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            La bombetta doveva ricordare lepoca  
              nella quale labito  
              fu creato, e doveva  
              ricordare 
              la povertà, insieme al tight troppo largo  
              e alla stringa per  
              le scarpe in luogo  
              della cravatta. 
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             Il nome di Totò, secondo le ricerche araldiche da lui condotte, 
              era Angelo Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito 
              Gagliardi De Curtis di Bisanzio ed egli era altezza imperiale, conte 
              palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, 
              duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cilicia, 
              di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, 
              conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo, 
              e molte altre cose, titoli che sono riportati nel libro doro 
              della nobiltà italiana.  
              Il diritto di fregiarsi di questi titoli gli è stato riconosciuto 
              dal tribunale di Napoli il 18 luglio 1945, prima che entrasse in 
              vigore, nel gennaio 1948, la Costituzione Italiana, che ha abolito 
              i titoli nobiliari (con lart. XIV delle Disposizioni transitorie 
              e finali). Era morto da alcuni mesi il padre di Totò, Giuseppe 
              de Curtis, che sua madre aveva sposato il 24 febbraio 1921, dopo 
              la morte del marchese de Curtis, ovvero colui che avrebbe dovuto 
              diventare suo suocero, che si opponeva al matrimonio di suo figlio 
              Giuseppe, il marchesino de Curtis, con Anna Clemente, esponente 
              di una famiglia troppo povera per lui. Dalla relazione tra Giuseppe 
              de Curtis e Anna Clemente era nato nel 1898, al rione Sanità 
              (ufficialmente il rione Stella), Antonio, il futuro Totò, 
              la cui nascita era stata denunciata dallo zio materno Vincenzo Clemente 
              con il nome di Antonio Vincenzo Stefano e il cognome della madre, 
              Clemente. Fu questo il cognome mantenuto da Antonio (che si faceva 
              chiamare, quando lavorava sulle scene, Totò già da 
              molto tempo) fino a che la madre non sposò il marchesino 
              de Curtis. Poi, nel 1933, fu adottato dal marchese Francesco Maria 
              Gagliardi Focas, dal quale derivarono i titoli nobiliari vantati 
              da Totò. 
            Il 1945, lanno della morte di Giuseppe de Curtis, era un 
              anno molto importante per Totò, il quale continuava lattività 
              teatrale, ma cercava anche la strada per sfondare nel cinema. Nel 
              cinema aveva debuttato già nel 1937 con Fermo con le 
              mani, a cui nel 1939 era seguito Animali pazzi, 
              su soggetto di Achille Campanile, nel 1940 San Giovanni decollato, 
              nel 1941 Lallegro fantasma e nel 1943 Due 
              cuori tra le belve. Ma nessuno di questi film ottenne un vero 
              e proprio successo, nonostante la maggiore esperienza e sicurezza 
              di Totò e la presenza, nel terzo film, alla regia di Amleto 
              Palermi, che aveva consentito a questo film di distinguersi dai 
              precedenti, come diceva il critico del Corriere della Sera nelledizione 
              del 19-20 dicembre 1940, il quale completava il suo pensiero con 
              queste parole: «già la sua maschera [la maschera di 
              Totò] ha una consistenza, sullo schermo, ed un rilievo». 
              Nel 1945, infatti, era uscito Il ratto delle Sabine, 
              interpretato da Totò e da Carlo Campanini (il quale ricorda 
              che stava recitando con Totò per questo film quando, e fu 
              uno dei primi, ricevette le confidenze dellattore comico napoletano 
              in merito alle sue ricerche araldiche), realizzato per la regia 
              di Mario Bonnard, che ebbe accoglienze contrastanti da parte della 
              critica. Secondo il critico del romano Il Giornale del Mattino, 
              «un film con Totò rappresenta sempre una garanzia per 
              unora di buonumore» e sottolineava che «il pubblico 
              ha riso dal principio alla fine», mentre Antonio Pietrangeli 
              scriveva su Star (a p. 2 del n. 47, a. II, uscito il 15 dicembre 
              1945): «Questo Ratto delle Sabine ha indubbiamente il diritto 
              al brevetto del più insulso, aberrante film prodotto dalla 
              cinematografia italiana postbellica».  
              Totò si apprestava a interpretare il film realizzato dal 
              regista Mario Mattòli, I due orfanelli, uscito 
              nel 1947, ancora una volta insieme a Carlo Campanini. Un accoppiamento 
              che Gian Luigi Rondi su Il Tempo salutava con queste parole: «Totò 
              e Campanini  un incontro veramente felice  han prestato 
              al protagonista tutta la loro varia e saporita comicità». 
              Anche questo film fu accolto in maniera contrastante, ma in modo 
              tale da riconoscere le potenziali qualità di Totò 
              nel cinema. Infatti alle entusiastiche parole di Gian Luigi Rondi 
              corrispondevano queste parole di Lorenzo Quaglietti su LUnità: 
              «Una volta di più, Totò ha deluso quanti gli 
              riconoscono ampie possibilità nel campo del cinema». 
              Non cè alcun dubbio che cè unevoluzione. 
              Certo siamo ancora lontani dal tempo in cui verrà operata, 
              dopo la morte di Antonio de Curtis, una rivalutazione di Totò, 
              operazione in cui si distinse Goffredo Fofi, ma cè 
              unevoluzione nellatteggiamento della critica. Probabilmente 
              bisogna attribuire questa evoluzione anche ad una maggiore attenzione 
              di Totò verso i cardini del cinematografo, che farà 
              di lui uno degli attori italiani più attenti alle caratteristiche 
              degli italiani, ma intanto questa evoluzione ci fu e occorre prenderne 
              atto. 
            Comunque, nel momento stesso in cui Totò cercava di affermarsi 
              in campo cinematografico, portava a termine le sue ricerche araldiche 
              e otteneva, grazie allaiuto prestatogli dal suo amico avvocato 
              Eugenio De Simone, la conferma da parte della Corte di Appello di 
              Napoli di essere lultimo rampollo della stirpe imperiale di 
              Bisanzio. Per la verità, Antonio de Curtis aveva già 
              ottenuto il riconoscimento dei diritti spettantigli dal decreto 
              ministeriale del 6 maggio 1941, ma molti erano i pretendenti, e 
              Totò ci teneva moltissimo, tanto che, nel corso delle riprese 
              per Il ratto delle Sabine, disse a Carlo Campanini: 
              «A Carlè, io qui faccio per scherzo e lo sono 
              veramente». Campanini pensava che Totò stesse raccontando 
              una barzelletta, ma Totò soggiunse: «Ma io sono veramente 
              re». Nella sua testimonianza Carlo Campanini aggiunge che 
              la smania di Totò di essere nobile gli appariva così 
              forte che non ebbe mai «il coraggio di chiamarlo principe». 
              Non fu così per Carlo Dapporto, che un giorno lo chiamò 
              principe. E come aveva fatto Dapporto, molti altri lo chiamarono 
              principe. 
            Con la mania di far valere i suoi titoli nobiliari, Totò 
              poteva sembrare ridicolo. A Carlo Dapporto disse, stando al ricordo 
              di Carlo Campanini: «Ah, ma lo sai pure tu [...] meno male 
              che sono solo principe. Pensa, se ero re che sentivo un fetente 
              che veniva a bussare: Saccomodi, tocca a lei Altezza, sai 
              sarebbe stata una cosa un po troppo mortificante». 
              Certo, in gran parte questa mania era da attribuire agli umili natali 
              di Totò. Eppure un principe lo era davvero: della comicità, 
              come hanno riconosciuto in molti. Totò, come ha osservato 
              qualcuno, era lultima incarnazione della napoletanità, 
              inventata da Matilde Serao e fatta propria dal marito, Edoardo Scarfoglio, 
              il fondatore del Mattino. Era lultima maschera, dopo Pulcinella, 
              di questa napoletanità.  
              Ma dal momento che la napoletanità si riduce a una variante 
              dellidentità italiana, questa maschera non è 
              che la maschera dellidentità italiana, camuffata da 
              maschera della napoletanità. E si tratta, si badi, dellItalia 
              moderna, perché labbigliamento di Totò ricorda 
              quello di Charlot, il personaggio creato da Chaplin, un americano, 
              anzi un inglese americanizzato. Totò dice del suo abbigliamento: 
              «Il mio corredo era composto da un solo abito per la scena 
              che andava sempre più logorandosi, senza una sia pur remota 
              possibilità di sostituzione [siamo nel 1922 e Totò 
              era agli inizi della sua vita teatrale, caratterizzati da una profonda 
              miseria. A quel tempo Totò recitava al Teatro Sala Umberto 
              I di Roma]. Ebbi, da qui, lidea di creare un costume 
              che accentuasse la mia vera situazione vestiaria. Una logora bombetta, 
              un tight troppo largo, una camicia lisa con colletto basso, una 
              stringa di scarpe per cravatta, un paio di pantaloni a saltafossi 
              [ovvero corti e larghi], comuni scarpe nere basse, un paio di calze 
              colorate. Così nacque labito di Totò». 
              Ma Totò non può farci scordare che il suo abito assomiglia 
              molto a quello di Charlot. Del resto, i poveri erano uguali ovunque, 
              in Italia come negli Stati Uniti. E la bombetta, lelemento 
              che più avvicina labito di Totò a quello di 
              Charlot, era un indumento tipico degli inizi del Novecento. Perciò 
              la bombetta doveva ricordare lepoca nella quale labito 
              fu creato, e doveva ricordare, in quanto logora, la povertà, 
              insieme al tight troppo largo e alla stringa per le scarpe in luogo 
              della cravatta. Ché i poveri esistono dappertutto, nei Paesi 
              poveri, come lItalia, e nei Paesi in via di forte sviluppo, 
              come gli Stati Uniti. 
              Per questa ragione diciamo che Totò è universale. 
              Egli, con la sua maschera, non solo rappresenta la povertà 
              dei meridionali come dei settentrionali, degli italiani come degli 
              americani. La povertà di tutti, insomma, che è rappresentata 
              da una maschera, come quella di Pulcinella. «Totò non 
              poteva fare che Totò, come Pulcinella, che non poteva essere 
              che Pulcinella, cosa altro potevi fargli fare? Il risultato di secoli 
              di fame, di miseria, di malattie, il risultato perfetto di una lunghissima 
              sedimentazione, una sorta di straordinaria secrezione diamantifera, 
              una splendida stalattite, questo era Totò», ha dichiarato 
              Federico Fellini.  
              In un brano de La frusta cinematografica, edito da Il 
              Resto del Carlino a Bologna nel 1941, il volume che Eugenio F. Palmieri 
              ha redatto facendolo derivare dalle rubriche da lui tenute sulla 
              rivista di Mino Doletti, Film, che egli firmava con gli pseudonimi 
              di Lunardo e di Tabarrino si legge: «E una pazziata 
              il nostro attore, una tarantella; e i suoi film dovrebbero correre, 
              saltare, precipitare, rimbalzare, fuggire: disumani e vorticosi, 
              sventati e tremebondi, magici e stolti. Totò ripete Pulcinella; 
              davanti alla macchina da presa, o registi, cè Pulcinella: 
              con quel mento a tubo. Questo ha da dire, sullo schermo, Totò: 
              una fragorosa pulcinellata». Palmieri, si badi bene, fa nascere 
              il Varietà, nel quale eccelse Totò, principalmente 
              a Napoli: «E a Napoli  dove Pulcinella improvvisa, per 
              la piazza e per la reggia, le sue mirabolanti avventure  lArte 
              Varia fiorisce: colorato dominio di attori per i quali linvenzione 
              dei poeti è come un abito stretto. Dalla ribalta dialettale 
              alla ribalta del Varietà, il comico partenopeo non raffigura, 
              con gioiosa e immaginosa prepotenza, che un personaggio: se stesso». 
            (1 - continua) 
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