La retorica
nazionale parla
di un ponte per tre continenti, ma è un ponte perennemente
traballante
e sistematicamente intasato.
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Potenza (e varietà di interpretazione) delle parole. Potenza
(e varietà d’oscillazione) delle date. Vittorio Sgarbi,
all’inaugurazione romana della mostra di sculture di Gaetano
Martinez, ha affermato che il Rinascimento rappresenta l’epoca
della modernità, mentre con l’Impressionismo si entra
nell’epoca della contemporaneità. Letteratura e arte,
dunque, hanno un percorso solo approssimativamente parallelo a quello
dello sviluppo economico e sociale, se è vero quanto ha sostenuto
il saggista inglese Paul Johnson, secondo il quale la modernità
emerse tra la fine delle guerre napoleoniche e il 1830 (in La nascita
del mondo moderno 1815-1838).
A determinare l’avvio furono il motore a scoppio e la forza
motrice, cui si sommarono poco più tardi l’energia elettrica,
l’industria chimica, il telefono e il telegrafo senza fili.
Quest’epoca si è protratta, più o meno, fino
agli anni Sessanta dal 1900. E’ seguita una sorta di nuova
modernità, che è stata sommariamente definita post-moderna.
Secondo Giuseppe Guarino, (l’autore di un saggio sul Governo
del mondo globale), citato da Sergio Romano, la post-modernità
sarebbe nata in virtù di una straordinaria convergenza di
fattori: crescita della popolazione mondiale, informatica, miniaturizzazione,
tecnologia spaziale, telecomunicazioni, ingegneria genetica e le
numerose conseguenze che ne sono derivate. Tra queste, non ultima,
un «prodigioso aumento della produttività».
Chi, sulla lezione di Johnson, si accingerà a scrivere una
Storia della post-modernità, non potrà non notare
che questa epoca, al pari della precedente, è emblematicamente
illustrata da alcune grandi opere, rappresentative o funzionali.
Allora si ebbero il Palazzo di Cristallo a Londra, la Tour Eiffel
a Parigi, la rete delle strade ferrate, le monumentali stazioni
ferroviarie, le ferrovie metropolitane, i trafori alpini, i grandi
ponti, i giganteschi transatlantici, i dirigibili, gli aerei, le
esposizioni universali, i grattacieli di New York e di Chicago,
la Tennesee Valley Authority, le esplorazioni di terre sconosciute,
le grandi barriere per la creazione di polders protetti dal mare
in Olanda, i Canali di Corinto, di Suez, di Panama. Oggi abbiamo
Les Tour de la Défense e la Piramide del Louvre a Parigi,
il World Trade Center a New York, il Millenium Dome a Londra, le
Torri di Kuala Lumpur, il Ponte di San Francisco, le numerose biblioteche
nazionali in Francia e nel Regno Unito, l’aeroporto di Renzo
Piano a Osaka, il Museo rivestito di titanio a Bilbao, l’airbus,
le stazioni spaziali, lo Shuttle, il Tunnel sotto la Manica, i treni
ad alta velocità, le petroliere colossali, il Ponte sullo
Stretto di Öresund, tra Svezia e Danimarca, sedici chilometri
di arcate sospese e tunnel, più un’isola artificiale,
che hanno mutato la geografia nord-europea, le splendide architetture
di Sydney, Melbourne, Brasilia, il Ponte sul Tejo (Tago, per noi)...
Ebbene, quali sono, in questo paesaggio post-moderno, le grandi
opere italiane? che cosa caratterizza il genio italiano in Italia,
visto che nel mondo continua ad affermarsi ad alti profili? Che
cosa può dare oggi il segno della continuità della
storia italica nel campo delle grandi infrastrutture, mai aliene
all’arte e alla creatività?
Rispondono due autori, i cui libri sono tutto un (non) programma:
Guido Gentili (L’incompiuta. Dalle dighe mobili di Venezia
allo Stretto di Messina: storie di un Paese bloccato), e Giovanni
Negri (Il Paese del non fare, di un paio di anni fa). Vi si descrive
«il labirinto in cui si sono smarrite, negli ultimi anni,
le grandi opere con cui l’Italia avrebbe dovuto conquistarsi
un posto fra i Paesi più moderni del pianeta». Appunto:
avrebbe dovuto!
Sostiene Romano che «il catalogo di Gentili non è meno
impressionante di quello in cui Leporello aveva annotato le conquiste
di Don Giovanni. Ma è un elenco di amori delusi e di conquiste
abortite». Affascinante paragone: non è forse il trascorrere
da una conquista femminile all’altra, senza soluzione di continuità,
il segno tangibile della fragilità sessuale, dell’effimera
capacità e forza di amare di un uomo che si appaga soltanto
nell’atto della condiscendenza, della complicità estemporanea,
del “passaggio” incompiuto, che non lascia né testimonianza
né macerie?
Don Giovanni vero patrono della Penisola? Un’ipotesi da tener
d’occhio, visto il paesaggio desolante che scorgiamo dalle
Alpi al Lilibeo. Dove si è passati da un mega-progetto ad
un altro trasvolando in allegra indecenza con discorsi, dibattiti,
saggi, tavole rotonde, ma sempre restando bloccati dentro il circolo
aureolare dell’annuncio. Siamo il Paese della Promessa. Sulla
sacralità paradossale della Promessa Italica abbiamo fondato,
costruito, sviluppato una Storia Civile e Politica. Vi darò
un ponte per attraversare il fiume, sostenne un candidato al Parlamento.
Non abbiamo il fiume, osò precisare uno spettatore. Vi darò
anche il fiume, tagliò corto il primo. La quadratura promissoria
del cerchio non ammetteva repliche.
Scendiamo per li rami. Primato veneto, col maggior numero di opere
progettate e mai realizzate: il Palazzetto che Franck Lloyd Wright
avrebbe dovuto costruire all’angolo fra il Canal Grande e il
Rio Nuovo, l’Ospedale di Le Corbusier, le grandi dighe mobili
per la difesa della Laguna dalle acque alte (il celeberrimo “Mose”),
il Passante per Mestre, la ricostruzione della Fenice «com’era
e dov’era», (al modo del barese Petruzzelli, anch’esso
vittima del fuoco).
Seguono, a ruota, i grandi lavori autostradali, progettati, riprogettati,
solennemente annunciati e inesorabilmente accantonati: la Pedemontana
Veneta, il rifacimento della Salerno-Reggio Calabria, il completamento
del tratto di Cefalù, la terza corsia, e un lungo rosario
di cosiddette “opere minori” disseminate sull’intero
territorio della Penisola. Terzo elenco di annunci trionfali, con
immediato smemoramento, quello dell’Alta Velocità, cioè
della rete che dovrebbe accorciare drasticamente i “tempi di
percorrenza” fra Torino e Trieste, fra Milano e Napoli, mentre
restano nel cassetto le buone intenzioni sulle linee Adriatica (Venezia-Lecce),
Jonica, (Reggio Calabria-Taranto) e Tirrenica (Napoli-Reggio Calabria).
Anche per le metropolitane abbiamo un primato negativo: 38 chilometri
a Roma, contro i 400 di Londra, i 200 di Parigi, i 140 di Berlino,
i 131 di Madrid, i 110 di Stoccolma, i 103 di Hannover, i 101 di
Amburgo, i 79 di Monaco, i 77 di Barcellona, i 59 di Newcastle,
i 59 di Bucarest, i 55 di Varsavia. Cifre noiose, forse, ma emblematiche.
Roma, si dice, ha sotto la terra più archeologia di quanta
ce ne sia in superficie. Questa storia andava bene parecchio tempo
fa. Oggi la tecnologia consente di scendere e scavare anche oltre
i trenta-cinquanta metri, e a queste profondità non esiste
nulla, se non le stratificazioni geologiche naturali.
Caso per antonomasia: il Ponte sullo Stretto di Messina. Un progetto
nato nel non vicino 1968, per il quale sono stati spesi fino a questo
momento, senza alcun risultato apprezzabile, circa 150 miliardi
di lire. Si dice: ci sono le corsie marittime (da Napoli a Palermo;
o da Napoli a Messina, ecc.), che eviterebbero il trasporto su gomma;
si dice anche che con i capitali richiesti per la costruzione del
Ponte si potrebbero ammodernare le viabilità calabresi e
siciliane, con annesso raddoppio di strade ferrate. Si aggiunge,
tuttavia, che il Ponte avrebbe “valore ideale”, cioè
simbolico, perché salderebbe la Penisola all’Isola.
Suprema scemenza, perché l’ “aggancio” è
espresso dalla storia, dalla lingua e dalla cultura, ed è
garantito dalla Carta costituzionale. Il problema, dunque, è
un altro, regolarmente eluso dai politici e dagli opinionisti, che
comunque si esercitano in diatribe sui costi del sullodato Ponte
(spese tutte italiane), mentre glissano su quelli del Fréjus
(altrettanto alti, ma da dividere con i francesi, determinati a
realizzare il traforo).
Un problema “altro”, dicevo. “Il” problema.
Quello del Mezzogiorno. Del quale timidamente si torna a parlare,
dopo anni di complice silenzio, di esilio del pensiero politico
e civile, di condiscendenza verso il terrorismo psicologico di certe
forze politiche non estranee a pulsioni razziste e separatiste.
Quello del “riscatto” del Sud, dopo la guerra civile post-unitaria
e lo spoils-system degli apparati produttivi d’epoca borbonica,
è stato la Massima Promessa, al limite della Profezia Biblica,
sistematicamente elusa. Una sterminata letteratura lo testimonia.
Un’intelligente premonitrice saggistica aveva anticipato che
l’Italia sarebbe stata quel che sarebbe stato il Mezzogiorno;
che sarebbe nata, altrimenti, una “questione settentrionale”
non meno acuta, anche se di segno opposto rispetto a quella meridionale;
che non sarebbe stato sufficiente “agganciare il Sud all’Europa”,
se simultaneamente lo si “sganciava” dagli sbocchi mediterranei.
Una classe politica e affaristica ottusamente legata ai privilegi
di aree, di imprese, di famiglie, ha perpetuato una sconvolgente
dicotomia, mettendo sotto accusa di volta in volta il borbonismo,
le mafie che mai si son volute eradicare, persino il clima che avrebbe
condizionato la voglia di lavorare dei meridionali, e altri alibi
tragicamente risibili, ancora oggi riecheggiati da giurassici opinion
makers e da bronzei voltagabbana.
Il Ponte come simbolo? Sì, se questo possa dare vitalità,
energia e slancio ad una rivoluzione infrastrutturale nel Sud e
nelle isole, quella culturale essendo da tempo in atto, almeno dal
momento in cui è stata impiccata la sottocultura della Cassa
per il Mezzogiorno, che è stata il grimaldello grazie al
quale il Nord ha continuato la storia dello spoils-system meridionale
con altri mezzi.
L’Italia, dunque, sarà quel che sarà l’Italia
intera. O non sarà che una “potenza marginale”
nel contesto dell’Unione e in quello, più equilibrato,
dell’asse euro-mediterraneo.
Cifre alla mano, il contesto avvilisce. Uno studio di Pier Luigi
Ciocca, vice-direttore della Banca d’Italia, confortato dalle
stime di alcune organizzazioni internazionali, dimostra che il deficit
di opere pubbliche in Italia ha provocato nell’arco degli anni
Novanta una perdita netta «valutabile in circa 13 punti percentuali
del Prodotto interno lordo»: sono stati buttati al vento 300
mila miliardi di lire. E non è tutto. Scrive Gentili: «L’Italia
gode sulla carta di una straordinaria posizione geografica. A nord
la Pianura Padana è cerniera pianeggiante che mette in comunicazione
la penisola balcanica con le terre franco-iberiche. Mentre, visto
da nord a sud, dalle Alpi a Lampedusa, lo Stivale si allunga in
verticale fino quasi a toccare l’Africa settentrionale».
Siamo una naturale via di comunicazione fra Europa orientale e occidentale,
fra Mitteleuropa e Mediterraneo meridionale. Ma questa via di comunicazione
strategica non ha canali navigabili, rotte costiere, ferrovie veloci,
autostrade sicure, valichi attrezzati. La retorica nazionale parla
di un “ponte per tre continenti”, ma è un ponte
perennemente traballante e sistematicamente intasato. E intanto
i 300 mila miliardi perduti da noi sono finiti fra le mani dei Paesi
dell’Unione che hanno approfittato della nostra micidiale lentezza
per valorizzare se stessi e i propri apparati infrastrutturali e
produttivi, generatori di benessere.
Resta da capire come mai siamo così ostinatamente incapaci
di realizzare le opere di cui tutto il Paese ha urgente bisogno.
Cesare Romiti sostiene che il fenomeno iniziò poco più
di trent’anni fa, «quando l’amministrazione centrale
abdicò a una delle sue funzioni principali: promuovere le
infrastrutture di base». Sergio Romano allarga il discorso:
per capire fino in fondo, e senza omissioni, ciò che è
accaduto, occorre tornare a quel momento della nostra storia in
cui il sistema politico subì una sorta di degenerazione patologica.
Mentre tutti i Paesi dell’Europa occidentale imboccavano, dopo
le turbolenze del ‘68, le vie della modernizzazione, l’Italia
precipitava in uno stato di cronica inefficienza politica e amministrativa.
Il governo perdeva gran parte della sua autorità. Il Parlamento
diventava un organo semi-esecutivo e semi-giudiziario, deciso a
instaurare una sorta di regime assembleare.
I Partiti non sapevano governare, ma potevano impedire che il governo
esercitasse le sue funzioni. I sindacati diventavano condomini del
potere politico. La magistratura ordinaria e amministrativa suppliva
alle deficienze dell’esecutivo e sembrava aspirare, in alcuni
casi, all’avvento di un’inconcepibile “democrazia
giudiziaria”. Il potere si frantumava in una miriade di diritti
di veto, ciascuno dei quali poteva rinviare una decisione alle calende
greche. Il labirinto italiano: ancora oggi un microscopico partito
(i Verdi) può bloccare il Ponte tra Sicilia e Calabria; una
“sospensiva” di un Tar può chiudere un cantiere;
la demagogica ostilità della sinistra al capitale privato
può impedire il varo di un’opera; la riluttanza di un
Comune (in non pochi casi primo nucleo di conciliaboli affaristici
e di scempio del territorio) può ritardare di molti anni
l’avvio di lavori utili all’intera Nazione; l’ostilità
di un sindacato (la Cgil, che, scomparse le tute blu, sembra raccogliere
ormai un po’ di colletti bianchi e una massa di immigrati extracomunitari
e di pensionati) può condizionare i tempi di progettazione
esecutiva del Ponte sullo Stretto. Ma che razza di Paese è
questo? Un Paese di incrociate sindromi di Stoccolma? O, insieme
ad altre, il Paese della sindrome di Siracusa?
Già, Siracusa. Oppure, più precisamente, le Siracuse:
Thyke, Acradina, Epipoli, Neapoli, Ortigia, le cinque aree urbane
che, unite, diedero luogo alla potente polis che espresse una delle
più celebri tirannidi del mondo classico. In questa megalopoli
magnogreca crollò l’utopia repubblicana, intesa come
sogno assembleare permanente fra eguali (sempre e comunque eguali)
di Platone. Roma e il Palazzo non possono essere Siracusa, nel frattempo
sono passati oltre due millenni, il pensiero politico si è
in qualche modo evoluto, anche se alcuni satrapi nostrani sembrano
non volersene accorgere, e a complicare le cose è intervenuta
l’economia globale, espressione che sta a indicare l’egemonia
di un Paese (e, a margine, di alcuni vassalli) su tutti gli altri,
dopo che una stravolta idea marxiana si è avvitata, strambando
sull’asse politico del pianeta e sparendo dal radar della Storia.
L’avviso ai naviganti è chiaro: le tre grandi aree del
mondo sviluppato (America del Nord, Giappone, Unione Europea) stanno
attraversando una delicata fase di transizione economica. La prima
è in posizione di atterraggio (morbido o duro?); la seconda
è in crisi di recessione dall’inizio degli anni Novanta;
l’ultima vede profilarsi il compito di sostituire la locomotiva
americana nel breve periodo. Dentro questi contesti, la soluzione
di problemi interni è lasciata ai singoli Stati, alla loro
capacità creativa, alla loro volontà di sfida. Il
“caso italiano”, nel quale sono incastonate le due “questioni”
del Sud e del Nord nelle rispettive singolarità, è
qui, nello svincolo da condizionamenti di ideologie logore, nel
rilancio della politica del fare, nella visione progettuale unitaria
non conclamata, ma coraggiosamente perseguita. Lascerà traccia
nella nostra storia chi travolgerà le regole dell’inaffidabile
via italiana al prolungamento del Basso Impero, che, al modo di
Saturno, non può e non sa che divorare i propri figli.
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