
Giugno 2001
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Le Giravolte |
percorsi
per: florio santini - marcella napoletano - a. b.
luigi scorrano - franco martina - salvatore masciullo - giulio palmieri
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Quello che so con certezza è che gli orologi
cadranno a pezzi dalle pareti, mentre la vecchia vite del castello,
figlia miracolosa della natura, continuerà a rifiutarsi di
morire.
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Mosaico semiserio dellasino
arpi
lasino arpista racconta
Provate ad indossare la più calda delle vostre
vestaglie da casa (non da camera), poi a preparare sul vostro tavolo
da lavoro una mezza risma di buona carta e tutti gli appunti dai
quali prenderete a scrivere, usando la vecchia, sempre più
vecchia, ma polemicamente insostituibile macchina portatile, riprova
annosa del vostro conservatorismo tecnico. Provate ad accendere
la luce da tavolo più sprecona, in quanto di rappresentanza
(per voi e basta); la luce che deve venire da sinistra verso destra,
visto che avete gli occhi arrossati dal lavoro notturno. Provate,
soprattutto, a versarvi due-tre dita di whisky, dopo aver caricato
la pipa. E il tardo pomeriggio: avete pronto in testa un articolo
sul quale meditavate da tempo. Provate a bere lentamente, beati
ed orgogliosi per come vi siete organizzati la vita, allinglese.
Provate ad accorgervi che lottimo whisky serale che state
bevendo è decisamente pessimo, dunque a rendervi conto che
vostra moglie, senza preavviso alcuno, sè messa in
testa di fare economia, acquistando allingrosso bottiglie
di sempre minor pregio. Provate, per favore.
Vi accorgerete che state diventando malvagi e pericolosi. Odierete,
infatti, come mai avete odiato un nemico, tutti quei cervelloni
che in TV o sulle riviste più serie e attendibili sostengono
i vantaggi di una tempestiva azione medico-socio-economica, intesa
a migliorare con severità la cosiddetta qualità
della vita.
Aggiungasi la rabbia di essere considerato, voi noto scrittore,
un qualunque lattante in fase di svezzamento.
* * *
Un ragazzo cortese dice di dovermi parlare. Lo faccio
entrare con misurata gentilezza; è il mio metodo, che poi
finisce a pacche sulle spalle, essendo ormai molti i giovani visitatori
che mi prendono per un guru, maestro spirituale indostano.
Si presenta come il cameriere che in estate mha servito qua
e là nei locali alla moda, però, aggiunge che fa lultimo
anno di Medicina, intendendo, poi, specializzarsi come ricercatore.
Dice di sapere da che cosa derivi quel misterioso brivido notturno,
cui accennavo nel precedente diario; e mi spiega tutto in termini
scientifici; non simbolici, alla nota maniera. Per fingere daver
capito qualcosa, concludo: «Insomma, funziona come una specie
di termostato». Risponde: «Bravo, professore; perciò
non deve assolutamente preoccuparsi; tutto parte da una glandola
che sta in mezzo alla fronte».
Non chiedetemi il nome di quel ragazzo; chiedetemi piuttosto per
quali ragioni io decisi di vivere, e a suo tempo morire, in questo
meraviglioso Salento. Episodi come questo sono più che sufficienti
a spiegare il segreto duna fortunata scelta.
* * *
Ly, laltra mattina, è rientrata al castello da non
so qual mercatino dei dintorni (li conosce benissimo tutti ed è,
per le caratteristiche somatiche, altrettanto conosciuta; oltre
che per la sua eccezionale gentilezza nei confronti dei mercanti,
come Oriente vuole), mostrandomi con aria trionfalmente affettuosa
un pull-over di lana che, diceva, mi sarebbe stato molto bene quando
fossero venuti ad intervistarmi, ogni giovedì mattina, gli
operatori di TV10. Non sempre mostro entusiasmo, quando mi regalano
indumenti che non ho scelto io; ma loggetto, stile Missoni,
vantava la dolce creatura, era simpatico, elegante, moderno e sobrio.
Il nostro amore non è normale, credetemi. La mia insolita,
gioiosa reazione ha fatto sì che Piccola Nuvola, avendo espresso
allatto dellacquisto qualche dubbio non sul modello
ma sulla giustezza della taglia, la settimana seguente ha dovuto,
per correttezza, acquistarmene un capo più ampio; altrimenti
avrebbe perso il suo fornitore, rimasto con un doppione in mano
[N.d.A., la taglia, invece, era giusta!]. E lo ha fatto volentieri,
allinsegna di una reciprocità che non mi fa certamente
maledire la morale del risparmio. Infatti, grazie a quel nostro
generoso amore, posseggo due cose identicamente belle: stessa lana,
stesso stile, stesso disegno, stesso colore; stessa gioia di vivere
senza uno screzio. Mai avrei creduto che, nella vita duna
coppia felice, un pull-over potesse significare tutto quello che
non dico, poiché, questa volta, lo capite anche voi.
* * *
Per vedere le mie esotiche cose, è venuta a trovarmi una
studentessa di San Francisco, riprova vivente delliper-alimentazione
della classe studentesca americana. Non ha perso tempo: oltre due
ore, mha tenuto in piedi, proprio in una difficile giornata
per il ginocchio bretone (vedi viaggio a Saint-Malo).
Sopra i miei famosi feticci, dettava apodittiche definizioni. Per
esempio: «Questo è un portacenere cinese» (No,
era un grosso cucchiaio da riso). «Questo è un portagioie
stile impero» (No, era un tabernacolo buddista). «Questa
è una vetrina sopraelevata, per esporre statue in porcellana»
(No, era il mio letto cinese). «Questa è unoscena
scultura da cerimonia tribale» (No, era una donna baulè,
alla quale, come nellAfrica primitiva, non era stato reciso
il cordone ombelicale, ritenuto bello). «Questo è un
pezzo di legno a forma di disco, con due buchi nel mezzo»
(No, era la preziosa maschera-luna che protegge i raccolti di certi
villaggi). «Questi sono posacarte in bronzo, fatti a mano»
(No, erano cavigliere per schiave in Costa dAvorio). «Queste
sono figurine fantasia, per passare il tempo» (No, sono pesi
di ottone, per pesare la polvere doro; ma anche proverbi di
antiche etnie africane). «Questa è una grossa chiave
in ferro battuto» (No, è una croce copta, trovata in
Kenya). «Questo è un minuscolo soprammobile davorio,
rilegato in oro» (No, è un anello nuziale vietnamita).
Il dolore al ginocchio aumenta; lascio sola la mia simpatica visitatrice,
perché continui tranquilla il suo scientifico
inventario...
* * *
Non rimane, se voglio superare con le mie forze questa specie di
crisi da astinenza, non rimane che scrivere sul fatto che oggi non
scrivo. Passeggio su e giù; riesco a pensare soltanto a questimprovvisa,
terribile incapacità di scrivere: è come fossi una
linea senza corrente, cioè senza temi, senza
spunti, senza occasioni da fissare sul foglio. Perché
questo non è scrivere, in quanto non è pensare. Perché
questo è soltanto voglia di scrivere, non sapendo cosa. Non
è nemmeno una sconcia masturbazione intellettuale, dato che
scrivere sul non scrivere non produce piacere. Manca, infatti, la
sana libidine di quando inizio a scrivere, sapendo cosa scrivere.
Sempre evitai, nella mia prosa, le ripetizioni, le cacofonie delle
parole ripetute. Ed ecco, invece: non so altro che scrivere sul
fatto che nulla, proprio nulla mi viene da scrivere. Il tempo, per
me già veloce e brillante, oggi sè fatto lento,
opaco, vuoto; vuoto come il mio cervello, capace soltanto di pensare
che vorrei disperatamente scrivere, ma non riesco a scrivere. Unica
speranza: che si tratti dun guasto passeggero, dun arresto
riparabile...
* * *
E una rugosa vite secolare, direi allegorica, che spunta
di fra le chianche saldate col cemento nel mio cortile. E
una vite malata, che non fa più uva ma non muore. Si ostina
a spuntare da quel misero spazio murato, che luomo le lasciò;
ed è giunta, lunga e legnosa come un serpente vegetale, sulla
terrazza sovrastante camera mia. Però, non è morta,
non muore, non morirà. Ho limpressione che, quando
un po di pioggia riesce a penetrare nelle fessure della pavimentazione,
cresca di qualche millimetro ancora; certamente mi sbaglio.
Quello che so con certezza è che gli orologi cadranno a pezzi
dalle pareti, quali opere di scienza arrugginita, mentre la vecchia
vite del castello, figlia miracolosa della natura, tenacemente continuerà
a rifiutarsi di morire.
* * *
Ho perduto il gusto di sentirmi definire dai medici un caso.
Non mi trovano più nulla di nuovo, che giustifichi una diagnosi
duna certa importanza e rarità. Il fatto è che
la vecchiaia rende insignificanti, anche clinicamente parlando.
Io ho il torto di non peggiorare...
Dovrei essere contento poiché, nella sostanza, tutto va avanti
secondo una tranquilla, se non fatale forza dinerzia; però,
non mi piace che i medici, vedendomi in forma, prima chiedano quantanni
ho, poi cerchino irritati qualcosa che non cè più
(secondo me) o almeno così sembra (secondo loro). Così
sembra, essendo il mio gusto di vivere (strategia gradita agli asini
arpisti) da sostenitore della forza antimateriale dello spirito;
contrariamente a quanto si crede, imboscato, mimetizzato; insomma,
nascosto nella sterpaglia, questa volta fisica, della mia intricata
esistenza anche biologica, anche patologica, anche con ospite clandestino
maligno a bordo.
Ieri mè appunto capitato di sentirmi visitare,
senza più gusto alcuno, da un medico che nemmeno mha
sollevato il pantalone sul ginocchio destro, che mi fa un male cane
specialmente la notte: non sapeva che sono divenuto un esperto in
effetti collaterali...
«Professore, quanti anni hai?».
Ho risposto con il consueto narcisistico orgoglio: «Settantotto!».
«E artrosi», ha diagnosticato lamico dottore.
* * *
Mi ha colpito il fatto che avesse le idee così chiare e
che non si degnasse daver paura. Probabilmente era un habitué
serotino del piazzale, con una radicata confidenza nella civiltà
contadina. Credo che il paese non gli abbia mai fatto guerra; e
lui aveva sete.
Per la verità, non è la prima volta che lo vedo: sempre
alla stessa ora, come i leoni in Africa. Di colpo, la mia noia è
scomparsa. (Parlo dun grosso topo fattosi castellano...).
Non scherzo, lora dellabbeveraggio è cronometrica
nella brousse. Sei sopra un gippone, magari in un parco
kenyota; il re degli animali ti passa vicino a testa bassa, proprio
alla maniera sordida e urgente del mio coraggioso topo casamassellese.
Anche il leone ha sete. Il fiume è lontano; gli altri animali
verranno dopo. Vedete, il fatto chio possa stabilire paradossali
rapporti di somiglianza tra usi e costumi di bestie diversissime
mi dà unimmodesta sensazione di grande esperienza,
che pochi hanno. Intanto, il topo di cui sopra, come la mia noia,
è velocemente scomparso; il leone, ricordo, lasciava dietro
di sé un penetrante odore di selvatico, anzi di felino; un
terribile sentore di rigno, si diceva in Africa, ma
sui vocabolari la parola non esiste. In un antico dizionario etimologico,
invece, ho trovato la definizione, che, nel caso del suddetto leone
(li ho frequentati), non è affatto ridicola come
sembrerebbe, perché rende lidea: Quel rancido
che lasciano le vivande cotte nellolio cattivo.
Insomma, vi prego di volermi credere: contrariamente a certa sapienza
supposta, il topo baronale non è poi schifoso come si dice
in giro. Ecco, oggi ho voluto combattere, con la noia, un luogo
comune...
* * *
Esistono comportamenti sia umani che animali i quali contengono
gli stessi messaggi. Ne ridiamo, poiché il parallelismo tra
i due modi di essere non ci piace; però siamo malvagi, in
quanto si tratta ugualmente di creature vive. (Attenti: la
legge del salotto per pochi dovrà essere al più
presto riveduta e corretta, come la Costituzione italiana!).
Un tempo avevamo una donna di servizio, decisamente primitiva, eppure
così spontanea nei suoi errori, da farsi perdonare con una
bella risata. Il suo comportamento riprovevole consisteva
nel portare cinque caffè in sala, quando le signore erano
tre, più il padrone di casa. Distribuiva le quattro tazzine,
poi prendeva la sua e si sedeva accanto a noi, sorridendo,
mentre le dame si facevano rigide per tanto ardire. In realtà,
voleva partecipare alla riunione, con la più cordiale curiosità
stampata sul volto sincero. Se, poi, non comprendeva i nostri discorsi,
Cosimina era contenta ugualmente.
Oggi pomeriggio, è accaduto qualcosa che mi ha riportato
ad affermare quanto detto in principio. Il parallelismo di comportamento
è stato evidente. Dunque, in barba allo sgranar docchi
delle gentili signore cherano venute a visitarmi, nel caso
avessi bisogno di qualcosa, essendo mia moglie in Francia, la Luli,
volpino tibetano arcinoto, senza un attimo di esitazione, con un
piccolo salto si è graziosamente accucciata sul divano, a
fianco (come avrà fatto a capirlo?) della visitatrice più
distinta; e non si è più mossa. Il suo messaggio:
«Anchio sono una femmina».
Sembrava, veramente, ascoltasse la nostra conversazione. Non si
muoveva e non disturbava, una volta conquistato il suo posto tra
noi; proprio come Cosimina. Mi chiedo che cosa ci sia di così
sconvolgente che faccia assumere alle gradite ospiti unaria
tanto scandalizzata, soprattutto ed è questo che non
capisco nei miei confronti.
* * *
Le due canine bianche, pur essendo di umili origini, hanno risolto
alla grande la loro condizione sociale di umili trovatelle super-incrociate.
Stanno sfoggiando un telefonino a testa dei più sensibili,
addirittura munito di chiamata silenziosa ad ultrasuoni. Non sento,
infatti, alcuna ossessiva soneria; però, vedo gli effetti.
Luli, dalla camera più lontana, dove preferisce dormire sola,
sul suo divano personale, cioè la storica volpina tibetana,
chiama sua madre Lulù che, invece, sonnecchia nella parte
opposta delle nostre stanze, cioè in fondo al cucinone (non
rinuncia alle sue origini proletarie).
Dun tratto, luna abbaia e, di colpo, laltra risponde:
si tratta di un intermittente avviso di pericolo, dei più
sofisticati. Per curiosità, spio dalla finestra del bagno
e vedo che, al cancello, cè qualcuno, sconosciuto,
che non ha ancora suonato, tuttavia sta per farlo.
Mai disprezzare i bastardi: sono utilissimi. Sono misteriosamente
muniti di congegni a luci rosse, le quali, anche se non appaiono,
da qualche parte del loro vigile sistema nervoso devono pur esserci.
In casi del genere, le due Terranova purissime, che mi costarono
qualche milione, dormono appunto come Angeli neri, chè
il nome del famoso allevamento dal quale derivano.
Dovendo ricavarne per forza una metafora ironica secondo il mio
costume, posso dire: Ecco perché, ai nostri giorni,
i meticci stanno facendosi strada!
* * *
La pulizia pasquale delle ammucchiate carte, quelle cadute in oblio
poiché dinteresse non generale, mi riserva ogni anno
gradite sorprese. Ero disperato per aver perso di vista Il Mondo
è piccolo, un quaderno del Veltro, pubblicato nel 1982, al
momento del mio rientro in patria. Mi piace riprenderne qui la parte
intitolata Commiato:
La 215, Dura lex, sed lex, ci restituisce inesorabilmente
al Ministero della Pubblica Istruzione, al termine di 14 anni di
servizio presso gli Istituti italiani di Cultura sparsi per il mondo.
Grazie alla Direzione Generale per la Cooperazione Culturale, Scientifica
e Tecnica, ora Direzione Generale per le relazioni culturali, del
Ministero degli Affari Esteri, rientriamo in Italia ricchi di esperienze
e conoscenze, le più varie, le più diverse dalla normale
attività di insegnanti. Molti colleghi tradizionali non resisterebbero
al ritmo del lavoro, che ci trasforma in organizzatori di settimane
del cinema italiano, di esposizioni, di concerti, di tutte quelle
attività racchiuse nella definizione che ci distingue: operatori
culturali.
Tutto questo termina bruscamente, senza possibilità doffrire
in altri modi allo Stato o ai privati le accumulate, laboriose e
personali, suddette esperienze e conoscenze di missionari laici
della cultura italiana allestero. Tutto finisce con la frase
ministeriale per compiuto quattordicennio.
Lasciamo cose e persone che non vedremo più.
* * *
Un grosso giramento di testa è difficile tentar di descriverlo:
un po come un terremoto privato e silenzioso, di tipo ondulatorio
e sussultorio in una.
Mi sono imposto di non cadere, ma non sapevo come intervenire consapevolmente
nel fenomeno: un fenomeno ruotante, in cui gli oggetti, attorno,
non erano più fermi; sembravano ognuno dotato di movimento
autonomo. La sensazione, pur non essendo dolorosa, incuteva timore
per la sua irragionevolezza. Le leggi fisiche della gravità
e dellequilibrio sembravano scomparse.
«Ecco perché pensai velocissimamente, mentre
ondeggiavo lo chiamarono giramento di testa, popolarmente;
anziché vertigine o capovolgersi dei sensi o pre-perdita
di conoscenza. La gente povera lo conobbe spesso e senza paura;
quando per denutrizione, quando per pressione bassa, quando per
qualunque emozione o dispiacere, quando per un male nascente. E
vero, non era la stanza che girava intorno a me; era la mia testa
che sbandava qua e là per la stanza, avendo in un attimo
perduto di colpo la più necessaria e tranquillante delle
virtù umane: la stabilità.
Pensavo anche ai buchi neri dei quali parlano gli astronomi;
forse venivo, così, aspirato dal nulla. Temevo, soprattutto,
che questa volta il mio meccanismo si fosse rotto sul
serio e che il fatto dovesse significare qualcosa. Poi, lambiente
di colpo ritornò immobile, ingiustificatamente fermo, poiché
nulla avevo potuto fare per fermarlo. E camminai.
* * *
Il sentimentale cemento che mantiene solidi, durante i legami dellunica
vera, disinteressata amicizia è quello che deriva dal comune
amore per la poesia, per la libera ispirazione, per il gusto del
sublime.
Molti rapporti umani svaniscono nella noia, nel disinteresse, sopraggiunti
allimprovviso per cause insite alla stessa azione consumatrice
del tempo. Prima si stava insieme, scambiavamo idee ed emozioni,
comunicandoci con assiduità ogni dettaglio; poi, dun
tratto, loblio; neanche volontario, però definitivo
e ingiustificato più di una morte improvvisa.
Questo fa pensare che lavere amici scrittori, attenzione,
scrittori autentici, sia una grande opportunità. Dovrei apprezzarla
di più; perché non deriva da un merito mio: è
soltanto un dono degli dei, quelli che presiedono non allespiazione
di presunti peccati, bensì allispirazione di versi
sinceri. Io leggo i tuoi; tu leggi i miei; questa la reciproca ricchezza;
quella che dovrebbe durare allinfinito.
Stamane, quando è giunto un libretto di versi da un antico
collega, che fu con me allestero a diffondere la cultura italiana
e che, ora, anche lui (lautoironia prima di tutto!), diciamo,
è in lista dattesa, ho riflettuto sulla grande fortuna
di cui godo.
Avere un amico poeta e malato, malato e poeta, come Piero Ferrari
di Roma, sta per una di quelle referenze che (siamo
nei giorni dei vati, dei voti e dei veti...) i poveri politici van
cercando a costo di perdere lanima. Quel libretto non lo recensirò,
non lo propaganderò; lo leggerò semplicemente, godendomi
la libidine del durare. Simili amicizie ti arricchiscono, anche
per quelle che chiamerò annessioni parallele di valore.
Spiego: Piero non sè fatto stampare da editori famosi
quanto famelici, bensì da un lodevole Tizio che
sulla locandina delle proprie pubblicazioni scrive: «...esiste
anche una mafia intellettuale che ha paura di raffreddarsi se si
espone ai venti freschi del pensare e dello scrivere».
* * *
Avrei voglia di spaghetti allaglio, olio e peperoncino. Ly
mi dice che già da due giorni ha messo le lenticchie a mollo,
perciò devo rimandare. «Ma per secondo incalza
allo scopo di distrarmi, introducendo una libertà di scelta
alternativa cosa gradiresti?».
Rispondo con entusiasmo che avrei voglia di una bella bistecca ai
ferri, senza alcun contorno. Richiesta non poi metafisica. Niente.
Mi sento dire che ci sono dei gamberoni freschi, da far fuori con
urgenza, alla provenzale.
Ma, allora, il programma dinizio, le graziose domande dapproccio,
erano soltanto, come direbbero ineffabilmente i politici, un progetto,
e basta?
Dopo limprevista sfuriata di ieri, amavo introdurre un episodio,
oggi, che senza trascendere, come invece avevo fatto io, lasciasse
intravedere ai miei lettori, quelli che esigo acuti e perspicaci,
lesistenza, dallaltra parte del nostro idilliaco rapporto
matrimoniale, di qualche attrito possibile, naturalmente perdonabile
in chiave ironica. Lumorismo reciproco è il sale della
nostra intelligenza; del nostro gusto per la giustizia distributiva;
per questo Ly e io non riusciamo mai a bisticciare,
salvo quelle pochissime, rispettose volte le quali finiscono sempre
in allegro pareggio. Come in questa occasione; ovvero, ecco perché
soltanto un filosofo toscano può sopportare una dolce donnina
asiatica, quando con infinito affetto gli propone di scegliere speciali
pranzetti, che lei ha già scelto.
* * *
Ieri sera, ho trovato nuova conferma che i mansueti, i gentili,
i timidi vanno soggetti ad improvvise, sacrosante esplosioni dun
carattere che pochi supponevano loro.
Terminata la consueta paternalistica, accademica presentazione ufficiale
di un suo libro (di racconti), lAutore ha parlato brevemente,
senza però vantare, come avrebbe potuto la propria opera.
Quando parte del pubblico, sempre oberato da precedenti impegni,
già si era alzato per lasciar la sala del club cittadino,
uno dei tanti che ancora esistono e resistono al Sud, non so cosa
sia successo al suo pensiero di letterato. Ha detto che aveva una
cosa da aggiungere: la sua timida, debole voce si è alzata
di tono; il suo pallido viso sè fatto sanguigno; e
sè messo a gridare che noi, poeti di provincia, siamo
condannati a farci leggere soltanto da poca gente locale e ammanicata.
Lo avrei abbracciato in piena sala: «Le nostre pagine non
arrivano fuori zona, benché spendiamo di tasca nostra per
farci pubblicare! Gli editori, che invece sono stampatori, non curano
la distribuzione dei nostri libri nemmeno nelle librerie cittadine!
Per orgoglio, infine, regaliamo le nostre speranze, fresche di stampa,
a due un soldo!». E stato come fossi io a parlare; era
antica rabbia; erano le mie ambizioni, rimaste frustrate; era un
mai supposto gemello intellettuale, che ripeto avrei
voluto abbracciare in mezzo alla sala.
* * *
Permettetemi di tracimare da una giornata allaltra, restando
però in argomento. Sapori a parte, questo dialetto spiritoso,
applicato ai cibi, ha una sua vis comica che mi attrae.
I nomi sanno di buono, ma anche di antico; la terminologia è
colorata da una specie di umorismo, oserei dire, agricolo.
Anche un profano capisce che le cipolle, quando sono ben farcite,
dovranno chiamarsi cipoddhe; oppure che gli involtini
dinteriora dagnello sono per forza detti turcinièddhi.
Siamo nel regno delle parole onomatopeiche. Per il gran lavoro di
braccia e di mano, la pasta fatta in casa sarà detta non
a caso fricìddhi. A proposito, le molte h
che avete trovato nel mio testo, in genere dopo le doppie consonanti,
sono quel particolare suono che rese facile ai meridionali pronunciare
molte parole inglesi, al tempo dellemigrazione...
Daltra parte, quale dicitura può meglio render lidea
di cosa cucinata in brodo, semplice e caldo, magari a base di fave
fresche; quale vocabolo, appunto onomatopeico, può essere
così espressivo come quel a mmenèscia,
che spiega in un colpo solo le meraviglie duna minestra patriarcale?
La fantasia di questa gente saggia ha creato un tipo di vocabolario
contadino, dove tiella fa pensare alla nostra teglia;
dove, quando un involtino oltrepassa la sua classica misura e si
fa notevolmente grosso, sarà detto cazzemarre;
dove, per la loro preziosità, questa volta dorigine
cittadina, certi dolci di mostarda a forma di raviolo non potranno
non essere chiamati, con terminologia più scelta, chinnulìddhi.
* * *
Lo so che, se continuo a esprimere giudizi oggettivi su questambiente
chio amo, finirò col farmi odiare. Ma come si fa a
non trovar difetti, proprio quando vorremmo non criticare, bensì
soltanto migliorare una consuetudine che, fra laltro, vien
da lontane tradizioni?
Il fucile appeso al muro: una specie di status simbol,
paragonabile alla Mercedes dei mafiosi. Vi rendete conto dei pericoli
che comporta? Quante volte abbiamo letto di ragazzi che hanno giocato
con larma del padre?
Il fatto è che, oggi, sono rientrato al castello con una
rabbia in corpo, che non provavo in Africa, da quando ero stato
testimone di atrocità innominabili.
In uno dei nostri dolci paesini, cera un bel cane
legato ad un albero; un cane che disturbava un tale chera
andato in casa a prendere, appunto, come niente fosse, il suddetto
fucile (sempre a portata di mano) per sparargli. Io lho saputo
dopo ed è stato meglio; mia moglie lha saputo prima
e, da donna asiatica che ha vissuto quelle guerre da noi viste soltanto
al cinema, subito, insieme ad una ragazzina che vorrei tanto conoscere,
è corsa a salvare quel povero cane dalla facile fucilata
dun miserabile uomo, che invece vorrei tanto non conoscere.
«Portatelo via, portatelo dove vi pare; questo cane disturba;
altrimenti gli sparo». Così la sentenza, fattasi temporeggiatrice,
grazie al coraggio di due donne.
Intanto, quel fucile dal facile uso è di nuovo attaccato
al chiodo. Voglio sperare che, almeno, sia scarico e denunciato.
* * *
Mè venuta voglia di parlare (il che, per me, significa
scriverne). Nuovamente, saranno i ricordi a venirmi in aiuto.
Per esempio, rientrai in Italia dallOriente portandomi dietro
in aereo, con notevole spesa e disturbo, un enorme mazzo di orchidee
rosse. Erano false; la cosa buffa è che, da quella volta,
cominciai ad amare i fiori come mai avevo fatto prima.
Prima, seccavano e morivano; ora, grazie allarte del bello
falso, che poi, in quanto durevole, è quello vero, potevo
circondarmi di fiori rarissimi, super-colorati. Non chiedevano cure
donnesche. Li spolveravo ogni tanto; comunque, erano stupendi anche
polverosi. Ebbene, per anni hanno resistito ai traslochi, alle diverse
disposizioni, alle cure costanti di un uomo che, non potendo più
amare le donne, ama i fiori, loro immediato valore sostitutivo nel
regno della poesia pura.
Piacciono, perché non sono fragili; si lasciano piegare con
complicità, da un sito allaltro. Ma, ed
è questo il vantaggio del falso nei confronti del vero, non
dentro terracotte colme di vermi, bensì in vasi cinesi, giapponesi,
thailandesi, sempre di porcellana preziosa.
Laltro giorno, limprevedibile giustizia degli esteti
mha premiato: avrei voluto essere non un grande giardiniere,
solo un fotografo. Dimentico che la mancanza di radici rende il
fiore finto sempre pronto allinterpretazione. Infatti, ho
visto venirmi incontro la più femminile ed espressiva delle
mie cagnone nere, che ormai ben conoscete. Teneva fra i denti lultimo
rosso boccio, mai sbocciato, della pianta superstite duna
vita artificiale, eppure mai, mai avvizzita: uno spettacolo!
* * *
A ben pensarci, la cultura non comporta allegria; anzi, se niente
cè, appesantisce la pagina e riduce chi, cortese, si
sforza di leggere, in triste musone. Ho sempre usato
questa parola ad indicare coloro i quali fanno una fatica da matti
a sorridere.
E però vero che quel ritorno filosofico di fiamma,
cui accennavo qualche giorno addietro, non ha giovato alla cordialità
del mio diario-seconda parte. Bene, depongo libri e ricordi e passo,
come in principio, a più amene prose. Non crediate sia facile,
poiché di cristiani ne vedo pochi; devo cercar
nuovi argomenti, magari ripetendomi, tra i cani che vedo in ogni
attimo della mia cinofila esistenza.
Sono loro che insegnano a vivere con ordine la mia giornata. Quando
giocano a mordersi, non prima delle ore nove e mezza, i loro furibondi
ringhi (non è vero: recitano!) mi svegliano puntualmente.
Due bastardine bianche contro due molossi neri: è uno spettacolo
da circo equestre. Accade che una piccola testa finisca dentro unenorme
bocca, che addirittura la contiene (ma non stringe!); allora, intervengo
di forza con un giornale arrotolato a tubo, chè il
quadruplice loro terrore per il chiasso che fa.
Poi cè la seconda fase. Tutti e sei in cucina, per
la cerimonia del caffè. Esistono biscotti durissimi a forma
dosso che, a parte quanto costano, tolgono ai cani la voglia
dun vero e proprio pasto; inoltre, non so perché (esperimento
condotto personalmente), consigliano il sonno alle nostre quattro
femmine (se non è luna e laltra, sono sempre
in calore), assatanate anzichennò. Lingresso ai maschietti
è vietato...
Che tristezza, il buoncostume! Quanto una nota di diario che non
parli di cultura, come avrei voluto. Lasino arpista si vergogna!
* * *
Attorno a me, in questa terra ricca di velleità letterarie,
nascono e muoiono con assidua alternanza riviste e rivistine, rassegne
e periodici duna certa pretesa. Quelle che non muoiono non
sono poi eccezionali, salvo la lodevole tenacia a durare.
Io spedisco a destra e a manca corrispondenze fresche, fresche,
spesso con abbonamenti sostenitori di supporto, perché, ove
cessassero duscire, non avrei più il piacere di leggermi.
Gli errori di stampa, frequenti e marchiani, mortificano ogni volta
la soddisfazione di vedermi ospitato. Sono errori imperdonabili,
che sconvolgono il già poetico significato del pezzo,
scritto con tanto amore. Sono offese belle buone, che lasciano
il segno, ovvio, negativo. Gli errori che più odio sono quelli
che, se il lettore non è attento, potrebbero non sembrare
tali; dunque, il senso del discorso andrebbe anche bene, creando
una specie di falso in atto pubblico. Ne sono ossessionato.
* * *
Credo purtroppo che una certa perdita di colpi sia
allorigine dellantico ritardo organizzativo di questa
gente. Per esempio, le riunioni si ripetono, anzi si sprecano; poi,
nascono manifestazioni inaspettatamente rachitiche, se confrontate
alla diligenza iniziale. Una processione, una sagra, un raduno,
una gita parrocchiale, una gara di pesca o di ballo finiscono sempre
per deludere ogni legittima attesa. Insomma, questa poetessa è
mancata allappello ed io ho riposto le cinque
poesie, che già avevo scelto per la programmata manifestazione.
Cè una cosa, però, in questo profondo Sud che,
in sostanza, non ama gli affanni e dove, di conseguenza, si muore
tardissimo (per questo, ho deciso di non muovermi!), quasi mai dinfarto,
una cosa che, al contrario di tutto il resto, supera senza sforzo
le popolari aspettative: la luminaria, meglio, le tante luminarie
dedicate ai non pochi patroni di turno. In questi casi, si sviluppa
automaticamente un insolito spirito diniziativa; le lampadine
divengono migliaia e funzionano a dovere.
* * *
Non so perché: vorrei tentar di spiegare questo mio stato
dansietà. Probabilmente, è leffetto Editore
che mi stampa a sue spese. Un fatto meraviglioso è
accaduto, quasi incredibile. Ricordo: per far pubblicare i miei
libri dovevo trovare il denaro necessario; in questo campo, nessuno
ti dice: «Pagherai». Vige, infatti, uninflessibilità
mercantile, che addirittura ridicolizza lantico adagio Litterae
non dant panem.
In casa mancano alcuni quadri, ovviamente quelli di maggior valore,
che ho dovuto vendere lungo una stramba carriera di scrittore in
proprio. Spesso, li rivedo con gli occhi del rimpianto; mi chiedo
dove saranno andati a finire. Daltra parte, come esiste lorgoglio
di chi compra, esiste lorgoglio di chi vende; soprattutto,
se non puoi proprio sopportare di sopportare uno sponsor;
parola usata, abusata e umiliante. La cacofonia è volontaria:
mi accade di essere spiacevole e tautologico, quando voglio mettere
in evidenza un sentimento: in questo caso, il rigetto dun
pur benevolo, quanto necessario, santo protettore, che la mia vecchia
passione per la libertà individuale sempre rifiutò
e sempre rifiuterà.
florio santini
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Lumanità
ha trasmesso la sua cultura per secoli attraverso varie forme di cantilene,
diverse per ritmo, velocità, contenuti e valori sociali. |
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Poesia
per il terzo millennio
Riascoltiamo tutti con piacere i versi dei poeti italiani imparati
nei banchi di scuola e quando capita di risentirli, non si può
fare a meno di recitarli di nuovo come una volta. Sembra come se
quei versi facciano parte di noi, anche a distanza di molti anni.
Negli anni che precedevano lultima riforma della scuola primaria
e secondaria, si dava molta importanza alla memoria e il modo più
corretto per esercitarla era quello di conoscere, interpretare,
capire, memorizzare e distinguere per stile e contenuti i maggiori
poeti italiani. Lultima riforma, invece, non sembra dare molta
importanza alla memorizzazione che, tuttavia, è un esercizio
della mente che andava promosso nei programmi delle scuole di ogni
ordine e grado.
Mandare a memoria una poesia è certamente più facile
di una prosa, sia essa la più bella e interessante: il ritmo,
la rima, le assonanze riescono a concatenare bene tutte le parole,
le une alle altre, cosicché è più difficile
dimenticarne qualcuna; inoltre, ritmo e rima fanno comprendere meglio
lo stato danimo del poeta che scrive.
Questo è il principale motivo per cui alle origini della
storia umana la tradizione si affidava esclusivamente alla trasmissione
orale attraverso varie forme di motivi vocali ritmati. Le storie
degli dei, le imprese degli antenati, le stirpi, le discendenze,
le formule magiche di scongiuro contro i mali, le alternanze delle
stagioni, tutto quanto era cultura, apprendimento di esperienze
delle generazioni precedenti, di regole sociali e di comportamenti
umani, veniva espresso in una forma ripetitiva di cantilena. Il
ritmo veniva fortemente scandito con laccompagnamento delle
mani o coi piedi e più tardi con laccompagnamento musicale
a due o tre note che aveva un suono sempre uguale, monotono, ripetente
dello stesso motivo per far sì che rimanessero impressi nella
memoria le rime e i significati.
Gli strumenti musicali, come il flauto, la lira e la cetra, si arricchirono
di qualche nota in più con il passare del tempo e, tra canto
e poesia, rimanevano bene impresse nella memoria anche le occasioni
solenni in cui si recitavano versi.
In tutta la poesia antica si può parlare più di ritmo
che di versi perché è tutta una successione di elevazioni
e abbassamenti di voce che ritroviamo nel dattilo e nello sponteo
latino. Lumanità, dunque, ha trasmesso la sua cultura
per secoli attraverso varie forme di cantilene, diverse per ritmo,
velocità, contenuti e valori sociali. Ancora oggi, i popoli
che conoscono poco la cultura scritta si servono delle cantilene
o filastrocche come mezzo di trasmissione di sapienza spicciola:
proverbi, conoscenze meteorologiche e di calendario, pratiche per
ottenere la buona salute, formule per allontanare i nemici del corpo
e dello spirito e così via. Nulla di più confortante
per chi vive giorno per giorno della sapienza dei vecchi. La cantilena
era ed è, per alcuni popoli, garanzia, autorevolezza, sicurezza
che ciò che si verificava non era un caso eccezionale, ma
già sperimentato dai vecchi che indicavano i rimedi possibili
e auspicabili.
Quando la cantilena abbia ceduto alla poesia non è databile,
ma certamente, nellambito particolarmente ristretto delle
classi colte di un tempo, ci fu la prima rivoluzione che cambiò
il mondo delle rime.
Naturalmente non appena la poesia è stata inventata, è
stata la forma più elevata di espressione letteraria tra
coloro che possedevano larte dello scrivere e leggere.
Dalla cantilena e dalla filastrocca, nasce la poesia prima cantata,
poi recitata e prosegue nei secoli il suo glorioso cammino. Filastrocca
e poesia si ricongiungono solo quando la cultura scritta diventa
cultura di massa, quando, cioè, le scuole si aprono a tutti.
Chi ha imparato a leggere e a scrivere non si fida più della
saggezza contenuta nei proverbi e nelle cantilene e le abbandona
come fatto primitivo e le concede allinfanzia; le filastrocche
diventano cose per bambini e i poeti che scrivono per bambini conservano
nella filastrocca una forma allegra e facile, ma la svuotano del
contenuto sapiente che era la caratteristica essenziale dellantica
maniera. Il contenuto diventa giocoso e scherzoso e la facilità
dapprendimento fa sì che essa si affermi nel tempo
anche come esercizio facile per la memoria.
La decima musa, come ebbe a definire la poesia Melchiorre Cesarotti
nellundicesimo secolo, ha percorso il suo cammino nel tempo,
rispettando e conservando la sua musicalità nelle regole
che le varie accademie del passato le avevano affidato, tanto che,
per definirsi poeta, era necessario conoscere le leggi che la governavano.
I poeti che abbiamo conosciuto attraverso gli studi della letteratura
italiana hanno sempre rispettato le leggi che governano i versi
e pur conservando il denominatore comune di tali leggi, li si riconosce
subito, non appena si legge qualche rima. Ognuno conserva la propria
personalità, lo stile, la musicalità e il dramma di
uninfelicità individuale che diventa il dramma universale
attraverso la loro poesia. Neppure le varie e ribelli correnti dellOttocento
e del primo Novecento hanno ignorato le leggi della poesia. I crepuscolari,
gli ermetici, gli scapigliati, ecc., tutti conservano la musicalità
e il valore dei versi.
Scrivere e riconoscere oggi la poesia letteraria non è facile
anche perché attraversiamo un periodo di mancanza di chiarezza
assoluta sulle regole che dovrebbero governare la poesia del Duemila.
Ci troviamo, infatti, di fronte ad una specie di prova dorchestra
in cui chi scrive va a senso e si scrive una poesia che va più
alla ricerca di parole forti che di metrica, struttura e stile.
Poesie che una volta lette è impensabile mandarle a memoria
e che non si aggrappano al nostro animo in quanto non esprimono
quasi mai sentimenti universali o, se li esprimono, non sono facilmente
comprensibili.
La poesia letteraria deve avere necessariamente delle regole, siano
esse antiche oppure nuove affinché il pensiero poetico possa
essere musicale e conservare le caratteristiche come strumento di
memoria storica. Deve saper parlare direttamente al
cuore e alla immaginazione senza passare per la ragione, senza ricorrere
alla sua mediazione; infatti, poesia significa suscitare unimmagine
per comparazione, senza ricorrere ad una scientifica e fredda descrizione
delle cose. La similitudine deve essere pura, netta, senza parole
inutili, efficace nella sua semplicità, tale da conquistare
subito la mente e il cuore.
Poesia, però, significa anche parlare in un linguaggio musicale
e armonioso, come il canto dal quale essa nasce. Scrivere una poesia
richiede, quindi, una profonda conoscenza della lingua, delle parole,
e unaltrettanta profonda sapienza delle leggi che regolano
il verso. La metrica stabilisce come si debbano legare insieme le
parole per ottenere la musica e larmonia. La stilistica stabilisce
in quale chiave scrivere. E una scelta personale
del poeta che scrive e ne definisce il gusto.
Sarebbe necessario mettere un po di ordine nella poesia contemporanea.
Ad esempio, bisognerebbe chiarire la posizione del verso sciolto,
che è un tipo di verso che cerca qualche armonia solo posizionando
il soggetto e il verbo di un periodo in luoghi diversi dal solito.
E vera poesia, questa? E lirica in prosa e, allora,
scriviamo in prosa!
Siamo tutti capaci di emozionarci di fronte ad un panorama, ad
un sentimento dettato dallamore per qualcuno, ad una giornata
piena di sole o di pioggia, ma non è possibile definirci
poeti per queste ragioni. I veri poeti hanno armi pregevoli e, spesso
naturali, per scrivere poesia.
I grandi poeti contemporanei sono pochi, non si leggono, non si
ascoltano; essi stessi non si propongono, forse perché si
ritiene la poesia un genere letterario anacronistico, oppure perché
è difficile ottenere la pubblicazione di un libro di poesie.
Eppure, più luomo viene sovrastato dalla tecnologia
e più lanimo umano ha bisogno di sorreggersi in qualche
modo per non soccombere.
Se, dopo un migliaio di anni di studi di metrica e stili, il verso
si è sciolto, scoppiato, quasi scomparso verso la fine del
Novecento, che succederà della poesia letteraria fra qualche
tempo?
Non è facile analizzare una poesia oggi, perché è
necessaria una vera preparazione su quello che si vuole intendere
per tale e a volte è pure difficile leggere una
poesia. Una volta colto il fatto che cè alla base della
composizione, si dovrà distinguere poi quanto cè
di convenzionale, quanto è frutto dellinfluenza dellambiente
per giungere infine al valore concreto della poesia in esame come
espressione di sentimenti eterni e universali.
Bisognerà riesaminare o dettare le nuove regole poetiche
del Terzo Millennio, anche per rispettare, come in un eterno presente,
quelle leggi alle quali ognuno possa attingere da quelle forze innumerevoli
di uomini che ci spingono avanti per non dimenticare nulla delle
loro esperienze, affinché possiamo aggiungere ancora una,
la nostra.
marcella napoletano
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I ricordi, frammenti di un unico Canzoniere, ricreano atmosfere,
delineano volti e voci tramati di echi, con un velo di limpide risonanze
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Frammenti di un Canzoniere
Ha scritto Lajos Fülep: «Lartista è luomo
che si libera completamente del lato esistenziale, utilitario e
pratico, che si può distinguere nella percezione e intuizione
del presente, è colui che si ricorda anche del presente,
che mette fra se stesso e il presente la stessa distanza che cè
fra il presente e il passato. Questa distanza uguale nella quale
si allineano davanti a lui le cose è la forma. Lartista
è colui che abolisce la nozione del tempo e del presente».
Così la filiera poetica di Elio Romano, che dai giorni della
Vita dentro a quelli degli Anni del grano si è fatto voce
del suo mondo interiore intessuto di sottaciute e struggenti tenerezze,
di silenzi colmi, di sogni mai finiti, di desideri mai spenti, di
pensieri trepidi, di slanci rattenuti più che conclamati,
per una schiva riservatezza che non si chiude al mondo, ma neppure
vi si confonde e smarrisce. I ricordi richiamati nei suoi libri,
frammenti di un unico Canzoniere, ricreano atmosfere, delineano
volti/voci tramati di echi, con un velo di limpide risonanze che
non si vagheggiano o compiacciono, ma solo si dicono e, nelle parole
che le specchiano e traducono, si realizzano, appagano, e ri-coniugano.
Tutto ciò che è stato, in realtà non finisce.
Nel presente, anche il passato si ritrova e rivive, e proprio per
questo il verso è ricco di richiami e suggestioni, nella
sua nuda essenzialità: nulla fa naufragio nei porti in cui
Xeno-Elio, trovatore-isola di cangianti estuari, approda, perché
la vita vissuta e serrata riaffiora alla coscienza con la fresca
immediatezza e con lassorta musicalità delle proiezioni
della bellezza e della sua verità.
Quella di Elio Romano è ormai storia dal respiro lungo. La
sua affabulazione lirica ricostruisce le immagini, le memorie e
le presenti emozioni, che tuttavia non si cristallizzano, ma acquisiscono
il pregio dellatemporalità e attingono ai significati
eterni dellamore. Amore: lemma di siderale rarità ai
tempi di Internet. Allora lesperienza del mondo, ovvero la
costruzione/costrizione della realtà, provoca percezioni
sospese, ritorni e proiezioni di monodiche cadenze, sempre in attesa
dellultima (attingibile?) rivelazione. Ed è proprio
in questo spazio liminare, in questa mobile linea dombra tra
conoscenza e mistero, tra presenza e assenza, tra fuoco e cenere
della poesia, che si situa il percorso sentimentale di Elio Romano
e del suo saldo-contrappuntistico e lineare-fantastico magma creativo.
a. b.
Jet Lag
Tjuana 18.03.97
Se ti sognassi soltanto,
potrei dire
di averti solo sognata.
Invece io ti penso,
bozzolo di spiriti fatati,
nel turbine
di latitudini
di questa improvvisa
tregua da te.
Ancora più che prima
mosaico atzeco,
miracolo
di mia vita.
Cabo da Roca
Lisbona agosto 97
Goffa
spuma
donde
scriteriate.
Sciame
di pensieri
abbattuti
dal più
occidentale
vento
di chi resta.
Jet Lag
Marrakech 31.10.99
Se ti sognassi soltanto,
potrei dire
di averti solo sognata.
Invece io ti penso,
bozzolo di spiriti fatati,
nel turbine
di latitudini
di questa improvvisa
tregua da te.
Ancora più che prima
mosaico atzeco,
miracolo
di mia vita.
Cabo da Roca
Arbatax 07.07.2000
Goffa
spuma
donde
scriteriate.
Sciame
di pensieri
abbattuti
dal più
occidentale
vento
di chi resta.
La tessitrice berbera
LHavana 12.02.01
Vedo ordire
lana viva,
colori,
canicola daltra stagione.
I suoi occhi
di dattero
meritano uguale meraviglia.
In questi giorni
di finti ozii
tu mi cerchi
con voce azzurra
di jacaranda.
Io ti dono
le mie
caute melodie.
|
Un gioco di trasparenze in cui Romano filtra la propria riflessione
su individuo e mondo, su generose illusioni e calcolati ritorni
allordine.
|
|
Un poemetto
di Lucio Romano
Lucio Romano ha voluto innalzare un monumento poetico a un conterraneo
illustre, il pittore Gioacchino Toma, e lo ha fatto come solo può
farlo un poeta: ricorrendo alla parola, elaborando un poemetto.
Il titolo rinvia a un genere sfruttato in verso e in
prosa fin dallantichità: quello del romanzo epistolare:
Lettere di Gioacchino Toma a Eduardo Dalbono. Non uno scambio di
affetti e di pensieri, di considerazioni sulla vita e sullarte,
ma lo srotolarsi di un piano e confidente colloquiare per voce sola,
quella del protagonista. Preso labbrivo dallinvio della
stesura dei Ricordi (i Ricordi di un orfano, una parziale
autobiografia del pittore galatinese), Romano procede dentro e fuori
le pagine di quelli estraendone qualche motivo, arricchendone qualche
accenno, concedendo allinvenzione il non detto o il non affiorante
nelle pagine tomiane.
Linterlocutore del Toma nel poemetto è un altro noto
pittore, Eduardo Dalbono; qui, però, quasi un interlocutore
fittizio, un tu al quale parlare come a se stessi.
La parabola delluomo e dellartista che a sé ripensa
e a se stesso confida, prima che ad altri, malinconie e crucci,
speranze e ardori di giorni brucianti di passione civile, pena dellirrealizzato
e delusione dellesistere, diventa parabola autobiografica,
gioco di trasparenze in cui Romano filtra la propria riflessione
su individuo e mondo, su generose illusioni e calcolati ritorni
allordine, su quanto è slancio creativo e quanto si
fa inerte obbedienza a un canone, a unastratta regola o, comunque,
a un vedere e sentire tale da ostacolare il libero corso di verità-poesia.
Il poemetto si articola in tre tempi, con una distinzione che non
crea cesure tra luna e laltra parte, come attesta la
numerazione continua delle lettere. Se mai, la pausa tra una sezione
e laltra giustifica il coagularsi di tre tempi-temi: il primo
è quello delle aurore dellinfanzia, sogno
perduto e pianto; il secondo, quello del duro confronto tra le persuasioni
che sorreggono e le smentite indotte dagli anni dentro un vento
di mutamenti che disorienta e ferisce; il terzo, infine, un tempo
di riepiloghi, e lo si potrebbe dire un tempo dei morti
in cui la vita si strema in un soffio ultimo di pudica protesta
e lazione possibile si riduce allo spianare i dirupi
/ del domani tra il bianco delle tele / e un grigio di colore nelle
mani. E si giunge fino al riconoscimento di una aridità
immedicabile: Ero passo e ripresa. / Ora il punto e poi basta.
Non è, certo, la ricostruzione di un contenuto, di una vicenda
che si segue nelle pagine di Romano. Una vicenda cè,
ma è quella sottesa: del legame che salda, dallo ieri alloggi,
una risorgente condizione dellarte che mira a farsi generosa
voce capace di interpretare i sogni più arditi degli uomini
e che si trova, oggi come ieri, a scontrarsi con quanti la adattano,
la asserviscono, la tradiscono.
Poesia-racconto, quella di Romano, qui sottolineata e giustificata
dalla forma scelta, quella della lettera. Ma poesia che nel suo
dire piano e confidente si struttura in un insieme circolare; linizio
annuncia per metafora ciò che la conclusione denuncia in
modo oggettivo, la certezza di qualcosa che è finito ma che
pure ha avuto una sua pienezza di senso. E questo che resta
al di sopra delle malinconie e delle delusioni.
La lingua della poesia di Romano aderisce quasi sempre felicemente
alla narrazione. I ricordi sono peso e costrizione:
sofferenza comunque, ma anche portatori di resurrezioni. Vero rima
con nero, e sempre vi si accosta. La memoria corrisponde a quegli
interni che il pittore predilesse e che si fanno metafora di una
ispezione della coscienza.
Il termine coloristico predomina il nero non serve
un cromatismo estrinseco, ornamentale: qualifica una situazione.
Un tecnicismo come prospettiva fuoriesce dal ristretto campo pittorico
per caricarsi di più modulate valenze semantiche. Scuro,
tomba, nebbia, vuoto, notte fanno un tessuto verbale dangoscia
e dassenza.
Qualche durezza prosastica (per es., allinizio: Ti mando
la stesura dei Ricordi e non, come simmaginerebbe in
un rapporto epistolare amichevole, Ti mando i miei Ricordi),
qualche eco di letture non compiutamente metabolizzate (il residuo
di cardarellismo che cè in: Dellinfanzia...
che mi disse addio e di Cardarelli si ricorderà
Autunno) non influiscono né sulla compattezza del dettato
né sulla coerenza del tessuto linguistico. Nella dizione
scarna, ma attraversata a tratti anche da una vocalità impetuosa,
la parola tiene il campo con la sua assolutezza e il suo valore;
dice lessenziale dun austero senso della vita, e dice
soprattutto se stessa e la sua forza comunicativa.
luigi scorrano
Da Lettere di Gioacchino
Toma a Eduardo Dalbono
III
Era il suo un parlare semplice
dei morti e nati del vicinato,
un libro vero delle storie del paese
di quelle almeno che lei visse
durante i suoi trentanni.
Le notti dinverno alzandosi il vento
attaccava col Requiem aeternam
convinta fosse il pianto dei defunti,
poi rovinò per terra
e non disse più nulla.
Ti sto scrivendo, Eduardo,
di Pietrina Strati, di mia madre:
lei-breve-madre, mia-madre-breve.
IV
Allalba cè lincompiuto
e spettri mi si parano davanti,
in fila indiana,
ogni istante diversi,
cani dalle terribili fauci.
Poi il grido delle pietre
tocca il giorno, rivive
sulle strade dove avanza
un frastuono di carri,
ma nei fili della mente
resistono le aurore dellinfanzia:
dava mani alle funi il campanaro
di Santa Caterina chera notte,
poi traini lenti con ruote ansimanti
rompevano il silenzio del selciato
e sopra i giardinieri come santi
a predicare il verde delle rape.
VIII
Se il nero resta nero
i miei quadri si logorano,
salta la prospettiva
e la casa mi si svuota
di vivi e di penombre.
Prese da solitudini le sedie
si lamentano negli angoli,
la mano pure, la mano
si sfinisce sulle tele:
girando e rigirando
in cerca dombre
diventa una baccante
che rovina.
X
Non è riflusso nel privato ma rinuncia
se mi domandi Eduardo come avvenne
ti rispondo accade
il cielo di giugno la sera una vampa di fuoco
sapre un grande lenzuolo dipinto di teste
il tramonto sincendia resiste di luci
io conto il tempo ancora sui ricordi
poi invece di modelle le baldracche
io sempre più io gli altri sempre più altri
una strana rinuncia mi prende decido
meglio in fondo laggiù dietro le quinte
la mia storia sè fermata
e quella degli altri
accade
come nelle locande di domenica
sono partiti tutti.
XX
Dici che sono esperto in prospettiva:
sarà perché trascorro con la mente
lunghe notti a spianare i dirupi
del domani tra il bianco delle tele
e un grigio di colore nelle mani.
O forse perché io non conosco unArte
senza contese per interni, per vallate,
senza pretese dun Eufrate.
XXV
Se poi nevica
pure a Napoli accade
(e ripenso linfanzia)
io sto come un vecchio
accanto al fuoco
(di memorie).
XXVI
Il mio giorno, Eduardo, lo sai,
fu rigato di virgole, parentesi
tonde, colori fiochi e sbiaditi.
Lo scuro dietro il grigio
nel frastuono dei passi.
E il nero dellinfanzia
che racchiude memorie.
Ma niente, niente
passa ormai il convento
alle mie tele bianche.
Ero passo e ripresa.
Ora il punto e poi basta.
|
Lesilio non nasce dal rifiuto sociale espresso dal paese
natale, ma da una più precisa, complessa, a volte tragica
condizione: quella del rifiuto di un presente sentito
come estraneo.
|
|
L'esperienza civile nella
poesia di Lucio Romano
A una prima lettura il volumetto di Lucio Romano si presenta come
una sorta di interpretazione della figura di Gioacchino Toma filtrata
e quasi caricata attraverso un processo di identificazione, che
mira a dare linfa e voce alle aride possibilità letterarie
del pittore di Galatina, rendendo così più viva e
intima la comprensione della sua esperienza umana e intellettuale.
Ma un esame più attento lascia scorgere unaltra possibilità.
Versi come:
|
Ti sto scrivendo, Eduardo,
di Pietrina Strati, di mia madre:
lei-breve-madre, mia-madre-breve. (20) |
fanno sentire, al di là del riferimento storico-biografico,
un sovrapporsi di esperienze, più che un semplice ri-pensare
laltrui esperienza. Insomma, ci sono momenti, passaggi in
questopera, che fanno pensare a una immedesimazione nata non
da una volontà interpretativa, quanto dalla condivisione
di un comune destino, elaborato proprio grazie a un autonomo lavoro
di interpretazione.
Qual è il destino che Romano sente di condividere con Gioacchino
Toma?
Si ha limpressione che tale destino vada individuato in una
condizione di esilio. Certo, due forme diverse di esilio,
che hanno però un medesimo effetto: un misto di delusione,
di solitudine, di senso della sconfitta. A differenza di Toma lesilio
di Romano non nasce dal rifiuto sociale espresso dal paese natale
o comunque avvertito come tale, né dalla distanza rispetto
a un mutato clima culturale (62), ma da una più precisa,
complessa, a volte tragica condizione: quella del rifiuto di un
presente sentito come estraneo, opaco, vuoto.
|
Ma è tremendo, Eduardo,
credimi, è tremendo
come proprio il passato
coi suoi morti mi ostacoli
il presente, e lasci stanze
vuote, partite perse,
frasi come uneco. (23) |
Un sentimento di solitudine, di senso di dislocazione, che nasce
da una condizione non individuale, perché è il portato
di una specifica situazione storica, anzi di una realtà in
cui non cè più storia:
|
La mia storia
si è fermata
e quella degli altri
accade
come nelle locande di domenica
sono partiti tutti. (28) |
Chi si sentiva parte di un processo storico, chi sentiva la propria
razionalità come espressione e articolazione di una più
grande, sociale razionalità, chi identificava il senso della
propria vita con quello della realtà stessa, non poteva non
restare annichilito di fronte allavanzare terrificante del
vero delle pietre, (così come doveva sentirsi lidealista
Toma in un tempo di arido verismo), che scopre città
morte, senza aurore né venti, senza senso né orizzonte;
in cui le storie si accatastano, tra silenzi di pietra,
tra valanghe di memorie rovesciate come le macerie degli edili:
lì sono sepolti i colori dellEden, irraggiungibili,
persi.
Eppure, questo destino, intrecciato con quello di Toma, è
a doppia faccia. Nel senso che Romano, come Toma, non intende piegarsi
alla delusione, non accetta il riflusso nel privato.
Sentire allora il vento dei ricordi che batte, schiudere le imposte
sul passato significa non solo resistere alla tentazione di vedere
nei ricordi il fazzoletto bianco della resa, cioè rifiutare
unimmagine del passato come insopportabile fardello di crimini
e orrori, quasi una sorta di buco nero della storia che ha inghiottito
ogni senso di umanità e di libertà, ma sentire tutta
la forza e grandiosità del processo storico che si è
interrotto:
|
...fiumi di storia
passata
che dimprovviso sarrestavano, riunioni
dietro i casolari, e schiavi incatenati,
e Cristo, i Gracchi, le Leghe tra operai,
e in questo passare di fiumi di storia
io guardavo trasalivo meditavo. (25) |
Di qui il ripiegamento sul passato, sui ricordi:
|
Lassassino
dei sogni
mi costringe a ricordi. (23) |
I sogni non sono una fuga dal presente, né una sorta di
teleologismo capovolto, che cerca nel passato i segni per leggere
il futuro. Anche nello smarrimento della constatazione della fine
del vento che avanza nella storia (31) la sua resta
una visione interamente, puramente laica. Cera, in quel passato,
la speranza per laffermarsi di una soggettività piena
che sapesse e potesse esprimersi nel confronto come nello scontro;
che potesse realizzarsi come eguaglianza di cittadini, come giustizia
sociale; sogno di una società in cui la coscienza individuale
è garanzia a se stessa, contro le astute strumentalizzazioni,
le surrettizie manipolazioni, le interessate imposture. In questo
senso, porre nel passato il filo che porta a un possibile futuro
significa vedere in quel passato un valore che, come una meta regolativa,
può ancora impegnare gli uomini nella lotta per il loro miglioramento:
|
forse questo
è la storia: un sempre
camminare stanco e lento, senza soste,
ogni giorno negarsi al vero delle pietre (31). |
Ha osservato Aldo Vallone che la passione civile e morale è
una costante della poesia di Lucio Romano 3 e questopera ne
è, se ce ne fosse un ulteriore bisogno, la prova. Anzi, qui
è possibile vedere meglio che altrove qual è in lui
il rapporto tra la poesia e lesperienza civile.
Larte è per Romano il luogo di ripensamento della prassi;
il momento in cui le verità giudicano se stesse e poi si
stemperano in dubbi, non solo esistenziali.
Affidare allarte il compito di ritrovare un senso
alla storia significava evidentemente non appiattirla nel ruolo
di fredda testimone del tempo, ma spingerla in quello ben più
arduo di critica del tempo: larte può trovare il senso
della realtà solo se si distingue da essa, se sa vedere oltre
le macerie il filo che lega il passato al presente, cioè
se sa cogliere il senso della speranza. Speranza, non certezza.
Verità di uomini che non si rassegnano al vero delle pietre
e guardano avanti come guidati da una meta regolativa, e si incamminano
compresa Maddalena.
franco martina
|
|
|
Come si dolgono i rami
dinverno
Linedito
Testimonio lora crepuscolare
Testimonio lora crepuscolare,
i tagli vivi nei rami spogli,
il mandorlo nevicato e il pesco in fiore,
le persone che scendono dallospizio
a prendere il poco sole.
Guardo nella custodia celeste
i cinesini in avorio
e quegli altri
intagliati nellebano
a tirare la tartaruga marina
e mi rallegro
perché hanno unespressione felice
e chi porta una scure
e chi un forziere doro.
Così ho male alle ossa
come si dolgono
i rami dinverno.
A teatro
Mi misi un vecchio smoking
e con Silvana in pelliccia
andai a teatro. Ma,
a un intervallo,
una signora dantiquariato,
appena dietro alla nostra fila,
mi indusse a darle la mano,
più tardi mi venne un dolore
in un fianco
che mi fece molto pensare
alla Morte di Ivan Ilic
di Leone Tolstoi.
Emily Dickinson
Se leggi Dickinson
tu tocchi elettricità
o gelo
e senti aria dAntico Testamento
e vedi una flora, una fauna
prese forse dal dizionario
dalle mani della reclusa dAmherst.
Ercole Ugo DAndrea è nato nel 1937 a Galatone
(Lecce), dove risiede.
Studi classici, laurea in lettere, insegnamento nella Scuola
Media. Il suo primo libro di versi esce nel 1964, nei Quaderni
del Critone. Sono seguiti Spazio domestico (Rebellato, Padova,
1967), Ozi, negozi (Firenze, Vallecchi, 1973).
Nel 1981 esce Bellezza della madre (Cavallino, Capone). Del
1989 è La confettiera di Sèvres (Lacaita, Manduria),
che gli vale il premio nazionale Il ceppo doro, a Pistoia.
Nel 1990 esce Fra grata e gelsomino (Garzanti, Milano).
Del 1994 è il nuovo libro che si intitola Il bosco
di melograni (Passigli, Firenze). Nel 1997 viene edito da
Lacaita il volume Lorto dei ribes di corallo. Del 1999
è Scardanelli, edito da Passigli (Firenze). DAndrea
ha dato alle stampe diverse plaquettes, come Lanello
di Giada, Nozze mediterranee, libretti stampati dalleditore-gallerista
fiorentino Piero Pananti.
Fra le collaborazioni a riviste, ricordiamo quelle a Nuova
Rivista Europea, Arte e poesia, Forum
Italicum, Piazza Navona, Galleria,
Contrappunto, Limmaginazione.
Hanno scritto di lui Elio Filippo Accrocca, Mario Luzi, Silvio
Ramat, Luigi Paglia, Gaetano Chiappini, Sergio Salvi, Mario
Marti, Donato Valli, Oreste Macrì, Francesco Tentori.
Le poesie che presentiamo sono inedite e testimoniano di una
stagione un po in sordina. Ma le tematiche restano fedeli
a un nucleo originario fatto di affetti familiari, di attento
ascolto alle stagioni e al paesaggio vero, oppure un po
sognato. Paesaggio, se così si può dire, anche
umano, intessuto di amicizie salde e sodali che hanno accordato
a DAndrea, sin dallesordio, la loro stima, perché
dai suoi primi versi traspariva già chiara la vocazione
nativa, ma nello stesso tempo coltivata, per la poesia e lArte.
DAndrea sta lavorando ad una scelta di tutte le sue
poesie, che vede un impegno letterario pressoché costante
nellarco di più di un trentennio.
salvatore masciullo
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Titanio
Mi dicono che la protesi
che mhanno messo allanca
è di titanio, materiale
indistruttibile.
Almeno quello...
Libri non libreschi
I miei libri non sono libreschi,
forse un po Rilke,
Luzi, Machado e Lorca,
Eliot, Trakl,
Achmàtova, Esenin e Blok
e Caproni e Silvio Ramat
e altri sodali e maestri,
ma i miei libri non sono libreschi.
Un Dio
Mai nessun popolo mi ha dato un nome.
Senza numero per me si sono elevati templi
ove vago al tempo le genti hanno rinchiuso
nel silenzio di recinti impalpabili
loscuro timore dei loro brevi giorni.
Ho visto i loro sacrifici,
ho visto la loro muta lotta contro lignoto
prendere forma in occhi e mani
che una devozione oscura
pone immobili, in preghiera.
Ero là, sempre solo, sempre più dentro
le folle tumultuose, quando la civiltà
cominciò a fiorire nelle terre strette
dai due fiumi: con le acque imprigionate
nel sottosuolo durante il grande Diluvio
ho posto le fonti del Tigri e dellEufrate,
con mano possente nella scura terra
ho scavato i loro letti, affinché la vita
potesse insediarsi lungo le rive battute dalla sete;
ero solo uno dei tanti
che discendeva il corso del Gange,
il fiume celeste, per purificare lo spirito
dalle colpe e renderlo partecipe dei regni
distesi oltre mura invisibili alla morte;
ero là, lungo le foci del Nilo,
che attraversa fuggendo regioni infinite
ricoperte dalla sabbia e scomposte dal vento,
uno solo tra gli schiavi innumerevoli
impiegati dai re ad innalzare le imponenti
costruzioni che ne celebrarono le gesta.
Ho visto sotto il mio sguardo
nascere e spegnersi generazioni e generazioni,
ho visto le mura di Uruk distrutte dalla ferocia
del grande Sargon, crudele come il fuoco,
ho visto gli uomini edificare
mura possenti come labirinti
che un bambino costruisce ponendo
gradino su gradino e pietra su pietra
e chiamare questo opera di un dio.
Tutto ciò che essi anelavano
in quel cieco affanno senza fine
prima che avessero termine i giorni
a me fu dato sin dal primo giorno del mondo.
Persino il cielo furore delle battaglie
che sotto il sole combatterono innumerevoli
è soltanto
laltra faccia del loro timore oscuro.
II
Molte albe scandiscono la mia memoria
il tempo mi scivola addosso come acqua.
Sin da quando ebbi coscienza
in quellondeggiare privo dogni forma
capii che uno strano libro
diceva che il mio giorno era tutti i giorni,
e che avrei dovuto vagare tristemente
colla cenere sugli occhi, e non sapere mai
il filo inudibile e misterioso, la trama scaltra,
la sottile forma che aleggia sulluniverso.
Mi sembra a volte di sognare tra le vaste
città che popolano la terra una inabitata
ed indivisibile, fatta di pietra e cenere
e come me immortale, nel cui centro
una bambina dalle esili dita, china
sulla polvere quando giunge la sera,
traccia pochi segni ritmati da un metro oscuro,
i cui solchi misteriosi ed indecifrabili
nelle lente ore un vento magico scompone,
vago nella polvere lasciando lultimo senso.
Io possiedo la chiave di quei versi,
possiedo lo strano metro che una poesia
invisibile racconta prima della sera
e conosco anche il segreto sogno della bambina:
quello di vedere allalba un uomo
senza memoria che decifri i simboli
da lei disegnati e disegnati ogni sera,
ma lubicazione ed il tempo della città
mi sfuggono, di essa la memoria
trattiene un ricordo impossibile.
Una leggenda scritta dai latini
racconta questa città, di cui solitaria
una bambina è lunica abitatrice,
ripetuta in ogni storia ed in ogni decadenza
in ogni principio ed in ogni fine.
Per questo sono presente nelle albe delle civiltà,
per questo vivo coi popoli
confuso dentro le moltitudini,
i brevi giorni, le grida sotto il sole,
lonnipresente timore delle cose invisibili.
Giunge sempre per ogni mortale
lora della rivelazione, li insegue
come unombra dentro le tenebre,
come una luce sfinita dentro i meriggi,
vibra inconscia nel languore dogni sangue,
in qualsiasi impulso; paura e desiderio
non mostrano il burattinaio che con fili
eterni sul palco della vita muove le nazioni,
e mormora nei sogni dei re e dei solitari
quel segreto sfuggente come una vita intermi-
[nabile.
III
Parole nel vento, cenere che toglie
allo sguardo la vista lontana
delle ragioni ultime, e poi un esilio
lungo quanto limmortalità, cantato
con mille voci nelle sere ove qualcuno attese
un segno dal cielo: ho vissuto tutto questo
per calli di luce ed ombra ho mosso
il numero delle mie esistenze; lantico
ha lasciato il posto al moderno; sono caduti
gli eroi che per dieci anni di gloria
posero assedio ad Ilio dalle superbe mura;
la Sfinge parlò una volta e tacque per sempre;
nella polvere di Avalon lontano
nere veggenti vegliano il sogno di un re.
Termini sconosciuti affollano la memoria,
estinte sillabe dun alfabeto del Sud, lingue
che ho udito nelle notti inarrivabili
da guerrieri e da profeti, o da uomini
il cui giorno si è ripetuto nella discendenza.
Ho attraversato i secoli ed in ogni tempo
sono stato un uomo come in principio.
giulio palmieri
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