|         I ruderi delle cattedrali
 nel deserto,
 e le vicende
 delle fabbriche della morte stanno oggi
 a testimoniare
 il prezzo pagato
 a quelle scelte.
   |  | Esattamente fino al 1973 la ricerca scientifica non aveva evidenziato 
              la tossicità elevata del cloruro di vinile. Nella sentenza 
              di assoluzione del Tribunale di Venezia questo è stato un 
              passaggio-chiave. Il Presidente ha indicato il 1973, appunto, come 
              uno spartiacque tra il regno dell'inconsapevolezza e dellinnocenza 
              e lavvento della consapevolezza, della responsabilità 
              e della colpa. Senza rendersene conto, il giudice ha copiato lo 
              storico. Per Charles Maier, infatti, il Novecento comincia nella 
              seconda metà dellOttocento e finisce proprio in quel 
              73 in cui moriva il primo di quei 157 operai del Petrolchimico 
              di Porto Marghera, Ennio Simonetto, un ragazzo grande e forte che 
              crollò a terra in un mare di sangue.Secolo delle ciminiere, lo chiama Maier. Non le guerre, 
              non i totalitarismi, ma lindustria che funzionava con grandi 
              ciminiere fumanti è il cuore duro, il nocciolo emblematico 
              del Novecento: dopo il 1973, a quella fase storica è subentrata 
              unaltra, caratterizzata da produzioni industriali in cui la 
              fabbrica diventa laboratorio, con produzioni di tipo elettronico 
              più che a carbone «o con altre energie che fumano».
 Prese insieme, la sentenza del giudice e la periodizzazione dello 
              storico ci suggeriscono una verità sconcertante e apparentemente 
              paradossale. Fino al 73, ai fumi e alle fabbriche si guardava 
              come a un fenomeno intrinsecamente positivo, che andava solo lasciato 
              espandere, portando ovunque il benessere e la tranquillità 
              sociale. Anzi, non era nei campi dellagire politico e dellideologia 
              che si ritrovava il segno distintivo del XX secolo, ma proprio nella 
              generalizzazione alla totalità delle relazioni umane dei 
              metodi e dei valori della produzione industriale, diventati il centro 
              motore della vita sociale.
 Il sistema di fabbrica sfondava le barriere ideologiche e trovava 
              adesioni convinte sia nello sfrenato industrialismo del capitalismo 
              occidentale sia nelle grigie file della nomenklatura sovietica. 
              Marghera sorse nel lontano 1917, si affermò sotto il regime 
              fascista, conobbe il suo massimo sviluppo negli anni del miracolo 
              economico: tre assetti istituzionali diversi (lo Stato liberale, 
              il Fascismo, lItalia repubblicana), tre rotture 
              politiche, ma una sostanziale continuità; per tutti, il modello 
              vincente era quello dello sviluppo industriale. LItalia, come 
              ultima arrivata, sceglieva quella strada con la voracità 
              e con limpazienza dei neofiti. Unintera classe dirigente 
               a destra, come a sinistra  guardò allindustrializzazione 
              come alla soluzione radicale per i nostri problemi, a partire dal 
              Mezzogiorno, che si voleva affollare delle mitiche tute blu. 
              Per la sinistra era necessario sconfiggere larretratezza e 
              sviluppare le forze produttive: più operai, più organizzazione, 
              più forza politica. Per gli industriali, si trattava di cogliere 
              al volo il flusso di denaro pubblico che veniva indirizzato verso 
              i poli di sviluppo. Per il partito di maggioranza relativa 
              e per i suoi governi era loccasione per insediare allo sbocco 
              dei rivoli di spesa pubblica una nuova e rampante classe politica, 
              alternativa ai vecchi mediatori dellimmediato 
              dopoguerra. I ruderi delle cattedrali nel deserto, (Gioia 
              Tauro, la Sir di Porto Torres, ecc.) e le vicende delle fabbriche 
              della morte (lIpca di Ciriè, lAcna di Cengio, 
              Seveso) emerse successivamente, stanno oggi a testimoniare il prezzo 
              pagato a quelle scelte.
 Per gli stessi operai entrare nelle fabbriche dei fumi 
              era un traguardo, il raggiungimento di uno status che non era soltanto 
              la sicurezza economica. La centralità della fabbrica, la 
              sua capacità di condizionare non solo il sistema produttivo, 
              ma anche lesistenza collettiva delle società industrializzate, 
              aveva unimmediata ripercussione sulla rilevanza del loro ruolo 
              sociale. Inseriti nel cuore della produzione, essi avevano un peso 
              contrattuale di gran lunga superiore a quello delle altre categorie 
              dei lavoratori. In tutti i Paesi industrializzati (in Italia a partire 
              dal 1961) erano non soltanto la categoria più numerosa, ma 
              anche quella che contava di più sul piano delle decisioni 
              politiche. Compatti, organizzati, in grado di incidere efficacemente 
              con le proprie lotte sulla macchina produttiva, rappresentarono 
              nello stesso tempo il motore che alimentò il nostro sviluppo 
              e anche lantidoto alle sue degenerazioni.
 Erano cinquantamila a Marghera, nel momento di massima espansione 
              degli stabilimenti. Oggi, sono di gran lunga meno e sono anche molto 
              soli. Anche le 157 vittime, quando cominciarono a lavorare al Petrolchimico, 
              non pensavano certo di cominciare a morire. Si sapeva che cerano 
              dei rischi ad operare in quei reparti e a maneggiare quelle sostanze. 
              Ma erano rischi che valeva la pena di correre, compensati comerano 
              dal protagonismo politico e da un profondissimo senso di appartenenza. 
              E poi, quei rischi si potevano monetizzare. Così si diceva 
              allora. Gli scienziati tacevano, la proprietà rassicurava 
              e minimizzava, i sindacati monetizzavano. Il conflitto sindacale, 
              anche nelle sue punte più aspre, si fermava comunque alle 
              soglie dellintangibilità del modello industriale, delle 
              sue regole, delle sue compatibilità, dellintrinseca 
              positività dei fumi e delle stesse ciminiere. I primi dibattiti 
              sulla salute, le prime lotte contro la nocività sgorgarono 
              dallinsofferenza e dalla radicalità dei gruppi extraparlamentari 
              e di settori minoritari del sindacato (di matrice prevalentemente 
              cattolica).
 Si era già proprio negli anni 70, usati come periodizzazione 
              dal Tribunale veneziano, e cominciava unaltra storia. Il declino 
              della fabbrica fordista tendeva a ridimensionare drasticamente la 
              centralità operaia. Nella sinistra, la convivenza 
              tra la vecchia anima industrialista e la nuova anima ambientalista 
              si fece immediatamente difficile. Dieci anni dopo, in quel che restava 
              della Val Bormida, sarà lAcna di Cengio a fotografare 
              questa spaccatura dura e impietosa, con i picchetti operai chiamati 
              a difendere insieme la fabbrica che uccideva la Valle e il proprio 
              posto di lavoro. Più che una lotta, era una muta testimonianza 
              di pura sopravvivenza.
 Oggi, i commenti degli operai del Petrolchimico appaiono schivi 
              e quasi reticenti. La loro centralità si è 
              smarrita con la fine del secolo. Resta lafasia, e resta la 
              grande paura della disoccupazione, insieme con langoscia per 
              una decisione della magistratura che chiama in causa non soltanto 
              le loro condizioni materiali, ma direttamente e senza alcuna mediazione 
              le loro stesse condizioni di vita.
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