Da quel momento,
il problema Sud
sarà a totale carico
dell’Italia che potrà continuare
a tirarselo dietro
come un gatto morto o abbandonarlo alla deriva dualistica.
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A raccontarlo è stato il Governatore della Banca d’Italia:
c’è stato un momento in cui l’Europa stava per
andare in baracca. Accadde nella «drammatica notte tra il
24 e il 25 marzo 1998», durante una riunione dell’Ime,
alla fine della quale si doveva stilare il rapporto tecnico per
l’ammissione alla moneta unica. Antonio Fazio ha rivelato che
fu costretto a far balenare l’idea che se l’Italia non
fosse stata accolta nel gruppo di testa dell’Euroclub avrebbe
potuto anche uscire dallo Sme, mettendo in crisi l’intero progetto.
Per evitare il fallimento dell’accordo, Governatori e ministri
delle Finanze e del Tesoro fecero un passo indietro, ritirando i
veti sull’ingresso dell’Italia. Da parte sua, per scongiurare
la bocciatura, Fazio promise agli altri banchieri centrali che Roma
avrebbe mantenuto un avanzo di parte corrente, per far fronte a
una riduzione concreta e visibile del debito pubblico.
E’ un frammento di verità storica molto importante,
che in qualche modo si collega alla questione del mandato di cattura
europeo, nel nome del quale l’Italia ha minacciato per la seconda
volta di farsi da parte dal concerto europeo, se non fosse stata
accolta la richiesta della certificazione di autenticità
degli atti rogatori, in sostituzione delle pure e semplici fotocopie,
e della verifica da parte di un giudice delle indagini preliminari
europeo degli indizi e degli elementi di colpevolezza ipotizzati
da un pubblico ministero, a tutela delle garanzie di difesa dell’imputato.
Richiesta legittima, al di là di veri o presunti “giacobinismi
giudiziari” attivi nel Continente, e momento di chiarezza non
soltanto formale, in scacco al moloch di Bruxelles che si regge
su un coacervo di leggi che occupano già, poco più
o poco meno, qualcosa come ottantamila pagine.
Si potrebbe parlare di prove tecniche di voce alzata da un’Italia
che “s’è desta”, dopo essere stata per troppo
tempo europea in stato di necessità e omologa per complesso
d’inferiorità, quasi annullando quanto avevano creato
le generazioni dei De Gasperi, dei Martino, degli Altiero Spinelli.
Ed era ora che il nostro Paese, bistrattato da una politica non
proprio nobile, da un’economia familistica, da un’antropologia
culturale e morale ipocritamente ecumenica, prendesse posizioni
esplicite, anche per rintuzzare le campagne ormai insopportabili
che leader e giornalisti stranieri (compresi alcuni beoti corrispondenti
da Roma, abituali lettori di quotidiani di provincia e riassuntori
di gossip in voga nei salotti e cenacoli della capitale) portano
avanti con la determinata volontà di inchiodare l’Italia
in una sorta di serie cadetta europea e di lasciarla ai margini
degli “assi” Parigi-Berlino, o Berlino-Londra, o perfino
Bruxelles-Parigi.
Mai, infatti, come da qualche tempo a questa parte, l’Italia
è stata citata con tanta frequenza dai quotidiani occidentali,
dall’americano Wall Street Journal al tedesco Bild Zeitung,
al francese Le Monde, al britannico Economist, allo spagnolo El
Pais. Ovviamente, per parlarne con sufficienza. Dopotutto, l’Italia
è il centro del Cattolicesimo, e il Cattolicesimo –
com’è stato notato – è ad un tempo una componente
troppo interiore e troppo irritante dell’eredità politica
anglosassone (e per certi versi anche neolatina) perché negli
Stati Uniti sia dimenticato lo sbarco dei Padri Pellegrini, nocciolo
nucleare del fondamentalismo, o ci si scordi nel Regno Unito dei
giorni di Maria Tudor e del Complotto delle Polveri, o si riconosca
in Germania che gli inquisitori luterani mandarono al rogo più
innocenti di quanti ne condannarono insieme Torquemada e Roberto
Bellarmino, o ci si vergogni in Francia del genocidio in Vandea.
Molto probabilmente, ora politici e giornalisti europei non possono
far finta che niente sia cambiato in Italia. Intanto, non dovrebbero
più aver materia prima per attaccare il Bel Paese come prodotto
del capitalista vilain di Arcore, perché l’Italia non
è un suo prodotto, è lui stesso il prodotto della
politica dell’Italia. E non saranno più credibili se
insisteranno su una Roma europeista distratta e clientelare, dal
momento che a Bruxelles, a Francoforte e a Strasburgo non manda
più autisti, portinai e donne delle pulizie, ma cervelli
come Mario Monti e Tommaso Padoa Schioppa. E perché è
vero che l’Europa è la nostra cultura e il nostro territorio
storico, ma l’Unione europea non rappresenta la nostra legittimazione
di persone e di popolo. E oltre tutto: dove si possa arrivare senza
l’Italia, nessuno può dirlo. Non è pura astrazione,
però, presumere che un’Europa monca, anche se butterà
alle ortiche le tante maschere e i mille tabù con i quali
continua a convivere, condannandosi alla mediocrità, possa
finire su un binario morto.
«Nata e cresciuta nella crisi, nella crisi l’Europa può
naufragare»: così dice l’appello che la seconda
generazione dei Padri europei (quella dei Kohl e Schmidt, di Andreotti
e Barre, di Rocard, di Gonzales, di Jenkins) ha lanciato ai capi
dell’Ue. Che è come ammettere: quest’Europa è
malata. Lo è da quando la storia del mondo ha cominciato
a correre a velocità supersonica e a mutare natura. Lo è
dall’89, quando andò a pezzi l’ordine costituito
nel ‘45 e i Paesi dell’Est continentale si liberarono.
Lo è ancora di più dopo le Twin Towers, con la data
di nascita del geoterrorismo. Da quel momento l’Europa ha perso
ogni nozione del tempo e dello spazio. Euro o no, Costituzione continentale
o no, di fronte a un mondo che si disorganizza modificando se stesso
e le proprie finalità e vocazioni, l’Europa continua
a contemplare la propria sconnessione e immobilità come se
nulla di tragico sia avvenuto. Eppure, dopo i capitoli – in
gran parte occulti – della Guerra Fredda, gli eventi mondiali
hanno cominciato a divenire più visibili e rapidi: per tenerne
il passo, occorreva moltiplicare il ritmo della nostra andatura.
Così come era necessario allargare la prospettiva dell’orizzonte,
perché dopo che l’economia e la finanza erano state
all’avanguardia nel pilotare la globalizzazione, le loro funzioni
e capacità sono diventate strumento condiviso con le forze
del terrore, più veloci ed efficaci delle élites politiche
legali, dedite alla costruzione di un ordine mondiale, e non al
suo disfacimento.
A questa sfida l’Europa finora non ha saputo replicare, e
il suo affaccendarsi attorno a leadership, ad esclusione, ad emarginazioni
è terribilmente antitetico alla duplice rivoluzione moderna
del tempo e dello spazio: il mutare del tempo la lascia inspiegabilmente
indifferente, come la concezione spaziale dei pericoli. Credo che
tutto questo accada perché è venuta meno la politica.
E non avendo una politica, gli europei fanno fatica a trovare i
mezzi. Non possiedono la prima perché non intendono meditarla
e riscriverla. E non trovano gli strumenti perché sono convinti
che con questi possono risolvere tutto e che la politica viene dopo.
Jean Monnet sosteneva che è necessario individuare un interesse
comune e organizzarlo. Gli europei non sanno mettere in campo esattamente
quell’interesse, e le remore e inerzie che li affliggono riconducono
inesorabilmente agli egoismi nazionali, inespressi ma carsicamente
corrosivi, che fanno balenare il sospetto di memorie in qualche
modo umiliate e in qualche altro modo rivendicatrici: della Germania
che ha perso due guerre mondiali e che cerca col marco (o con la
supremazia del marco nell’euro) una rivincita che non conseguì
sui fronti del secondo conflitto con i panzer; del Regno Unito e
della Francia, cui gli americani fecero al tempo stesso vincere
la guerra e perdere gli Imperi.
Cambiare o perire: forse mai come oggi il dilemma brucia sulla pelle
e costringe quest’Europa torpida a venire allo scoperto e a
chiudere con le tattiche dilatorie, per riorganizzare le categorie
politiche e culturali dell’architettura continentale. Perché
non potrà vivacchiare in eterno nel vuoto del suo pallido
Limbo, con l’affacciarsi sulla scena internazionale di vecchi
e nuovi protagonisti, come la Russia, la Cina e l’India, accanto
agli Stati Uniti.
In ultima analisi, è lecito polemizzare con il presente in
rotta di collisione con la realtà, ed è vacuo esercizio
processare il futuro. L’Europa deve mettersi alla ricerca del
suo filo d’Arianna, proprio per non smarrire il suo e nostro
futuro. Per non naufragare in una crisi che non sa più fecondare.
Per i fatti di casa nostra, pur inquadrati nel contesto di quest’Europa,
si deve guardare avanti, ma come guidando con lo sguardo attento
allo specchietto retrovisore: perché, senza eccedere in retorica,
si tratta di delineare la necessità di una rivoluzione di
tutte le rivoluzioni (se mai realmente ce ne sono state) italiane,
e quindi la più difficile da comprendere, da far propria,
da realizzare. Per questo motivo si deve ragionare su alcuni segmenti
nobili della storia delle ideologie, quali vennero configurandosi
fino a quell’anno di snodo che fu, per noi, il 1948.
Nel 1919-20 Gobetti fu affascinato dal movimento dei consigli di
fabbrica ideato e organizzato da Gramsci: gli appariva «l’unica
realtà ideale e religiosa d’Italia», «il
primo movimento laico» della penisola, «la libertà
che s’instaura». Allo stesso modo, Gobetti inneggiò
alla rivoluzione bolscevica, nella quale vide una grande rivoluzione
“liberale”, fino a ravvisare in Lenin e Trotzky due campioni
del liberalismo del Novecento. Inoltre, una volta che il fascismo
aveva trionfato, Gobetti guardò al «movimento operaio»
come «alla sola forza» capace di opporsi ad esso con
inesorabile intransigenza. Infine, al pari di Gramsci, pensava che
il Risorgimento fosse stato una rivoluzione fallita, perché
aveva lasciato intatto l’assetto economico e sociale della
penisola e non era riuscito a creare nel popolo un’autentica
coscienza nazionale. Queste idee gobettiane, largamente affini a
quelle di Gramsci, ebbero ampio corso nel Partito d’Azione
(nato nel ‘43), e continuarono ad operare nella mente di tanti
azionisti anche quando (nel ‘46) quel partito si era dissolto.
Un caso molto istruttivo è quello di Norberto Bobbio, il
quale, in un celebre confronto con Togliatti in cui il filosofo
torinese difendeva alcuni princìpi del liberalismo, affermava
tuttavia che gli Stati del blocco sovietico avevano «effettivamente
iniziato una nuova fase di progresso civile in Paesi politicamente
arretrati», introducendovi elementi e istituti di democrazia
formale e sostanziale. In queste affermazioni dell’azionista
Bobbio si avvertiva lo spirito del pensiero gramsciano-gobettiano,
che ritroveremo molto più tardi, ad esempio, in Augusto Monti,
per il quale la lunga marcia di Mao era l’espressione più
evidente del liberalismo del XX secolo, o in Franco Antonicelli,
che concluse la sua carriera di “liberal” nell’operaismo
antisistema, o in Ferruccio Parri, che vide nella contestazione
studentesca una manifestazione di «rivoluzione liberale».
Dopo il secondo conflitto mondiale, sugli schemi azionisti e sulla
spinta del “Vento del Nord” si innestò l’istanza
proletaria delle masse meridionali (“Pane e lavoro”, “La
terra ai contadini”) gestita dal Pci; e immediatamente dopo
il ‘48 intervenne, nel nome della dottrina sociale, l’azione
dei cattolici, che portò in fasi successive alla riforma
agraria e all’intervento straordinario nel Sud. La distribuzione
di quote del latifondo meridionale (più volta a far calare
la febbre nelle campagne, che a far guarire dalla febbre) fallì
presto lo scopo, perché gli assegnatari, eradicati dalle
comunità sodali, e isolati su minifundi senza acqua, energia
rurale, strade o meccanizzazione, vendettero alla svelta porte e
finestre, impacchettarono pane e companatico, e se ne andarono a
popolare le orrende periferie di Torino e di Milano, e poi quelle
meno indecenti delle metropoli svizzere, tedesche e francesi, alla
ricerca di un salario.
Sopravvisse la Cassa per il Mezzogiorno, che tramontò insieme
con gli anni Ottanta. E tuttavia, dopo tre decenni abbondanti, la
“questione” del Sud, che aveva improntato il pensiero
di schiere di intellettuali e di politici d’ogni formazione
ideologica, rimase in piedi. L’intervento speciale dello Stato,
ritenuto di volta in volta asfittico, dispersivo, organico agli
interessi del Nord o alle clientele del Mezzogiorno, rientrò
nel quadro delle normali politiche regionali italiane e, poco dopo,
in quello del sostegno europeo a progetti di sviluppo per le aree
arretrate. Sull’idea azionista, marxiana, cattolica, proiettata
nelle latitudini meridionali, scese una pietra tombale, che un’impostura
dei nostri giorni intitola all’ideologia “liberista e
liberale”.
Ho ricordato tutto questo perché oggi si ripropongono alcune
domande decisive per il Sud: Che fare? In che direzione muoversi,
nel momento in cui la storia si velocizza, e l’Italia e l’Europa
sembrano prigioniere di un fuso orario da pantano?
Quale background prendere in considerazione, se la lezione storica
del passato non è più valida, e se molti intellettuali
meridionali, sempre più grandi spiriti solitari, sempre più
spiriti delusi, si sono come autoesiliati, disprezzando questi tempi
di spregiudicato rampantismo e di speculare caduta di valori che
non sono di oggi o di ieri, ma di ogni epoca e latitudine?
La questione del Sud deve cambiar traiettoria, lasciare il cono
d’ombra in cui è stata messa a marcire e aggiornarsi
nella determinazione politica e negli orientamenti operativi, per
potersi imporre. La questione italiana, nel contesto europeo, deve
mettere in moto la duplice rivoluzione della velocità e dello
spazio, altrimenti il Paese finirà fatalmente nella serie
cadetta continentale.
C’è un esempio cui ispirarsi per conseguire simultaneamente
i due obiettivi? C’è, è visibile, ma reclama
il coraggio di muovere in direzioni precise.
Il futuro europeo dell’Italia non si gioca sul solo territorio
dei Quindici. E non c’è da illudersi più di tanto,
se i Quindici diventeranno molti di più nel momento in cui
includeranno tutti i Paesi, Russia compresa, che sono geo-storicamente
parte integrante del Vecchio Continente. Nell’Est europeo e
nei Balcani ci sono arrivati da gran tempo i tedeschi: le banche,
i capitali, le imprese della Germania hanno lasciato agli altri,
anche ai più intraprendenti investitori francesi e italiani,
pochi margini di manovra. Così Berlino ha risolto nel breve
spazio di un mattino due problemi cruciali: ha recuperato sotto
il profilo socio-economico l’ex Repubblica democratica tedesca,
trasformandola in una testa di ponte pacificamente aggressiva verso
l’Est e il Sud europei; e ha mantenuto il primato produttivo
e finanziario in seno all’Ue. Dunque, è stata l’ex
Germania povera, arretrata, per non dire disastrata, ma intellettualmente
vivace e creativa, a realizzare le piste di decollo necessarie all’espansione
dell’area del marco-euro, consentendo all’intero Paese
di rivendicare una leadership in campo continenta
In questo senso, l’Italia sarà quel che sarà
il suo Sud. Va ricordato che dal 2006 le regioni meridionali (tranne
forse la Calabria) non otterranno più incentivi europei,
perché i parametri socio-economici del Mezzogiorno saranno
superiori a quelli di un gran numero di aree depresse dell’Est
europeo: da quel momento, il problema Sud sarà a totale carico
dell’Italia che, centralistica o federata o confederata che
voglia essere, potrà continuare a tirarselo dietro come un
gatto morto o abbandonarlo alla deriva dualistica, avvalorando così
l’ipotesi che quella del divario fra le “due Italie”,
lungi dall’essere una fatalità, è stata una spregevole
scelta politica.
In alternativa ci sono, di fronte a noi, cinque anni per risolvere
esaustivamente il problema Sud, che si identificherà subito
con il problema dell’Italia nel contesto europeo. Tempo scarso,
col ritmo che ci impone l’attuale fuso orario. Tempo più
che ragionevole, se sarà attuata la rivoluzione di cui si
è detto.
E per lo spazio? Si allarga nel Mediterraneo, antico centro del
mondo e futuro centro di espansione economica e culturale. Il Vicino
Oriente e l’Africa del Nord stabili possono essere per la lira-euro
l’equivalente dell’Europa aggregata dal marco-euro. I
segnali di apertura venuti dalla Giordania, dalla Siria, dal Libano,
dallo stesso Iran e dall’intera fascia nord-africana, Libia
compresa, sono stati e restano espliciti. E poiché, per posizione
geografica e per tradizione consolidata, il Sud ha sempre intrattenuto
rapporti diretti con queste aree, impegnarsi a trasformare le carovaniere
in pista di decollo può essere un progetto percorribile e
risolutore. Il campo del lavoro è sterminato, intrigante,
impegnativo.
Utopia, si potrà obiettare. E quale utopia non è,
a suo modo, potenzialmente possibile? Ci stanno riducendo il territorio
della fantasia. Ragioni di clima (nel senso di atmosfera) e di antropologie
culturali diverse non sono ritenute motivo di ricchezza, ma di esclusione.
Qualcuno vorrà vietarci anche le escursioni sui sentieri
delle sfide?
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