|         Cè una sottile malinconia in questa fissità della natura pietrificata, eppure 
              viva, e soltanto
 sospesa oltre la
 corazza della terra.
   |  | Laria si assottiglia, a partire dal Capo di Leuca infilato 
              dal grecale che trasvola le crespature dei due mari e le laminature 
              degli ulivi. Cielo teso su tappeti di campanule e carrarecce di 
              asfodeli appena emersi al ciglio delle calanche. Impazienti rosolacci 
              preannunciano vangoghiane macchie di papaveri. Le vene carsiche 
              ridanno linfa ai canneti bradi. Si orchestrano tutti i colori del 
              verde. I gheppi piombano nella stagione della caccia. Dai tetti 
              delle case le rondini salgono a contropicco verso lalto a 
              roteare vorticosamente come in un folle ballo di Dervisci.Cè un tepore di profumi nuovi, di voci rinate, nelle 
              corti e nei vichi. Ci sono echi di vecchie canzoni, di dialoghi 
              tra finestre e scalette. Ci sono profondissimi, improvvisi silenzi. 
              A notte, il sonno è più leggero. Le strade respirano 
              aliti di oleandri e bouganvilles rosso-acceso. Piove acqua di luna 
              e il bianco-su-bianco staglia paesi pigramente ondulati fra serre 
              e murge, sinuosamente radicati nelle pianure, saldamente confitti 
              sulle rocce butterate dal mare dirimpettaio.
 Esce dal letargo, questa Puglia così lunga da dare sgomento, 
              da dissuadere da ogni tentazione di scoperta. O da invitare alla 
              scoperta lenta, teatro per teatro, dal romanico al barocco, passando 
              per gli scenari trulleschi che fanno da cesura (o da cerniera) fra 
              il nord e il sud. E già a maggio i gialli del grano, i verdi 
              degli ulivi e del tabacco, i neri e bianchi delle vigne spampinate 
              intensificano i colori, li accendono impudicamente al taglio verticale 
              del sole, opponendoli al cobalto del mare.
 Rare piogge, ma dargento vivo, a frastornare le gazze col 
              gracidìo dei ramarri. Nuovi pollini fecondano i giardini. 
              Fremono corpi vitali: odori di pelli reclamano il possesso che prolunga 
              le specie, e la notte concerta miagolii e sibili, squittii e lamenti. 
              In alto inclina una mezzaluna turca.
 Solstizio. E cola Africa. Rossa di bauxite, dalle crepe la terra 
              fuma e persino le rocce si fanno più ispide. Nelle vene del 
              fico che dà ombra al pozzo saddensa il lattice, e il 
              pino cipressato raggruma le foglie. Negli occhi, secoli di scirocco, 
              e il sogno è lacqua salmastra che uccide lentamente 
              la campagna con enfisemi di cloruro di sodio che preludono al deserto 
              prossimo venturo. Trasudano incenso i pini marittimi, miele i fichi, 
              linfe innocue gli ulivi, succhi velenosi gli oleandri. A notte, 
              lunghe righe di fuochi consumano le ultime stoppie, e il paesaggio 
              si tinge dinferno. Si rivolterà la terra, la si farà 
              respirare tra solco e solco, la sera, quando lescursione farà 
              alitare un vento cieco, che va e viene come lo porta il caso.Tener docchio il Pizzo del Diavolo. Se rannuvola e si fa nero, 
              è libecciata, e allora è grandine in agguato, bisogna 
              accendere paglia umida, che alzi al cielo più fumo che può 
              e scongiuri luragano. Si suonano allarmi di campane, i segnali 
              sonori seguono i percorsi delle folate da sud-ovest a nord-est, 
              le campagne si animano di sagome scure e di tetri falò. Sacramentano 
              gli uomini. Le donne gracidano giaculatorie e sasciugano la 
              fronte freddo-madida con fazzoletti a quadri:  Gira il vento, 
              Santo Giorgio, gira il maletempo, portalo al diavolo tentatore, 
              che se lo tenga per tutte le ore . Scroscia lacqua e 
              si porta via il sonno.
 Fioriscono agavi. Come possano partorire un fiore  carminio, 
              pretenzioso  con questa calura, è mistero glorioso. 
              E intanto il falco pellegrino svetta, fermo, con le ali aperte, 
              a mille metri: «Sta allo Spirito Santo», dicono. Poi 
              cola a picco e a un centimetro dalla preda stramba e artiglia a 
              volo radente. E larsura che regola le leggi naturali. 
              Il sole è re leone. Liquefano case, sfarinano in sabbia le 
              conchiglie, friniscono orti e palmeti. Le muricce trasudano more 
              e bisce. Gazze decollano a sghembo sugli ombrelli resinosi dei pini 
              dAleppo. Il tramonto è di sangue esausto. Spira finalmente 
              la brezza di mare, ma a folate lievi, in cieche sinuosità. 
              La notte brucia stelle e falò. Da orizzonti indefiniti, leco 
              di cantilene saracene. E lamenti dusignolo. Unalba lattiginosa 
              preannuncia il respiro afoso dun altro giorno. Il grido di 
              un airone sbandato lacera la prima luce, che gorgoglia già 
              nelle cisterne secche. Tra poco creperanno le melograne.
 
              
                | Una terra imperiale Tonino Guerra Illuminiamo la Puglia nel grande magazzino 
                    del turismo del mondo perché questa terra non può 
                    dare soltanto mare, può dare anche favola, può 
                    dare musica, può dare silenzi, può dare storia, 
                    può dare memoria a un turista in arrivo.Illuminiamo la Puglia perché è la prima volta 
                    che una regione diventa un unico, immenso luogo di ritrovo 
                    di chi può pensare che anche una parte di questo mondo 
                    è paradiso. Illuminiamo la Puglia sommersa: la Puglia 
                    di Annibale, la Puglia degli incontri di guerra e delle spade 
                    insanguinate; la Puglia degli ulivi, con i più antichi 
                    patriarchi arborei; la Puglia dei muretti che chiudono i respiri 
                    del mondo di favola; la Puglia dei sapori forti di erbe antiche, 
                    conditi da oli preziosi e accompagnati da vini antichissimi; 
                    la Puglia che vola perché laria è piena 
                    di sole. Illuminiamo la Puglia delle masserie fortificate 
                    e delle tenere controre; la Puglia dei dinosauri che facevano 
                    lo struscio sulle Murge; la Puglia dei castelli magici e della 
                    costa baciata dal sale; la Puglia dei santi che salutavano 
                    i crociati, la Puglia miracolosa che da San Nicola a Padre 
                    Pio e allArcangelo Michele ha accolto e accoglie la 
                    gente in sofferenza; la Puglia delle antiche torri di pietra 
                    e delle grotte costiere; la Puglia delle cripte rupestri e 
                    dei capolavori prigionieri sottoterra; la Puglia delle necropoli 
                    preistoriche con le tombe dei giganti e delle signore delle 
                    ambre; la Puglia con le stele daune, i fumetti di 2.500 anni 
                    fa e i bagni di archeologia; la Puglia figlia di Diomede, 
                    grande fondatore; la Puglia imperiale che stupì Federico 
                    II meraviglia del mondo, da Castel del Monte alluniverso 
                    degli uccelli grandi che muovevano e muovono laria del 
                    Tavoliere con le ali. Illuminiamo la Puglia di sogno che cera 
                    una volta e cè ancora. A ricordarci che bisogna 
                    arrivare nei punti più segreti e selvaggi dove si ha 
                    la sensazione di trovare linfanzia del mondo. E invece 
                    trovi te stesso.
 |  Il passo delle aguglie marezza le insenature e increspa con umide 
              spatolate le foglie del fico dalbachiara. Riammorbidisce la 
              terra bruna e sutura le ferite della pelle con le catinelle di Santa 
              Maria delle Grazie. E il tempo di scie bavose e di agguati 
              di gechi. I campi spampinano al ritmo del cambio di livrea delle 
              tortore. Un pudico tepore intenerisce le braccia dei corbezzoli, 
              predisponendole a imminenti nudità. E il momento di 
              chiudere le corolle delle palme, di potare tralci e geometrie di 
              siepi. Il sole già diafano è tutto per gli ulivi regali, 
              verdi-neri. Remigano in cielo le prime frecce di folaghe migranti, 
              trasvolando senza lasciare ombre. I solchi bevono umori e sibili, 
              luccicano case striate di gerani e bouganvilles impazzite di carminio. 
              Brividi di maestrale ancora non rabido orchestrano movimenti di 
              nuvole meridiane orlate di bambagia: tronfi vascelli a vele barocche, 
              idrauliche cambuse sullo zenith delle colline.A tratti il pioppo illividisce e sgrana al modo di un crepitacolo 
              di vallonea. Allora donne irsute accostano le imposte e scrutano 
              al confine dellorto la riga delle zucche gialle maculate. 
              Se sarà grandine non ribolliranno mosti di primitivo e negro-amaro, 
              fermenteranno soltanto risentiti rosari per le dispense desolate, 
              e il pane dei morti sarà meno ricco duva passa.
 Lo sfracello è rimandato, torna la tramontana che asciuga 
              le ultime corde di tabacco e le nuove camicie delle serpi. Non è 
              raro, a notte, avvistare le strategie alari dei barbagianni o la 
              guardinga curiosità di volpi fulve. Gli albereti si animano 
              di straordinarie presenze: guizzano donnole e faine, sgusciano ricci 
              di terra, emergono da abissi dargilla singolari ramarri giganti, 
              aprono nuovi solchi i grilli-talpe. I cotogni maturano pomi verdini. 
              Tracciano singolarità sonore gli ultimi merli dalle penne 
              arruffate. Valicano i comignoli sapori di marmellate. Quando il 
              bosco superstite si veste di ruggine lacqua nelle brocche 
              di rame comincia a rabbrividire e il cielo si fa di madreperla. 
              Le greggi lasciano gli stazzi e vanno al coperto. Fremono i licheni 
              emersi fra le pietre sveve di torri e castelli. Piegati a occidente, 
              gli alberi del vento (ostinato vento grecale) solfeggiano nenie 
              arabe. Le paludi a marea incupiscono lazzurro. Voci taglienti, 
              ormai senza più inflessioni, misurano la vita allaria 
              aperta. Le tane sono pronte. Nei cortili, parallelepipedi di ciocchi. 
              Ora il mondo è in una cucina e nel fumo più nero che 
              svicola dai tetti campestri. Il sole scende a vista, dietro cortine 
              sempre più grige. La banderuola di rame in cima alla chiesa 
              barcolla sui punti cardinali, segnando variazioni scomposte, da 
              tramontana a libeccio. Sciabordano per le strade ruscelli piovani.
 Cristallizza il cielo. Una bolla di vetro azzurro dagli algidi, 
              fulminei bagliori serra il mondo di erbe e cardi e sempreverdi ricamati 
              da stelline di ghiaccio chimicamente estetizzate. Se proclive al 
              plumbeo, la bolla incupisce il suo gran bozzolo, allora di caldo 
              cè solo il pane appena sfornato e subito serrato nella 
              madia perché perda più pigramente i vapori e la sua 
              rassicurante morbidezza.Di tanto in tanto, stecchiti voli di caccia. Su rami osceni, contorti 
              al modo di quelli del Doré, sfagliano al vento nidi deserti. 
              I gufi sincastonano tra ruderi di terrazze, ronfando dignitosamente. 
              La neve attutisce i rumori della serra. Si amplifica soltanto la 
              sinfonia di gocciolii che alimentano magri ruscelli ai bordi di 
              strade scoscese. Sulle soglie di casa, comari pennute ingannano 
              il letargo chiamandosi da sbavo a sbavo di oleandri e agavi. Il 
              vento ha una sua ferrugigna raucedine che scrosta la corteccia delle 
              parole, le piaga di stillanti nudità. Cè una 
              sottile malinconia in questa fissità della natura pietrificata, 
              eppure viva, e soltanto sospesa oltre la corazza della terra. Nel 
              cui grembo, tuttavia, misteriosi fermenti di grani e radici frugano 
              gli interstizi nei meandri di silice, alla ricerca della luce.
 Ciaramelle a nord, tamburelli di pelle dasino affogato e 
              sonagli a sud. Il presepio ha confini darance e zuccheri, 
              laghetti di vetro colorato, pastori e greggi affondati nel muschio 
              e lavandaie in bilico su improbabili greti. Luci oblique e intermittenti 
              occhieggiano dalle dimore sparse fra ciuffi dalberi estranei, 
              abeti in esilio su calcari mediterranei. Sindovinano camini 
              accesi e poltrone a dondolo. Alla mano di scirocco, case basse con 
              carbonaie e bracieri, e il buon vino anonimo stillato dalle corolle.Corto e nemico, febbraio è il vero mese dei morti, delle 
              campane dai tocchi lunghi e dagli echi dolorosi fra le piane brinate. 
              Poi si chiude il ciclo naturale. Ritratti gli artigli, il vento 
              rimette in volo i pollini. E tempo di mutazioni, di riti del 
              passaggio, di ritmi nuovamente vitali. Se piove ancora, è 
              perché si accendano arcobaleni e prati, germogli e colori, 
              respiri e voci, sospiri e canzoni.
 Buona rinascita, vecchio-giovane Mondo!
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