britanno fiocchetto al collo. Già allora 
              per me queste erano cose importanti e non so ancora la ragione di 
              questa secondaria scelta, diremo così, di costume. Oggi però 
              si parla anche di Dario Fo, premio Nobel, passato dal teatro al 
              teatrino. 
              Ed eccomi a parlare di Nitti, ancora una volta per voi, miei eventuali 
              lettori. 
              Lha chiamato in causa anni or sono Giulio Andreotti, che avendo 
              contato i senatori proposti dal grande statista quando questi nel 
              dopoguerra aveva bisogno dellapprovazione del Capo dello Stato 
              li confrontò con quelli suoi, in numero minore, che avevano 
              bisogno di concorrere ad una maggioranza parlamentare che forse 
              lui avrà potuto ottenere. Ciò evidentemente non mi 
              ha mai interessato e forse ne sanno qualcosa gli enciclopedici archivi 
              di Andreotti, che non ha neppure Cossiga, pur essendo un professionista 
              della politica. Qualcuno, per me erratamente, condivide invece la 
              passionalità con la politica. Secondo Andreotti, nel commentare 
              il raffronto Nitti si sarebbe rivolto a lui con un eufemismo popolaresco, 
              che Nitti non ha mai usato, neppure dopo il suo ritorno dallesilio, 
              che a me fece scrivere che disponeva, per il suo imprescindibile 
              uso delle pantofole, solo dellattrattiva elettoralistica di 
              un vagone letto. Ma allora già cera il porta a porta, 
              durissimo a morire, e al quale si è venuto reagendo con lastensionismo. 
              Andreotti, almeno questa volta, non è bene documentato. Perché 
              non sa o non gli è stato detto che fra l8 e il 10 ottobre 
              del 22 Mussolini e Federzoni si dichiararono favorevoli ad 
              una soluzione imperniata su Vittorio Emanuele Orlando e che lo stesso 
              Mussolini nelle delusioni del 25 luglio ricordò che neppure 
              la guerra del 15-18 era stata popolare, e che il tanto 
              noto Cacoia, inventato da DAnnunzio, amico di 
              Nitti e condiviso da Mussolini, aveva dovuto ricorrere alle amnistie. 
              Ma in quali condizioni? Ne parla Nitti nel quarto volume delledizione 
              nazionale delle sue opere. Ma ne parlano anche i 25 caduti e le 
              centinaia di disertori della sua e mia terra natale. 
              Nitti mi riporta alla mia primissima fanciullezza, aperta ai giornali. 
              Lo era, perché a cinque anni ero al corrente del famoso processo 
              romano Cavallini, che vedeva a Napoli implicato un sacerdote, don 
              Minzoni. Un fratello di mio padre difendeva il prete, il suocero 
              difendeva limputato principale. 
              Non solo i giornali circolavano per casa, ma anche le notizie dirette 
              comunicate alla nonna e da essa trasmesse a tutti i nipoti, nipoti 
              che avevano aggiunto al proprio nome un numero, quello romano. Perché 
              ci chiamiamo tutti Gennaro, come il nonno paterno. Questi non lho 
              mai conosciuto perché sono nato un anno dopo la sua morte, 
              e ho preso il posto di un mio fratello, dello stesso nome, morto 
              di polmonite, perché allora non era stata ancora scoperta 
              la penicillina. 
              Ma cera anche la prima guerra mondiale che stava per scoppiare, 
              nonostante il parecchio contrario di Giolitti e la nascosta 
              denuncia italiana della Triplice, nella quale cerano già 
              Salandra e Orlando. Il Mattino, il giornale di Napoli che arrivava 
              a Melfi nel corso dellanno anche con una corsa ciclistica 
              e tazzine regalate agli abbonati, era tra le mani anche dei bambini. 
               
              E poi cera il mio interesse, accompagnando mio padre la sera 
              sulla piazza, ai commenti che egli scambiava con un suo carissimo 
              amico, che molto stimava, sui libri che Formiggini stampava. E si 
              trattava di letture molto sofisticate anche per ambienti più 
              avanzati del mio.  
              E poi più tardi è arrivato Il Mondo di Giovanni Amendola, 
              ma pubblicato da Alberto Cianca. Proclamava una politica che anche 
              mio padre condivideva e anche io pretendevo di doverne sapere qualcosa. 
              Sapevo nientemeno che i principali giornali avevano uno stenografo, 
              che era pure giornalista. Uno di questi era lavvocato Vico 
              Pellizzari.  
              Sapevo pure che ci si rivolgeva politicamente ai giovanissimi, definiti 
              poi Balilla, e fra questi cero anchio, che un paio di 
              mesi sarei partito per Roma, dove avrei ascoltato il grido di saluto 
              al Re da parte di un colonnello. 
              In partenza con mio padre  lui per i suoi doveri e speranze 
              verso di me e con la prospettiva di una cattedra di diritto ecclesiastico 
              allUniversità di Perugia, e io con i miei doveri di 
              studente della 4ª ginnasiale e di essere presente alla prima 
              lezione al Quirino Visconti, collegio romano  giunti a Foggia 
              fummo fermati con il treno alla stazione, perché questa era 
              stata occupata dalle squadre fasciste che lindomani avrebbero 
              dovuto marciare sulla Capitale. Ripartimmo con loro in tempo perché 
              Mussolini potesse avere lincarico di formare il nuovo governo. 
              Vi fu la conseguente sfilata delle squadre fasciste davanti al Quirinale 
              e al Re Vittorio Emanuele. E fu davanti al Palazzo della Consulta, 
              accompagnato, anzi custodito da mio padre, che fui colpito più 
              che dagli applausi della folla dal solitario anziano signore che 
              dopo aver gridato il nome del Re per tre volte, rimanendo inascoltato, 
              concluse con un: «Ho capito». Aveva capito per primo. 
              Aveva cioè compreso che ad un re soldato sarebbe successo 
              qualcosaltro. Non certo che avrebbe, per valutazioni aridamente 
              parlamentari, fiancheggiato la dittatura e consentito le guerre 
              dellEtiopia, dellAlbania e dellAsse. Forse auspicava 
              un re Umberto II, e non il principe, che aveva sempre e solo obbedito, 
              sapendo essere solo Re quando ha abdicato per espatriare in Portogallo 
              e da esule, abbandonato anche dai suoi strettissimi familiari, la 
              moglie e i figli, morire solo in una clinica di Cascais. Forse limmaginazione 
              di quel vecchio signore che aveva attratto la mia attenzione era 
              rivolta ad uomini che prima o poi avrebbero opposto e fatto prevalere 
              il lealismo sabaudo sul regime mussoliniano.  
            Io ho conosciuto uno di questi convinti, era Edgardo Sogno. Lho 
              conosciuto durante il fascismo nel Gabinetto di un ministro fascista 
              degli Scambi e Valute, direttore di una rivista dal titolo Economia 
              Fascista, che compilavamo con Santi Savarino, antifascista silenzioso, 
              ma solido mio amico anche tanti anni dopo, quando lui, amico di 
              Don Sturzo di cui era conterraneo, ne favoriva al ritorno dallesilio 
              lattivita giornalistica, essendo anche divenuto senatore democristiano. 
               
              Ma in quel Gabinetto, di cui prima ho detto, cera anche Edgardo 
              Sogno, che io notai perché silenzioso, elegante in un grigio 
              vestito, carattere insolitamente torinese, lì. Scambiammo 
              una sobria chiacchierata. Non so chi sia stato nella Resistenza. 
              Quale postumo riconoscimento gli sia stato dato. Quale sia stata 
              la sua vera e intima convinzione. So ora che la dicotomia tra resistenza 
              antitotalitaria e resistenza comunista fu nel dopoguerra il filo 
              conduttore di tutte le politiche di Sogno. Forse lanima del 
              vecchio signore del 22 con il suo «ho capito» 
              sarà alfine così sopita.  
            Ed ecco laltro volto che si risveglia in me, e con il quale 
              ho avuto il privilegio di collaborare dal 1946 al 1970 in Confindustria, 
              in due lunghe fasi della sua presidenza, e cioè da quando 
              recò a Roma il vento degli industriali del Nord a quando, 
              per puro spirito di servizio, ne ha riassunto nel 66 fino 
              al 1970 la presidenza. Gli ho organizzato le sue prime quattro conferenze 
              stampa, tra laltro con i miei comunicati che per lui dovevano 
              rappresentare e perciò subire una scaletta. Lho rivisto 
              molti anni dopo indifferente a temi da altri svolti nella sua presidenza. 
              Chi sbadiglia, pensavo, non decide. Eravamo però nel 68, 
              ed egli si scosse ad una mia affermazione, e cioè che nella 
              scuola si era creato un vero e proprio rapporto sindacale e reagì 
              con una domanda di curiosità: chi è il datore di lavoro? 
              Si sentì rispondere con il mio, da lui inaspettato, «gli 
              studenti». Per lui erano due 68 che non dovevano esserci, 
              ma allora alla Normale di Pisa cerano anche le bombe molotov 
              comuniste, di qualche successivamente grosso esponente comunista. 
              Su Costa ci sono stampati molti libri contenenti le sue frequenti 
              lettere a De Gasperi, due uomini che io considero (e come me tanti 
              altri), con Einaudi e con Di Vittorio, tra i fondatori della nuova 
              Italia. 
              Una volta mi disse che gli piaceva un sindacato unitario e forte 
              e un Di Vittorio  si stimavano reciprocamente  comunista, 
              il primo dal volto umano. Allora cera anche il Togliatti della 
              svolta di Salerno e sua moglie Montagnani, che capeggiava le donne 
              comuniste e che saliva le nostre scale di Piazza Venezia non solo 
              per protestare ma anche per proporre.  
              Su di lui si sono scritte tante cose. Riguardano la sterilizzazione 
              del problema dei comitati aziendali di gestione, lavviamento 
              della scala mobile, della quale oggi ci si domanda cosa sia. Ma 
              ora un vice presidente della Confindustria, Mondello, scrive che 
              «Costa rappresenta unalta figura morale, che ci ha insegnato 
              come si possa coniugare cultura e intelligenza con il mondo dellimpresa». 
               
              A me è capitato di collaborare con questo tipo di presidente, 
              e anche con De Michelis, con Cicogna, con Lucchini, con Carli. Ma 
              la mia presenza nei computer della Confindustria, che pure è 
              cominciata nel 38 ed è finita nel 77, mi è 
              riconosciuta per la direzione del 46 della Gazzetta per i 
              lavoratori e nellinvito da qualche anno alle assemblee confindustriali, 
              molto strategiche. Nulla si sa dellazione della Gazzetta per 
              i lavoratori nel 48, nulla dellAttualità Stampa 
              del 62 (riviste volute per linformazione, e non per 
              la suggestione dei lavoratori), la quale ultima quando era indispensabile 
              cera, senza dover ricorrere allotturazione del naso, 
              come suggeriva sia pure a malincuore Montanelli. Non cè 
              la lettera di Guido Carli, che mi ringrazia per la mia condotta 
              nella conclusione del rapporto confederale con il Circolo di Studi 
              Diplomatici, essendone stati componenti i più grandi ambasciatori 
              italiani del Novecento, e io il regolatore, a ciò delegato 
              dalla Confindustria. Il suo presidente, ultimo da me visto che era 
              stato funzionario della stessa sul finire del fascismo, si interessò 
              con me di sapere solo le ragioni del trasferimento allEUR; 
              il resto lo affidava al suo direttore generale, Savona, che mi comunicò 
              lo sganciamento che avrei dovuto operare e dellutilizzazione 
              della mia persona, che non fu da me richiesta. Tutto per me con 
              questa Confindustria della mia vita è finito lì, con 
              la personale amicizia per tre veramente grandi nellalta burocrazia: 
              Gian Battista Codina, Mario Morelli, Franco Mattei, al quale ebbi 
              a dire che era sprecato per la Confindustria essere destinato più 
              in alto. Come difatti è proprio avvenuto. 
            Ma a fronte di questa Confindustria, cè stato Alberto 
              De Stefani, per lintera sua vita di ministro preside della 
              Facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza, scrittore storico-finanziario, 
              che non ha dovuto mai attendere 50 anni per far valere il proprio 
              pensiero e la propria azione, come sembra sia accaduto a Sarcinelli, 
              altro grande di questi studi nel secolo scorso. 
              Lho conosciuto sul finire della sua vita, dopo una sua lettera 
              indirizzatami il 23 giugno del 1957, nella quale oltre a dire di 
              «essere lieto di mandarmi una testimonianza della sua simpatia 
              per me e per lopera mia» (ma io della validità 
              di questa non mi sono mai accorto) scrive che il suo è uno 
              scritto con cui ha raggiunto, in breve tempo, il pareggio del bilancio 
              dello Stato: Prosperità e non fiscalità, che ha anticipato 
              di oltre 40 anni la politica di Kennedy e di Johnson. Ma cosa si 
              dice ora che sono passati da allora altri 40 anni? La carta intestata 
              di De Stefani è alla dannunziana, Tutto prima del tramonto. 
              Ma che cosa dicono questi tramonti ai loro responsabili?  
              Fra questi non cè Luigi Gedda, che ho visto solo due 
              volte, ma con il quale ho collaborato fino agli ultimissimi Comitati 
              Civici, quelli fino al 62. Gedda, due mesi prima delle elezioni 
              del 18 aprile del 1948, fondò i Comitati Civici, dopo aver 
              ricevuto lidea da Papa Pio XII con due indicazioni: mobilitare 
              i cattolici e gli italiani con unefficace propaganda in grado 
              di opporsi al PCI e superare lastensionismo. Gedda ha concorso 
              ai risultati che si conoscono, ed è stato protagonista nella 
              battaglia per la libertà e per la democrazia. Non ha chiesto 
              nulla, ma ha avuto un bastone: quello delle parrocchie. Egli ne 
              ha aggiunto un altro: quello della Confindustria, e lha trovato 
              subito e pronto. Ci sono stato anchio. Egli è morto 
              solo e dimenticato alcuni mesi fa. Lo hanno definito il grande regista 
              dei Comitati Civici.  
            Ed eccomi ora a ricordare un altro grande dellItalia, Luigi 
              Medici. Gran parte della mia attività professionale si è 
              dovuta incontrare con la sua. Nato a Sassuolo nel 1907, io a Melfi 
              nel 1909, è morto a 93 anni, qualche mese fa. E stato 
              definito alla sua morte un artefice del miracolo italiano, già 
              morto per gli altri, ma superstite con la propria coscienza e con 
              la mia fede. Ho avuto sempre a che fare con lui e lho trovato 
              sempre amichevolmente disponibile. 
              Sapeva, e gli era stato riconosciuto, che aveva la vocazione dellinsegnamento 
              e del naturale affiancamento con i giovani. Già nel 1950 
              Luigi Einaudi lo esaltava. Forse perciò era pronto a scrivere 
              il riassunto dei suoi interventi ai convegni indetti dalla Rivista 
              Politica Economica, allora apparentemente edita dallAssociazione 
              delle società per azioni. Questi riassunti mi preoccupavano, 
              ma lui a mia richiesta si prestava a scrivere quelli che li riguardavano. 
              Non altrettanto faceva Giacomo Acerbo, le cui benemerenze 
              fasciste (mi sembra da preside della Facoltà di scienze 
              economiche) gli facevano credere di potersi distaccare da noi giornalisti 
              con la penna in mano di allora. Però di questi non si può 
              certo dire quanto si è scritto di Medici, passato indenne 
              da ogni contaminazione di mani pulite, e tra il ristretto manipolo 
              di uomini che hanno creato le basi perché lItalia divenisse 
              una delle maggiori potenze industriali. 
            E concludo con Giulio Andreotti. Ho già detto prima qualcosa 
              di lui. Conosco di lui solo la brillantina in testa, come quella 
              da me sempre usata, al punto da farmi confondere con lui dal raffinato 
              venditore di pipe della vicina Piazza Montecitorio, dove Andreotti 
              aveva il suo studio prima di passare a Piazza in Lucina. Egli era 
              amichevole e quasi garante dei giornalisti che avevano gli uffici 
              nel suo palazzo. Verso le otto del mattino andava a Montecitorio 
              e veniva circondato dai giornalisti. Qualcuno di loro era mio amico, 
              uno, fiorentino, si chiamava Guido Naroni, era stato direttore del 
              Popolo di Roma, era passato a Salò, per dirigere a Venezia 
              il Gazzettino, era stato direttore dellagenzia ARI a Roma, 
              era divenuto anche direttore di Esteri, Rivista del Ministero degli 
              Esteri, era amico di una certa dirigenza politica della Confindustria. 
              Contava e sapeva contare. Da fiorentino era riuscito a sposare uninglese, 
              con tutto quanto può significare una donna inglese di un 
              certo livello. Disponeva di capitali propri, che a quellepoca 
              impressionavano.  
              Probabilmente ci sarà stato alle sue spalle qualche sorriso 
              compiacente o per lo meno giustificativo; anche di quello non cè 
              traccia negli archivi. Di chi parlo certamente non cè 
              traccia in quello di Cossiga, che a me piace per la prevalenza della 
              passione sulla politica e così si può parlare di unItalia 
              mancata. 
            Il prevalente alleato del mercato 
            Quelli fin qui tracciati sono per me ritratti, fotografie allo 
              stesso tempo percepite ma reali. Il nostro lavoro ha a che fare 
              con molti valori: la logica, limmaginazione, naturalmente 
              proprie, ma suscettibile e forse pure bisognosa di contributi esterni, 
              che aprono la mente e si avvicinano alla verità che è 
              quella che conta perché è anche etica. Ci rivolgiamo 
              infatti agli altri, nel rispetto dei nostri valori, che ci differenziano 
              spesso dagli altri e non ce ne dobbiamo affatto dispiacere. Ho letto 
              perfino che la diffamazione è un reato che va abolito. Ma 
              i reali intendimenti sono quelli di modificarlo, come la Camera 
              del resto sta facendo. Ma noi stiamo a discutere sullidentificazione 
              del diritto, sui troppi veleni che essendo in mare sono anche sui 
              media, sulleliminazione dei vertici che vogliono comandare 
              sugli altri, sullidentificazione del pensiero, di quel pensiero 
              che garantisce tutti, sul ripudio di ogni trappola.  
              E appunto come trappole si aggirano certi programmi da definire, 
              che oltre sempre da definire, qualcosa devono farci pur sapere sulla 
              loro attuabilità. Pure in questa o in quella sottocompagine 
              minore dove si parla di Welfare, di situazioni da riformare e di 
              livelli di spesa da aumentare, di pronto coinvolgimento anzitutto 
              strutturale del Mezzogiorno, di riduzione del suo deficit occupazionale 
              cui fa da riscontro lattivazione imprenditoriale e di manodopera 
              del Nord, di aumenti di spesa soprattutto nel campo delle tante 
              opere pubbliche urgenti quasi ovunque, di indefiniti incrementi 
              di spese per gran parte del personale pubblico: scuole, sicurezza, 
              giustizia, accoglienza dellimmigrazione non delinquenziale. 
               
              I mezzi di copertura quasi sempre si affidano a generiche previsioni 
              (molto spesso denunciate nella loro infondatezza o nella loro incapacità 
              di tradursi in reali apporti specifici dal Governatore della Banca 
              dItalia, più eloquente oggi di quanto siano stati nel 
              passato tutti i suoi predecessori, e ciò perché i 
              tempi sono quelli che sono e la loro sepoltura non appare vicina). 
              E che deve dire e cosa dice la stampa? Riferisce e commenta. E conduce 
              ad essere dispersiva nella puntualizzazione delle notizie  
              quella finanziaria, in particolare, accumula le notizie anche minori 
              per farne derivare indicazioni per il tanto incerto oggi investitore 
              e piccolo risparmiatore, al quale ormai è innanzi agli occhi 
              un già fiscabile riducibile 5% sui BOT, che sale e scende 
               ma anche ad essere distorsiva. 
              E così ogni giornalista deve entrare nella riflessione, che 
              deve fare i conti con limmediatezza della comunicazione della 
              notizia. Talvolta ci si rivolge ad esperti nordamericani, ma nessuno 
              di loro sembra molto più esperto di noi, delle nostre cose, 
              come noi del resto sappiamo altrettanto poco delle loro cose, proprio 
              perché la globalizzazione conosce lestraneità 
              anglosassone, se ne ipotizzano effetti che ancora non ci sono (sempre 
              che ci saranno) ed è ancora in gestazione, oggetto di spinte, 
              di mitigazioni, di resistenze. Norme e istituti in gran parte ci 
              sono, ma lorizzonte è quello di certi Paesi europei, 
              a cominciare dal nostro.  
              E poi ci sono le tante trappole, per dirla con parole del già 
              ricordato nostro collega Bocca, a doppio taglio. 
              Cè quella che riguarda la nostalgia del passato (un 
              Andreotti e un DAntoni che pensano ancora ad aggregazioni 
              di unificazione delle forze cattoliche, che ognuno vuole invece 
              dalla propria parte nascondendo il più possibile il proprio 
              irrinunciabile). 
              Cè ancora la trappola per salvare il salvabile. Se 
              ne parla per la Thatcher, con la sua rinnovata onda tuttora lunga. 
              Cè la trappola della ricerca e della contestazione 
              del nuovo solo perché è nuovo: poi si vedrà 
              quello che cè dentro. Purtroppo, però, non siamo 
              ad un mercato ortofrutticolo di certa frutta o di certe zucche, 
              piccole o grandi che siano. Cè la trappola delle cifre 
              ufficiali. Cè ancora la trappola dellillusione 
              dellesistenza di un pensiero che automaticamente ci difende 
              dallutopia, ma non ci porta al reale. E ciò perché 
              in quasi tutti i Paesi ci sono governi che dettano alle loro opposizioni 
              i propri provvedimenti, tutte provvidenze, ecc. che poi si accompagnano 
              a sondaggi dopinione, vincenti pure sugli assenteismi.  
              Molti di noi domandano spiegazioni, ma a rispondere è sempre 
              un vago da interpretare, e spetta a noi giornalisti doverlo fare, 
              perché è linformazione di qualità che 
              deve vincere. Una volta si diceva: «vincere e vinceremo». 
              Addirittura questo era il finale anche delle lettere private. Ma 
              la stampa allora, come i libri scolastici e storici, erano quelli 
              che erano, come oggi sono sopravvenuti gli altri, che da qualche 
              parte almeno si dice che siano almeno da aggiornare. Daltra 
              parte, si sa che la storia è sempre contemporanea. 
              Noi giornalisti poi abbiamo a che fare con un diritto che è 
              fatto in TV, con il tanto discusso filmato sulla pedofilia o quello 
              sul linciaggio in Palestina, con richieste anche che provocano scioperi 
              di colleghi e giornali e che riguardano il rinnovo del contratto, 
              ma che affermano di non chiedere privilegi ma garanzie affinché 
              ai cittadini arrivino informazioni sicure, libere dai condizionamenti 
              politici, economici e pubblicitari. Un programma ambizioso, avrebbe 
              detto De Gaulle, di fronte ad un corteo che lo circondava e che 
              invocava «morte ai coglioni». Ma questa volta si tratta 
              di noi, di noi tutti, con la nostra battaglia, che è soprattutto 
              personale, di difesa della fede e della vocazione in noi stessi. 
              Intanto ci viene annunciato laccordo tra il nostro Ordine 
              e la Statale di Milano: Per i giornalisti accordo in Ateneo. 
              Tanti sono gli atenei in Italia e tanti i nostri ordini in sedi 
              di atenei. Aumentiamo tutti impegno e sforzi. Cè un 
              lungo cammino da percorrere. 
              Io personalmente credo di avere avuto alla Sapienza di Roma nel 
              1929 un primo riconoscimento. Il titolare della cattedra di Diritto 
              internazionale, Tommaso Perassi, consulente allora del ministero 
              degli Esteri, mi disse ufficialmente che la mia tesi di laurea sulle 
              Capitolazioni, da lui suggeritami, era una trattazione giornalistica 
              e non accademica. Mio padre, docente, mi ottenne il cambio di relatore. 
              Ma il presidente della Commissione di esame, il grande commercialista 
              Cesare Vivante, ebbe a dirmi che il mio curriculum di studi era 
              discontinuo. Io però continuai per la mia strada, che è 
              sempre stata quella che ha avuto e ha a che fare con lincubo 
              dellattrazione della lettera 22. La mia porta 
              oggi il numero 25: nella lotteria oggi dominante facciamo circolare 
              anche queste cifre. 
            Non amo più le cifre, ma... 
            Per dovere professionale, devo dirvi anzitutto che bisogna guardare 
              con sguardo più attento le cifre di inizio delle carriere, 
              a cominciare da quella scolastica. Qualcuno ha ricordato in questi 
              giorni che Mozart aveva sei anni quando ha rivelato il suo genio 
              e la sua magia arrivando con fatica alla tastiera del pianoforte. 
              Io, a livelli bassissimi, a 5 anni, avevo scritto sulla pagina di 
              un diario scolastico sotto il titolo di un Dettato, 
              ma si è trattato di un Copiato, che non è sopravvissuto, 
              ma la pagina è sotto i miei occhi, con un bel 10 da me apposto. 
              Andavo già a scuola di infanzia, presso una maestra che a 
              casa mi dava lezioni e si chiamava Stella. Mia madre, che mi aveva 
              accolto con maglie di lana di pecora, di cui ricordo il colore e 
              il prurito, perché mio fratello predecessore era morto di 
              polmonite, (allora non cera la penicillina, come ho prima 
              ricordato), mi aveva trattenuto con lei per tre anni, ma al quarto 
              anno corresse le mie intemperanze mandandomi a scuola, con due vestiti 
              nuovi, di cui ricordo il colore. E così è cominciata 
              la mia corsa ai voti. Io il mio 10 però me lo ero segnato, 
              ma la mia vita non me li ha più fatti vedere. 
              Ma per noi tutti ci sono cifre più serie, più vere, 
              più autentiche, anche se a volte più negative. Un 
              terzo degli italiani legge e scrive con molta fatica, un altro terzo 
              supera queste difficoltà, vale a dire che non legge libri 
              o giornali e preferisce la televisione. E poi un altro terzo è 
              analfabeta di ritorno, perché una volta chiusi i libri di 
              scuola non li ha più riaperti. E per dare una spiegazione 
              cè anche Stendhal che ci dà una mano, con una 
              domanda: «Se non ci si diverte, perché si insiste ad 
              insegnare?». 
              Impariamo, impariamo anche noi. E non bastano per il giornalismo 
              scritto i titoli di prima pagina, e per quello parlato e visivo 
              la voce o la mimica. Ci sono naturalmente le ricette. Ma io, alla 
              mia età, non ne conosco alcuna. Cerco sempre i soliti quattro 
              lettori... 
           |