Marzo 2002

ANTONIO VERRI

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Tutta la vita
per un Declaro
Antonio Errico
 
 

 

 

 

 

Aveva
un sogno Verri:
un libro di parole, stupide parole,
anche, ma sonore, di quelle che deliziano
o frastornano,
o parole in grossa rogna con la vita.

 

 

Aveva un sogno Antonio Verri, il grande folle sogno di un libro profondo e immenso, smisurato, che fosse tutto e nulla, riflesso e inconsistenza, nuvola e macigno. Perfezione.
Sognava un libro, Verri: una forma gigantesca, gravida di corpi, di linguaggi, di silenzi e voci, di segni d’ogni sorta, insegne luci balbettii colori. E poi brusii, poi ritmi affannosi o pacati, come fossero respiro, palpito di cuore.
Dev’essere Declaro il libro, pensava, dev’essere digressione, iterazione, fuga, armonia e disarmonia, eco e risonanza, dev’essere sempre flusso e fluttuazione, materiale che si fa e disfa in continuazione, che si gonfia, si spande, si dilata, che chiude dentro sé ogni codice, tutte le immagini possibili, le possibili scritture, trasparenze, riflessi, le movenze dei corpi, tutte le possibili memorie, i possibili racconti.
Non deve avere tempo, il libro, né luogo. Perché il luogo è il raggrumo di tutti i possibili luoghi, accartocciamento di mappe, falsificazione di atlanti, dove accade tutto e nulla, contemporaneamente, che è un dove e un altrove, contemporaneamente.

Guisnes è il luogo. Città senza porte; città che si muove, si agita, sussulta, viva, aggressiva, sempre immobile e cangiante, sventrata, lussuriosa, opaca e luccicante, dolce e perversa, fetida e odorosa, corpo e idea, madre e prostituta; microcosmo che genera linguaggi, li aggrega, li intreccia, li polverizza, li riaggrega; linguaggi d’ogni genere: parole clacson insegne cartelloni graffiti spray canzoni. Qualche fiaba.
Guisnes è luogo di linguaggio eccitato, città invasa da una marea di linguaggio che può essere penetrata solo per mezzo di un linguaggio che sia superiore a tutti per potenza di significato. Ecco la nave, allora, la poesia, simbolo del viaggio dentro la scrittura, che danza, rolla, solca, scivola tra i generi accavallati e confusi dei testi. E’ nave che muta rotta continuamente, refrattaria a qualsiasi indicazione di bussola, insofferente di qualsiasi polso di timoniere. Rivendica la propria autonomia, afferma esplicitamente la separazione dal proprio autore.

Castro è il luogo. Vuoto. Aria rossa, rappresa. Quattro spuntoni di torre. A strapiombo sul mare. Abbaglio. Bagliori. Terra melograna. E a Castro l’uomo dei curli grida, e lancia il suo curlo in una dimensione sospesa, oscillante, indefinita, in un tempo che sovrappone e confonde le sue dimensioni, in uno spazio dei confini labili, imprecisi.

Otranto è il luogo. Storia. Memoria. Dove tutto appare eterno e morente nello stesso istante, ambiguo, irreale, deformato e deformante. Luogo di contraddizioni, di contrasti, di contrari, incipit ed explicit, alfa ed omega, silenzio e racconto. Otranto è un nome, una ciarla, uno spasimo d’aria, posto di mare dove la morte, se viene, è come la voce sospesa, cautelosa, di guitti assurdi e decollati.
Per quanto tempo visse, Antonio Verri lo fece per narrare di una terra sconfinata, che si stende, che si adagia sul filo di un racconto, un luogo vero e falso, un luogo quasi di fiaba, popolato da donne di pasta cresciuta, purissimi cavalieri che di notte riposano sui tetti, sorvegliato da esseri che vorticano nell’aria, specie di elfi colorati, folletti predoni che chiamava Tao.
Per raccontare di una terra dove a volte cade una neve farinosa, un gioco per bambini, di un Salento che innalza sulla sua pianura presuntuosi e strabilianti campanili, una terra di ragazze mulacchione, saracene, inesplose, per le quali ogni amore è sempre il primo amore, una terra con un grosso respiro, un sibilo lungo che viene dai menhir, dai frontoni delle chiese, dalle torri di scolta, dal respiro del mare, da quelle silenziose sentinelle del tempo travestite da alberi di ulivo.
Per il tempo che visse, per il tempo che scrisse, Antonio Verri raccontò di quella terra vicina e lontana, dove quando passa un treno il bambino grida: passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa. E la campagna bianca tutt’intorno gli risponde, la contrada col nero dei camini gli risponde, i morti, le case, i lunghi racconti gli rispondono: passa la tuzzuìa, passa la tuzzuìa.

A Roca, una sera, una quasi notte della fine di agosto del novantuno, Verri mi diede un dattiloscritto di trentasette cartelle intitolato La salle de bain, perché gli dicessi cosa ne pensavo.
Lessi il lavoro. Lo rilessi.
Ci rivedemmo un po’ di giorni dopo, in un’osteria.
Con quell’affetto presuntuoso che mi faceva sentire mia la sua scrittura, così come la sua grande umiltà gli faceva sentire sua la mia, dissi che quel racconto lungo non reggeva. Mancava di un’architettura narrativa; era metatestuale, metanarrativo. In quelle pagine parlava del suo senso della letteratura senza quelle situazioni di mediazione, di ponte verso il lettore, che invece c’erano nei Trofei della città di Guisnes e nel Naviglio innocente, che pure erano scrittura sulla scrittura.
La salle de bain non fu mai dato alla stampa in quella versione. Verri ci lavorò sopra, intorno, dentro. Per un anno e mezzo. Nel maggio del novantatré mi consegnò un dattiloscritto di settantasette pagine con il titolo di Bucherer l’orologiaio nel quale aveva fatto confluire La salle de bain.
Mi chiamò tre sere dopo per chiedermi se avessi finito di leggerlo. Gli risposi che mi mancava qualche pagina, ma che stavolta comunque funzionava. Questa volta sì che funzionava.
La notte alle quattro mi telefonò sua moglie per dirmi che era andato via.
Bucherer fu pubblicato due anni dopo dalla Banca Popolare Pugliese in 999 esemplari numerati, a cura e con introduzioni di Aldo Bello e di chi scrive.
Nella Salle de bain, frase dopo frase, parola dopo parola, Verri dava conto e motivazione, ragione e giustificazione di una scrittura, di una spasmodica tensione verso la forma, di un’ansietà di narrazione, della fantastica ossessione di chiudere in un libro tutto l’universo, della disperata e fiabesca ricerca di una lingua capace di aderire all’esistenza e alle cose, di impastarsi con esse fino a non distinguersi più, fino al punto di diventare esistenza e cosa: albero bus fiore sospiro neve madre paura sogno desiderio.
Voleva una lingua nuova, che fosse misura e precisione, essenzialità, sonorità e ritmo, il risultato di una mistura di lingue che gli consentisse di costruire il non libro, il testo che genera se stesso, che si riproduce all’infinito, che si sbriciola, si lacera, e poi si ricompone.
Ecco: questo era il suo Declaro.
Come tutti quelli che ogni giorno alzano altari di superflue parole al vitello d’oro della letteratura, Verri sapeva bene che una lingua così è impossibile, è solo la trappola di un’ossessione, che nel corpo a corpo con l’idea di questa lingua, con il suo fantasma, a un certo punto ci si sfinisce, si arretra, si rinuncia. Fino a non scrivere più.
Come rinuncia Lord Chandos di Hoffmansthal quando capisce che l’unica lingua che gli servirebbe non solo per scrivere ma anche per pensare è quella in cui parlano le cose mute, con cui ciascuno un giorno forse proverà a rispondere a un giudice sconosciuto.
Ma Verri voleva una lingua possibile e nuova. E allora pensa all’inglese, alla sua pervasività, alla sua fonia. Per questo nella Salle de bain corrono parole e frasi in questa lingua. Materiali di risulta dai media di massa. Materiali da speaker.
Lui che aveva dormito con Il sorriso dell’ignoto marinaio di Vincenzo Consolo e con Orcynus Orca di Stefano D’Arrigo sotto il cuscino, ritorna e affonda in Joyce che un tempo gli aveva soltanto prestato suggestioni e nomi. Questa volta non è l’Ulysses, però, che lo seduce; sono, invece, il Portrait e il Finnegan Wake.
Sally sono io, dice a un certo punto il dattiloscritto. Un’altra proiezione. Un altro smembramento. Un dare ancora una volta il proprio sangue ai personaggi. Un prenderne da loro.
Il tempo del Declaro, il tempo del gran libro, è un istante d’andirivieni tra fantasia e memoria, è un tempo che dura per quanto dura il narrare, è un ritmo, il giro di una frase, l’ampolla di un vasaio. E’ l’ordine del caso, il guizzo di un ramarro, vortice e vertigine, fine del racconto.
Il tempo è la ricerca del Grande Silenzio; è la Grazia che chiede, è il giorno che batte sui polsini della camicia, la Bellezza che geme nelle ore.
Altro tempo fu quello della vita.
Totò Toma era già andato via. Anche Edoardo De Candia era andato via. Qualcun altro. Poi Verri, una notte di maggio: un colpo di vento alle spalle, uno sguardo stupito ad una luna grande appoggiata sulla fronda degli ulivi, una luna grande come palla turca.
«Stefan volteggia, tenta il cielo. E’ stato facile, è bastato aprire le ali controvento, stendersi, tagliare l’aria, infilarla. E’ stato facile, è bastato liberarsi del mantello, è bastato un morso al fondo schiena, perdere la memoria, perdere tutto».
Come ogni scrittore che non sa distinguere tra la vita e la scrittura, Verri aveva già visto oltre il suo presente, aveva già vissuto tutto il suo futuro.
Chissà se quella notte pensò la sua scrittura, se la morte gli somigliò alle storie profumate, al miglio stompato, ai crateri del cuore, ai gesti teneri e scoperti del padre, ai suoi corti avvisi, al pane sotto la neve.

Aveva un sogno Verri: un libro di parole, stupide parole, anche, ma sonore, di quelle che deliziano o frastornano, o parole in grossa rogna con la vita.
Vuole parole, Verri, da poterci caricare una nave, che sappiano tessere l’aria, costruire una forma, dare voci alle tombe sul mare, dire uno stupore, imitare un batticuore, raccontare di Sciaffusa, la smania del Declaro, dei fabbricanti di armonia, di zacchinette, del disertore, del padre, di Otranto, di Idrusa, di ansie, di candori, di ori di poesia venduti in tanti posti.
Vuole parole Verri, che diano senso a ogni cosa, che riempiano il pozzo dei giorni, rafforzino gli argini, sostengano il cuore che a volte sembra spaurirsi, non reggere all’assalto del tempo.
Cominciò con parole leggere, volteggianti, volitanti, semoventi, facili da dire, da fermare. Cominciò con parole chiuse in versi, con una lingua che avvolgeva – perfetta – le idee. Erano, le parole del Pane sotto la neve, del Fabbricante di armonia, un rapporto con il mondo regolato da un equilibrio, una consapevolezza, un sentimento trasparente, sicuro, anche se mai rassicurante, anche se sempre teso verso una ricerca che sfidava le profondità e le altezze, che per metodo aveva assunto lo scandaglio o il volo. E per oggetto i fondali dell’esistere oppure il pulviscolo dorato.
Cominciò così, con racioppi di parole messe in fila, con parole che sciamavano sul foglio, che si fondevano quasi fossero di neve, parole di sinopia, di sabbia, di cobalto, scoppiettanti come quelle che Pantagruele rovesciava sul ponte dell’imbarcazione.
Al tempo del Pane sotto la neve Antonio Verri scriveva con polso fermo e passo svelto, con facilità, felicità. Poi facilità e felicità lo abbandonarono, perché il tempo delle parole cambia, come tutte le cose sotto il sole.
Verri si fece abbandonare.
Non volle più facili parole, non volle più che fosse felice la scrittura, essere felice per la sua scrittura.
Aspiro forse alla mia felicità? Io aspiro alla mia opera. Così parlò Zarathustra.
Allora creare non fu più inventare, porgere l’occhio, l’orecchio, essere morbido tremore, sbuffo, calore sonnacchioso.
Creare diventò spasimo e tensione, si fece ambizione e tentazione, ricerca della perfezione.
Quel suo corpo poetico che fin dal Pane sotto la neve ha preso il nome joyciano di Stefan si incarna – o si smembra – in maschere e figure allucinate, ossessionate dall’idea del gran libro.
Stefan si perde dentro una parola, si lascia trascinare da una frase, cerca la deriva nella digressione, si fa sedurre impudicamente, disperatamente, da una risonanza, da un’iterazione, un’eco, insegue a lungo una metafora per concludere poi che l’indicibile non si può dirlo comunque, in alcun modo.
L’ambizione di uno scrittore forse non è che questa: smarrirsi dentro il testo, non ritrovare più le proprie tracce, scomporre il proprio io, simulare l’esistenza e accorgersi, alla fine, che la verità dell’esistenza è nascosta nella sua simulazione.
E allora Stefan simula, diserta da sé e fugge per luoghi inesistenti, puri itinerari dell’immaginazione anche quando hanno un nome reale, spazi senza confine e senza fondo, nominazioni fantasiose, proiezioni verso lontananze.
La betissa, I trofei della città di Guisnes, Il naviglio innocente, Bucherer l’orologiaio, sono la lunga narrazione di un desiderio assurdo che si riduce miseramente o si trasforma magicamente in parola: parola che non può essere concretazione del desiderio ma che può soltanto dire di se stessa, del suo voler essere.
C’è un personaggio nei Trofei – il guardone – che osserva il testo crescere; può solo descriverne la crescita, senza parteciparvi. Il guardone è l’alter ego del narratore. Nel Naviglio il doppio viene trasferito in comparse e il narratore si rivela e assume il ruolo di personaggio-chiave.
Quando il narratore è un personaggio è, solitamente, un personaggio buffo o tragico. A volte è buffo e tragico ad un tempo.
E’ buffo quando pretende di condurre le situazioni narrative nell’ambito dei suoi schemi e di imporre ad esse i suoi ritmi; è tragico nei casi in cui avverte, e confessa, che la narrazione che gli era stata affidata e che doveva gestire lo sta risucchiando in un vortice che non ha previsto; il personaggio narratore buffo e tragico è quello che si accorge, ad un certo punto, che la narrazione gli scorre sotto gli occhi già formata e che lui può solo guardarla, curioso e impotente, da un bordo. A questo tipo appartiene il narratore del Naviglio. Guarda. Ma l’atto del guardare è penetrazione, scrutamento, percorrimento delle distanze, spostamento, e lo spostamento può verificarsi “verso” ma anche “in” un luogo.
Dunque: il narratore del Naviglio, guardando, si sposta dal bordo ed entra nel testo.
Nel testo perde la sua componente buffa e rimane solo un personaggio tragico: travolto dal testo, sconvolto dalla proliferazione delle parole che non può più nemmeno descrivere nel loro moto, che ora lo accerchiano, lo richiamano, lo seducono.
E’ il naufragio. Ora il narratore è parola, non altro che parola tra tante, molte altre parole.
In principio è il brusio. Poi il brusio si fa parola, le parole si riproducono per partenogenesi, si accumulano, si associano, cercano cadenze, l’espressione diventa sovrabbondante, straniata, surreale, artificiosa, tesa verso la variazione rivitalizzante.
Il significato è affidato al caso. Non determinato dal caso, ma affidato ad esso, il che vuol dire che ad un’operazione di desemantizzazione della parola ne segue una di risemantizzazione nell’ambito del costrutto e in relazione al ritmo che del costrutto costituisce l’elemento regolatore.
Il ritmo è condizione essenziale in questa narrazione: genera immagini, scandisce sequenze, è portatore di senso, è di per sé espressione.
Il caso è il ritmo, dunque, e il ritmo è un caso che pretende il controllo anche del respiro.

Avrebbe voluto dire di sé il narratore, e invece può dire solo di scritture, di modelli fantasiosi, combinazioni di sillabe, ribollio di lessico, labirinti di frasi.
Avrebbe voluto dire del piacere che gli veniva dall’affabulare, invece dice solo dell’ansia di creare un racconto dal nulla, il mondo dal racconto, indipendentemente dal senso. Il senso poi il creato lo troverà.
Il poeta del Pane sotto la neve adorava il racconto degli altri, la riscrittura, la lievitazione della fabula; il narratore è invece un feticista della sua narrazione: adora il vuoto, la forma gigantesca e silenziosa, l’incorporeo.
Ma che gli importa. Stefan ha solo un Declaro per la testa, libro di libri, di parole e basta, un declaro che pretende il sacrificio, la cancellazione di qualsiasi cosa.
E allora il corpo viene invaso da parole; più le parole crescono e più il corpo si ritrae, diventa l’ombra di una mano sopra il foglio.

Aveva un sogno Verri: chiudere in un libro il mondo, costruire un universo di parole regolato dall’ordine del ritmo, del suono, della modulazione. Sognava di generare un Declaro, un libro poroso, una grande bolla, che pulsa, eccede, s’ingrossa, s’infiamma, che chiude dentro sé l’inizio e la fine, l’urlo e il silenzio, le storie che mai nessuno ha raccontato, le pagine dei libri che nessuno ha mai scritto; pensava di assoggettare la bufera di parole burbere tempestive idiote inattuali, comode e scomode, umili e vanitose.
Voleva imbottigliare le parole, dominarne l’impazzare e il vorticare, catturarle, custodirle, ammaestrarle, come le rane di Guisnes.
Il Declaro doveva inglobare, invadere, avvolgere, assorbire il mondo, stringerlo nel suo recinto, nelle sue trame.
Doveva dimostrare la possibilità – la potenza – che ha la scrittura di creare e ricreare, doveva dimostrare che il testo è la vita, non simulazione della vita.
E Verri scriveva, organizzava il racconto, annodava i fili, compilava, annotava. Si fece prendere dalla passione degli elenchi come ogni scrittore che sa che il numero delle parole è maledettamente infinito. Prendeva appunti sopra e dentro altri appunti che generavano appunti.

(Quella domenica mattina del nove di maggio del novantatré dalla camera mortuaria del cimitero di Caprarica portammo fuori questo: duemila lire, il tesserino verde dell’Ordine dei giornalisti, foglietti di appunti. Moriremo prendendo appunti, diceva Flaiano.)

Il Declaro cresceva, prendeva corpo. Era corpo. E come ogni corpo si nutriva: del corpo di Verri, della sua vita, del suo pensiero. Stefan non poteva più riuscire a dominarlo, non riusciva più a resistere al suo incanto.

Aveva un sogno Stefan, e nel sogno una paura: non riuscire a creare il mondo con un libro. Verri sapeva che il grande libro è impossibile, che la grande forma non esiste, che esistono solo abbozzi di forma, solo frammenti del libro.
Al tempo dei Trofei e del Naviglio Antonio Verri era stanco, spossato di scrittura.
Scrivere, trascrivere, compilare, annotare, elencare non era più un gioco.
D’altra parte non lo era mai stato. Quando aveva detto ch’era un gioco aveva mentito sapendo di mentire.
Scrivere era esistere. Esistere era scrivere.
Per questo non era facile smettere di credere al gran libro. Né fingere di smettere di crederci.
Così continuava a innalzare la sua torre, giorno dopo giorno, parola su parola, frase dopo frase, illusione su illusione.
Ma sapeva che il gran libro è soltanto una stupida balena, che la scrittura è cera d’Icaro, un trabiccolo in volo verso il cielo, che alla fine del conto, alla fine del gioco non resta altro che il ricordo di una meraviglia, uno stupore, non restano che quaderni di svuotate parole. E poi, come scrive Alessandro/Stefan alla madre, «il correre stolto, e il correre continuo, con ali bianche, quasi senza corpo, verso il solito albero d’oro, verso il solito vecchio profumato eldorado».
(L’estate maturava in un paese che ha il nome d’albedine, d’albasia, di chiarità, d’albòre, forse d’alba.
Lei disse: ritornare vuol dire riprendersi la scrittura, ritrovare quel senso che ti manca.
Lui avrebbe voluto rispondere che non era quel senso che gli mancava. Come Stefan avrebbe voluto rispondere che era triste faccenda correre ancora dietro al suono delle campane delle Scalze, che tutto era così untuoso, a volte, sciroccoso, e a volte così fosforescente e lucido.
Avrebbe voluto dirle dei giornali di poesia fatti per passione e per azzardo, delle notti che arrivavano sulle righe di un racconto; avrebbe voluto dirle che adesso sospettava il cattivo odore di cipria sudata nei salotti delle storie patrie, la nausea per le poesie recitate dai poeti di corte e di cortile, il ritorno dei commedianti di marine e di oratori.
Come Stefan avrebbe voluto parlarle delle buffe università silenziose che si aprono a celle d’ombra, della muffa che si spande, del chiacchiericcio, del mercato.
Invece le parlò di Magna Grecia, dell’albero della vita di Pantaleone, del Santo dei voli, di nuvole bianche, delle molte razze passate per queste contrade, di accademie e monaci sapientissimi, di Verri, di Vittore e di Tommaso Fiore, di Toma, De Candia, Bodini, Pagano.
Lei conosceva solo i nomi. E il volto del padre silenzioso che lo guardava da un ritratto sul comò.
Non disse nulla. Ma pensò che avrebbe avuto memoria lunga. Lunga.)

Ma chi era Antonio Verri.
Allora. Era un bambino alto, con la barba, che camminava lento ma che è arrivato dove molti altri non sono mai arrivati, dove molti altri correndo non arriveranno mai.
Era un uomo curioso di ogni fiaba, smarrito nel bosco di letture e di scritture, che aveva cuore di vecchio contadino e pensiero di raffinatissimo intellettuale.
E’ stato il padre di una generazione stupenda che non ha vinto nulla, né cattedre, né premi, né mortadella alla cuccagna, perché non ha saputo vendere parole al mercato dell’usato, perché non ha voluto arrampicarsi al palo ingrassato.
Racconta Aldo Bello: «Viaggiava con un’utilitaria catastrofica ma un giorno decise di prendere la littorina per andare in nessun luogo: un percorso adolescenziale, si giustificò. Arrivò fino a Gagliano del Capo, gli passavano per gli occhi immagini di terre sassose e di stazioncine rosse, il tam tam delle rotaie e la brezza di collina gli rimescolavano il sangue, chissà che mari e che pianure avrà sognato quel giorno, mentre dalla geografia minima del viaggio estrapolava reperti di storie e di poesia».
Di mestiere faceva lo scrittore.
Soprattutto ha scritto: Il pane sotto la neve; Il fabbricante di armonia; La cultura dei tao; La betissa; I trofei della città di Guisnes; Il naviglio innocente; Bucherer l’orologiaio.
Ha fondato e diretto “Caffè Greco”, “Pensionante de’ Saraceni”, “Quotidiano dei poeti”, “On board”. Ora Antonio Verri è racconto.

   
   
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