L’immagine
del collasso delle Torri Gemelle
è l’immagine
dell’Afghanistan che sbarca
a Wall Street,
del Sud del mondo che piomba nella culla del Nord.
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La povertà aumenta quando l’attività economica
diminuisce. E ora sta diminuendo: turismo, trasporti, assicurazioni,
azioni, hanno subìto l’impatto dell’attacco terroristico.
Chi ha entrate medie riesce a resistere alle fluttuazioni economiche,
chi è povero ha poche scelte: deve cessare di mangiare. Per
chi sopravvive con un dollaro al giorno, la riduzione dell’attività
economica ha conseguenze fisiche. L’ex ministro del Tesoro
dell’amministrazione Clinton, Larry Summers, fu il primo a
dire anni fa che l’arretramento dell’economia mondiale
fa aumentare la povertà. Non è un concetto economico
sofisticato, ma aveva ragione.
Ora ci si domanda se l’arretramento continuerà nel 2002.
Ebbene: dipende dalla fiducia dell’opinione pubblica. Al momento
arretra chiaramente il Giappone, arretrano gli Stati Uniti e anche
l’Europa comincia a riconoscere di arretrare: insieme, sommano
24 mila dei 30 mila miliardi di dollari dell’economia mondiale;
gli altri seimila miliardi vengono dai Paesi in via di sviluppo.
Non si può guidare la crescita del mondo con seimila miliardi
di dollari.
E’ molto chiaro che se i tre motori maggiori del pianeta continueranno
a perdere colpi, i poveri ne pagheranno il prezzo. Se invece vi
sarà una ripresa, le azioni torneranno a salire e gli investimenti
raggiungeranno anche i Paesi poveri.
Afghanistan o meno, la guerra non sarà vinta fino a quando
non affronteremo il problema della povertà e quindi le origini
dello scontento. In Afghanistan, come nelle regioni vicine e in
molti altri Paesi. La malattia è l’infelicità
che alberga nell’Islam e, più in generale, nel mondo
dei poveri. Vincere questa e altre guerre, significa occuparsi delle
radici di questa protesta. Povertà, infatti, è ineguaglianza:
non capirlo, significa chiudere gli occhi sull’origine del
rancore dei poveri verso il Nord del pianeta. Aprire gli occhi significa
che dobbiamo riconoscere innanzitutto che questo nostro mondo è
uno e unito. Se c’è povertà in un posto, c’è
ovunque. Se c’è miseria in Africa, c’è ineguaglianza
nel mondo islamico, e quindi c’è un problema per gli
Stati Uniti, per l’Italia, per i Paesi più industrializzati.
E’ necessario abbattere il muro che separa il G-7 (più
uno, la Russia, che è “osservatore”: dunque, G-8)
e i Paesi industrializzati dell’Ocse dal resto del pianeta.
Lo sostengo da tempo, ma gli eventi dell’11 settembre lo hanno
evidenziato. Per me, l’immagine del collasso delle Torri Gemelle
è l’immagine dell’Afghanistan che sbarca a Wall
Street, del Sud del mondo che piomba nella culla del Nord.
Se riconosciamo che la povertà degli altri è un nostro
problema interno, allora possiamo affrontarlo nella maniera giusta.
Primo: i Paesi in via di sviluppo devono mostrare maggiore responsabilità.
Secondo: il Nord deve aprire i mercati e incrementare l’assistenza
economica. Terzo: bisogna creare le condizioni per lo sviluppo del
settore privato. Il passo essenziale, però, è quello
di aprire i mercati.
L’Unione europea ha cominciato a compiere dei piccoli passi
verso l’Africa, ma prevede ancora sussidi per l’agricoltura
per un valore di 350 miliardi di dollari all’anno, quasi un
miliardo di dollari al giorno. Il totale degli aiuti elargiti è
invece di 50 miliardi di dollari. Questo significa che, ogni giorno,
l’Europa aiuta se stessa sette volte di più di quanto
fa con i Paesi in via di sviluppo. Abbiamo di fronte, nei prossimi
anni, negoziati difficili su agricoltura e tessili. Mi auguro che
riusciremo a stabilire un calendario per la liberalizzazione del
commercio e l’aumento degli aiuti dell’Unione europea
dall’attuale 0,2-0,3 allo 0,7 per cento.
Guardiamo che cosa è accaduto e sta accadendo nel mondo,
o almeno nei suoi punti caldi. Gli afghani sono stati molto concreti,
hanno chiesto di affrontare subito le questioni dello sminamento
del territorio, dell’educazione, della sanità, delle
infrastrutture di base. «Non uccideteci dandoci subito troppi
soldi», hanno detto. Bisogna ascoltarli. La ricetta per la
ricostruzione non può venire da Washington, da Parigi o da
Roma, ma dall’Afghanistan. Bisogna affidare a loro la gestione
degli aiuti, obbligandoli in questo modo ad assumersene la responsabilità.
E ancora. Elemento fondamentale per la ricostruzione, nei Balcani
come a Kabul, o in Cisgiordania e Gaza, è la creazione di
un sistema legale di garanzie per chi investe e di un sistema giudiziario
capace di combattere la corruzione. Inoltre, ovviamente, serve la
stabilità. Lo sviluppo deve sommare più caratteristiche.
Primo: presenza di un governo responsabile. Secondo: garanzia che
lo sviluppo non leda i diritti umani e non favorisca la corruzione.
In molti Paesi, nulla di tutto questo è presente. Guardiamo
all’Argentina: per anni ha preso troppi prestiti, si è
indebitata eccessivamente, tentando poi di tenere sotto controllo
un bilancio disastrato. L’errore di fondo è stato che
per anni questo Paese ha ignorato i segnali d’allarme per la
sua economia, così come noi oggi rischiamo di ignorare i
segnali d’allarme che ci vengono dalla povertà. I prossimi
due miliardi di abitanti della Terra nasceranno nei Paesi in via
di sviluppo, in India, in Cina, in Africa. Avremo a che fare con
loro. Meglio occuparcene subito. O sarà tardi per tutti.
L’Istituzione
La Banca Mondiale è formata da 183 Paesi che la gestiscono
attraverso il Consiglio dei Governatori e il Consiglio dei
Direttori, con sede a Washington. Ogni Paese membro possiede
delle azioni del Gruppo “Banca Mondiale”. La principale
attività è l’aiuto ai Pvs (Paesi in via
di sviluppo): istruzione, lotta alla povertà e alle
epidemie, come l’Aids, sono tra le maggiori iniziative.
Nel 2001 ha elargito aiuti per 17 miliardi di dollari, oltre
35 mila miliardi di lire. E’ presente in oltre cento
Paesi del mondo. Nel quartier generale della Banca, a Washington,
lavorano seimila persone provenienti da ogni parte del pianeta.
Gli italiani sono circa settanta, fra loro due vicepresidenti:
il bolognese Cesare Calari, nominato di recente, è
alla guida del settore finanziario.
Lo zar della lotta alla fame
Economia, musica e scherma distinguono il curriculum di James
Wolfensohn, nato in Australia nel 1933 e naturalizzato americano.
Specializzatosi ad Harvard, divenne responsabile degli investimenti
della Salomon Brothers, vicepresidente della Schroeder Ltd
e presidente della Henry Schroeder Bank di New York. Per l’Australia
servì come ufficiale della Royal Air Force e come membro
nel team olimpico di scherma. La prima elezione alla guida
della Banca Mondiale arrivò nel 1995 e fu poi rinnovata
nel 2000. Nel 1996 fu lui a lanciare l’iniziativa a favore
dei Paesi più indebitati. Ha un debole per il violoncello:
è presidente emerito della Carnegie Hall di New York.
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