|         E giù il cappello ci piacerebbe sentir dire anche di fronte alle più belle
 e tragiche pagine della seconda
 guerra mondiale,
 di fronte al sangue italiano rappreso sulla neve e sulla sabbia.
   |  | Seicentocinquantamila fanti italiani morti nel primo conflitto 
              mondiale valgono un assessore bolzanino vivo? A quanto pare, la 
              risposta devessere negativa. In base a una valutazione del 
              genere, infatti, la giunta di Bolzano (Bozen per una quota di nostalgici 
              dellImpero delle Due Corone) ha deciso di ribattezzare la 
              piazza grande della città. Sembra sia stato necessario un 
              segno che legasse gli alleati della Svp e ledesse il meno possibile 
              i superstiti (qualche longeva crocerossina carnica, forse), ma soprattutto 
              i viventi-votanti. Ora che il tempo ha cancellato i ragazzi di Vittorio 
              Veneto, la piazza intitolata alla loro Vittoria ha cambiato nome. 
              Si chiamerà Piazza della Pace.Revisionismo ad usum delphini, è stato scritto. La storia 
              italiana riscritta dalle delibere comunali. Certo è che nel 
              secolo scorso il concetto di pace è stato declinato dal progressismo 
              italiano in modo non sempre limpido, come dopo Monaco o nel quadro 
              del celebre patto Molotov-Ribbentrop, grazie al quale Unione Sovietica 
              e Germania nazista si spartirono la Polonia. Ma le motivazioni del 
              sindaco bolzanino sono (a modo loro) comprensibili. A parte la stabilità 
              politica locale, si trattava di sanare una frattura storica tra 
              italiani e altoatesini (ovvero sudtirolesi), di cui è simbolo 
              larco di trionfo eretto dal regime. E la ricomposizione della 
              memoria comune ha messo da parte il sacrificio di contadini e artigiani 
              in divisa soffocati dal gas austriaco nella Conca di Plezzo, o fatti 
              a pezzi dai cannoni (sempre austriaci) sullOrtigara; e ha 
              trascurato Cadorna, «che tutta nel pugno nudo ha la vittoria», 
              e DAnnunzio che così ne scriveva; e poi Ungaretti, 
              Jahier, Cesare Battisti, i fucilati, i prigionieri, i mutilati, 
              tutti coloro che si batterono coraggiosamente in nome della vittoria, 
              e non della pace. Si poteva tentare un compromesso, ad esempio, 
              su una «pace vittoriosa», (così il tenente Lussu 
              al generale Leone che gli chiedeva perché combattesse). Ma 
              non è sembrato il caso.
 Ora, tutti contenti. Chi ha ottenuto una via Vittime delle 
              foibe, chi una via Alexander Langer, chi spera 
              che siano ripristinate le aquile romane a ponte Drudo. I bolzanini, 
              in realtà, sono al 53 per cento contrari al cambio della 
              toponomastica, in difesa della storia patria. Ma la Svp, incontentabile, 
              chiede che si cambino anche le altre intitolazioni stradali, tutte 
              quelle che raccontano la storia di una nazione che non considerano 
              la loro. Ad esempio, via Amba Alagi, che non commemora, 
              però, una vittoria, ma una sconfitta, con centinaia di italiani 
              massacrati. Sempre meno di seicentocinquantamila, tuttavia, e per 
              di più colonialisti. Sicché quella strada si potrebbe 
              intitolare ai ras Maconnen, Alula, Mangascià, che erano a 
              capo dei massacratori.
 E unoccasione per parlare degli italiani in rapporto 
              alla guerra. «Chi ha ricercato la storia dItalia senza 
              appagarsi della superficiale e convenzionale cognizione che se ne 
              somministra nelle scuole  scriveva Benedetto Croce nel 1917 
               non ignora che una delle tacce più antiche e persistenti, 
              anzi la principale e quasi unica taccia data agli italiani dagli 
              altri popoli dEuropa, e specie dai francesi e dai tedeschi, 
              era quella di imbelli».Il linguaggio crociano suona senza dubbio superato. Chi direbbe 
              più oggi taccia, invece di imputazione? 
              Anche imbelle ci sembra irrimediabilmente desueto. Ma 
              la sostanza della constatazione di Croce rimane straordinariamente 
              attuale: è opinione comune che gli italiani non siano fatti 
              per la guerra; che non la sappiano fare; e che quando ci provano, 
              danno il peggio di sé.
 Pur ribellandosi a questa visione, Croce ne rinveniva lorigine 
              molto indietro nel tempo. Esattamente a certe antiche dispute medioevali, 
              quindi alla gioiosa meraviglia con cui nel XV secolo gli eserciti 
              francesi calarono in Italia, senza incontrare alcuna resistenza; 
              e ancora alla fine del Settecento, quando si ebbe la stessa comoda 
              sorpresa sugli italiani imbelli. «Una nazione ben snervata 
              e vile», pare labbia giudicata Napoleone, sebbene gli 
              si attribuisca una frase opposta: «Gli italiani saranno un 
              giorno i primi soldati dEuropa».
 Un giorno. Mai oggi. Nel frattempo, valeva la regola fissata nel 
              drastico paradosso di Erasmo da Rotterdam: il colmo dellassurdità 
              è litaliano bellicoso («Italus bellax»). 
              E tuttavia Croce si ribellava con forza a quella taccia 
              destinata a ripresentarsi sotto varie forme fino ai nostri giorni. 
              Fino alla nave che porta i bersaglieri in Libano e non le si apre 
              il portellone, oppure va in avaria; fino al carro armato della classe 
              Ariete che nella dimostrazione alle Commissioni Difesa 
              della Camera e del Senato non riesce a sparare un colpo; fino allindimenticabile 
              ammiraglio Buracchia che, appena giunto in Iraq, confida a un giornalista 
              italiano: «Eh, con un po di saggezza questa guerra si 
              sarebbe potuta evitare...»; fino allincrociatore Vittorio 
              Veneto tragicomicamente arenatosi nei bassi fondali del porto 
              di Valona, ex città coloniale italiana, il cui mare avremmo 
              dovuto conoscere a menadito.
 E tutto questo per restare a ridenti guerre pacioccone, a innocue 
              figuracce militari, perché, comè facile immaginare, 
              cè anche di più e di peggio: la presunta vocazione 
              italiana al giro di valzer, se non al tradimento; lipotetica 
              disponibilità alla fuga, alla ritirata confusa e disordinata 
              per portare a casa la pelle, se non proprio alla vigliaccheria. 
              Bene. Don Benedetto concluse quel suo dotto articolo ribaltando 
              le accuse, una per una. E lo inviò al Giornale dItalia. 
              Si era, come accennato, nel settembre del 1917. I quotidiani avevano 
              tempi di lavorazione molto lunghi, ma quellarticolo non venne 
              pubblicato mai, perché nel frattempo le armate austro-ungariche 
              avevano sfondato a Caporetto. Una rotta entrata addirittura nel 
              linguaggio, oltre che nella memoria. Una catastrofe bellica che 
              sul momento gli Stati Maggiori, con straniante ipocrisia  
              e anche vanificando i nobili scrupoli di Croce  vollero definire 
              «deficiente resistenza di alcuni reparti».
 Antico trauma, ma ben lontano dallessere ancora superato. 
              Storia trascorsa, ma sempre alimentata in Europa secondo il vecchio 
              detto: «Les italiens ne se battent pas», gli italiani 
              non si battono, come sembra abbia sostenuto una volta il Thiers. 
              Inutilmente si potrebbero menzionare migliaia di atti di valore 
              e di eroismo dei soldati italiani; altrettanto vanamente si potrebbero 
              ricordare il loro valore, lo spirito di adattamento, lo spirito 
              di sacrificio. Invano a quel motto liquidatorio si potrebbe contrapporre 
              ciò che prima e dopo Caporetto scrisse un nemico come lArciduca 
              Giuseppe di Absburgo-Lorena: «E gli italiani? Giù il 
              cappello. Lotte selvagge e disperate hanno luogo fra noi e loro, 
              e soltanto la morte parla. Gli italiani vengono allassalto 
              in masse compatte e subiscono perdite indescrivibili: si fanno macellare 
              in massa, ma pure continuano finché pochi uomini rimangono 
              in piedi». Gli intrepidi Sardi; i Lupi di Toscana; e gli Alpini: 
              «Hut ab vor den Alpini», giù il cappello davanti 
              agli Alpini sul Monte Nero.E giù il cappello ci piacerebbe sentir dire anche di fronte 
              alle più belle e tragiche pagine della seconda guerra mondiale, 
              al cospetto di valorose sconfitte, di fronte al sangue italiano 
              rappreso sulla neve e sulla sabbia: la carica del Savoia Cavalleria 
              in Russia, la straordinaria, leggendaria diremmo, resistenza ad 
              El Alamein, la scelta di Cefalonia. Invece no. Restano impressi 
              nella memoria quasi esclusivamente i pregiudizi: Caporetto e non 
              il Piave; la ritirata delle Centomila gavette di ghiaccio 
              e non la violazione del porto di Alessandria dEgitto.
 Vera e falsa al tempo stesso, limputazione «quindici 
              volte secolare», come scriveva Croce, sullinadeguatezza 
              bellica degli italiani continua ad aleggiare come una specie di 
              sortilegio pacifista suo malgrado; qualcosa di complicato che mette 
              in causa un misto di timore e di saggezza, di furbizia e di buon 
              cuore, di consapevolezza dei propri limiti e di ambiguità, 
              di melodramma e di scoppi dira.
 Dieci anni fa, ai tempi della Guerra del Golfo, il sentimento nazionale 
              anti-guerriero sincarnò brevemente, ma con indimenticabile 
              intensità, nella vicenda pubblica e privata al tempo stesso 
              di un pilota di cacciabombardiere che, abbattuto alla prima missione, 
              (gli altri aerei erano rientrati per pastrocchi nei rifornimenti 
              in volo), venne fatto prigioniero e debitamente esibito in televisione, 
              tutto pesto. In realtà, i piloti abbattuti erano stati due, 
              ma il maggiore Bellini riuscì a non parlare ed ebbe per questo 
              lencomio. Così, nel mezzo dello psicodramma, lattenzione 
              fu tutta per il capitano Cocciolone. Il fantastico cognome di questo 
              pilota sembrava fatto apposta per suscitare ondate di mammismo e 
              di batticuore, con donne in gramaglie e con Emilio Fede che, in 
              versione Liala, intratteneva i parenti, il tutto in un tripudio 
              che non passò inosservato allestero; tanto più, 
              considerando che lItalia aveva offerto a Desert Storm 
              appena otto caccia della classe Tornado, oltre alla 
              nave dellammiraglio Buracchia. Oggi può essere considerata 
              secondaria la circostanza che, una volta tornato in patria e accolto 
              con trepidante sollievo come eroe del lieto fine, Cocciolone vendette 
              lesclusiva delle foto del suo matrimonio. Dopo tutto, era 
              nel suo diritto, e come soldato il suo dovere laveva fatto. 
              Meno secondario è da ritenersi il fatto che quando un giornalista 
              britannico  che in casi come questo non manca mai  fece 
              notare lesiguità del contributo militare italiano contro 
              Saddam Hussein, lallora Capo dello Stato, Cossiga, che a quei 
              tempi era molto preso anche da una sottilissima disputa da lui stesso 
              sollevata su chi dovesse comandare in caso di guerra, disse che 
              quel reporter era solo e semplicemente figlio di una buona donna. 
              Il Presidente lo sostenne con un complesso giro di parole, ma la 
              conferma del nervo scoperto risultò in questo modo ancora 
              più evidente. Tanto più che lo stesso Cossiga era 
              diviso al suo interno: come cattolico era contro la guerra; come 
              Capo dello Stato era favorevole. Anche in questo la classe politica 
              italiana sa offrire illustri esempi di indecisione. Senza riandare 
              a Giolitti, il quale, per motivare la sua contrarietà allintervento 
              nella prima guerra mondiale, spiegò a Salandra che «in 
              Libia si era vinto soltanto quando eravamo dieci contro uno». 
              Frase che poi venne smentita sdegnosamente.
 E certamente vero che la classe dirigente del Ventennio ebbe 
              meno dubbi di tutti sulle attitudini guerriere dellItalia 
              e degli italiani. Del resto, la pedagogia degli Arditi 
              e dei dannunziani ha finito col rendere il peggior servigio ad ogni 
              superstite orgoglio militare. Non fosse bastata Caporetto, sopraggiunse 
              il trauma dellotto settembre, anchesso vissuto con tale 
              violenza da divenire una metafora dinsicurezza caotica, un 
              modo di dire; una pietra nera e pesante che gli stessi italiani 
              si erano posta sulle spalle a suggello della propria insufficienza, 
              e se vogliamo dirla tutta, anche della propria vergogna. E niente, 
              né la Resistenza, né Mignano Montelungo, è 
              stato sufficiente a riscattarci nella considerazione degli stranieri.
 Persa la guerra, la si è messa sul conto del Fascismo e di 
              Mussolini: tutta loro, la sconfitta; soltanto loro il tracollo militare 
              e nazionale. Ma questo artificio, questo spostamento in qualche 
              modo terapeutico, (di rimozione e di transfert), questo scambio 
              simbolico, ha fatto sì che gli italiani, nel loro intimo, 
              cominciassero a coltivare una curiosa disistima per le loro stesse 
              virtù guerriere. «Non vè altro popolo 
               ha scritto Sergio Romano in un saggio significativamente 
              intitolato Perché gli italiani si disprezzano  in cui 
              lodio di sé sia radicato e diffuso sino al punto da 
              diventare gioco, vezzo, insopprimibile meccanismo mentale e verbale». 
              Forse anche arte e intrattenimento: si pensi a tanti film, da Tutti 
              a casa a La Grande Guerra, a Mediterraneo, 
              dove i soldati italiani procurano guai, fanno ridere, fanno piangere, 
              fanno lamore, ma raramente fanno la guerra: anche se, quando 
              la fanno, sanno trasformarsi da macchiette in puri eroi.
 Questa latente e persino creativa auto-denigrazione 
              (davvero inimmaginabile ai tempi di Benedetto Croce) andava a genio 
              a una classe politica, di matrice per lo più cattolica e 
              marxista; due culture, cioè, per loro natura e vocazione 
              accomunate da sentimenti anti-risorgimentali e comunque pronte a 
              rileggere la storia patria come una sequela di sconfitte, di ribellioni, 
              di repressioni, di date infauste e di carneficine.Tutto questo, attualmente, non cè più. Che cosa 
              lo abbia sostituito non è del tutto chiaro. Anche per questo 
              le campagne italiane sotto legida dellOnu restano unincognita 
              nellincognita. Non dimenticando che finora, scongiuri a parte, 
              ci è andata bene. Non per niente, cancellata Piazza Vittorio 
              Veneto, rasi al suolo tutti gli eroismi, e le vittorie, ci troviamo 
              al cospetto di uno slargo della Pace.
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