|         Io credo che il male di cui tutti soffriamo 
              è un grande residuo di crudeltà che circola per tutte le vene della società umana, la quale
 non vorrebbe essere di belve.
   |  | 1. Cenni sul bilinguismo del Pascoli E concorde la critica nellescludere la discontinuità 
              tra poesia italiana e poesia latina di Giovanni Pascoli, nei temi, 
              nei ritmi, negli accenti, nella tecnica fonosimbolica e onomatopeica. 
              Oltre che nella cronologia. Entra nellarengo dellAccademia 
              Hoeufftiana di Amsterdam, col Veianius, nel 1891, che è lanno 
              delle prime Myricae; e la concomitanza prosegue sino alla vigilia 
              della morte, con Thallusa, 1911, che è anche lanno 
              dei Poemi italici. Il latino dei Carmina non è lingua daccatto, 
              ricevuta in prestito dalla tradizione umanistica, residuale, riflessa, 
              perché presunta morta e dunque inibita di per 
              sé alla poeticità; è invece lingua spontanea, 
              nativa, con caratteri lessicali e sintattico-strutturali di assoluta 
              originalità. Il Carducci la preferiva, addirittura, allitaliano 
              delle Myricae. Insomma, il Pascoli poeta è nato bilingue, 
              come hanno dimostrato gli studi fondamentali del Traina.Ma il quesito se sia possibile o non la vera poesia in una lingua 
              morta fu dibattuto nei secondi anni Trenta. Intervenne, fra gli 
              altri, con un saggio del 1937, Giorgio Pasquali, in termini perentori: 
              «Vè chi non crede a poesia vera in lingua morta. 
              Io mi sentirei di sostenere lopposto, che ogni letteratura 
              e quindi ogni poesia è in certo senso e in qualche misura 
              letteratura di lingua morta [...]. Poesia di lingua morta, dunque, 
              non esiste; o forse ogni poesia è di lingua morta».
 Sulla particolarità del classicismo pascoliano, che non è 
              riconducibile al generale stampo umanistico, insiste il Valgimigli, 
              che ribadisce: «Esso è tutto percorso da una vivida 
              aria che nessuno degli altri agitò, nemmeno dei secoli passati; 
              ed è scosso da fermenti di problemi di sociale e cristiana 
              umanità che nessuno degli altri conobbe»; sicché 
              a tale specifico classicismo corrisponde un latino «non formale 
              ed esterno, né raccattato da lessici e da grammatiche; bensì 
              risentito e ricreato come lingua nuova e viva e fresca, dove ogni 
              parola ha la sua vibrazione, il suo respiro, la sua necessità. 
              Perciò questa poesia, quando è poesia, è poesia 
              semplicemente, e laggettivo latino niente le toglie e niente 
              le aggiunge». Chiudiamo sullargomento ancora con lautorevolezza 
              del Traina, che innesta il bilinguismo pascoliano nella categoria 
              estetica, stilistico-espressionistica, del plurilinguismo continiano, 
              nellimpossibilità di isolare «il problema della 
              lingua morta da quello della lingua viva».
 2. Tracce di socialismo umanitario nei Poemata Christiana Lideazione e la stesura dei Poemata Christiana maturano nella 
              coscienza artistica del Pascoli nellultimo decennio della 
              sua vita, e non certo casualmente: Centurio (1901), Paedagogium 
              (1903), Fanum Apollinis (1904), Agàpe (1905), Post occasum 
              urbis (1907), Pomponia Graecina (1909), Thallusa (1911). In quel 
              decennio si assiste allacuirsi della questione sociale sullonda 
              lunga della Rerum Novarum di Leone XIII e allintensificarsi 
              della lotta di classe, oltre che ai fermenti modernisti che scuotono 
              la coscienza cattolica e attirano linteresse di autorevoli 
              personalità della cultura anche laica. Sono avvenimenti che 
              non lasciano indifferente il Pascoli, anche per il rilievo nazionale 
              che ha assunto la sua figura. La sua risposta agli eventi è 
              affidata ad alcuni testi del periodo, in prosa e in versi: risposta 
              en artiste, ovviamente, che muove da una percezione assai acuta 
              della crisi di una civiltà secolare, che non ebbe il DAnnunzio 
              e solo parzialmente il Fogazzaro. «Io credo  annota 
              nel 1903 in occasione della sesta edizione delle Myricae  
              che il male di cui tutti soffriamo e che è così aggravato 
              da cercare impazienti le cure più strane e diverse, è 
              un grande residuo di crudeltà che circola per tutte le vene 
              della società umana, la quale non vorrebbe essere di belve». 
              Crisi che coinvolge scienza e fede, istituzioni politiche e costumi, 
              ma che si abbatte con più accanimento, nelle sue ripercussioni, 
              sugli strati socialmente più deboli, sui più indifesi, 
              mentre, al tempo stesso, accentua langoscia dellesistere, 
              lenigma e linanità della storia, la sensazione 
              del mistero della vita e della morte. A debellare il grande residuo 
              di crudeltà, che il Pascoli ha espresso a tinte cupe nel 
              poema conviviale Gog e Magog del 1904, non restano che una religione 
              dellamore, il cristianesimo senza dogmi, naturale, che il 
              Pascoli rinviene anche nella cultura classica, di un Virgilio e 
              di un Orazio, e un socialismo «dellumanità e 
              non di una classe», che sostituisca alla ferrea legge della 
              Giustizia, inalberata dal «cieco e gelido socialismo 
              di Marx», la legge morale della Pietà: 
              un socialismo laico, ma intriso di spiriti cristiani. La Giustizia 
              ha provocato guerre, la Pietà lutopia salvifica 
              della pace perpetua, come aspirazione suprema della 
              coscienza universale. Nel contempo, si rafforzava nel Pascoli la 
              consapevolezza della funzione educativa altrettanto umanitaria della 
              poesia: cioè di una poesia che renda luomo «più 
              umano», come egli lascia dire ad Orazio: «Concedimi 
              ora, o bosco, mentre sono qui sdraiato sotto le medesime ombre di 
              meditare i carmi consueti (carmina quae soleo meditari), 
              che rendano più umana la schiatta umana (quae genus 
              humanum faciant humanius), sino a che essa si spogli di ogni 
              traccia bestiale (dum brutum sibi demserit omne)».
 In relazione al movimento modernista, sembra probantemente indiziario 
              dellattenzione pascoliana ad esso il discorso pronunciato 
              a Pisa nel 1905 per il cinquantennio sacerdotale di Geremia Bonomelli, 
              La Messa doro, in cui rivendica la priorità assoluta 
              della carità, tra le virtù teologali, lagàpe, 
              lamore, sulla scorta di San Paolo: «Fede, speranza, 
              carità sono tre, ma la maggiore è la carità» 
              (Ad Corinthios I, XIII, 13). Un rinverdimento poetico del cristianesimo 
              delle origini, dunque, si affaccia al cuore del Pascoli, con il 
              segreto bisogno di stemperare i grumi della propria e altrui angoscia 
              esistenziale e anche al fine di preservare lumanità 
              del millennio incipiente dallinsorgere di nuove «Ninive 
              e Babilonie, Cartagini e Rome, mostruose, enormi, infinite», 
              che accentuerebbero la disuguaglianza tra le genti.
 Anche nei Poemata Christiana il Pascoli rimane uomo moderno, perché, 
              come conclude il Pasquali, «la dottrina etica del cristianesimo 
              è per lui come per ognuno di noi uomini del ventesimo secolo, 
              credenti e non credenti, qualche cosa di incondizionato. Il paganesimo 
              è uno stato danimo letterario o una farsa, perché 
              millenni di vita cristiana né debbono né possono essere 
              avulsi dal cuore umano. Ma cristiani non sono soltanto la schiava 
              Thallusa e la patrizia Pomponia Graecina e il ragazzino orientale 
              Alexamenos (del Paedagogium), ma anche lOrazio del Fanum Vacunae 
              e della Phidyle (del Liber de poetis).
 3. «Vere hic homo iustus erat» (v. 178) Larco di tempo cui si richiamano i sette Poemata Christiana 
              abbraccia poco meno dei primi sei secoli dellera cristiana, 
              dagli albori, con il Centurio, al pontificato di Gregorio Magno, 
              con il Post occasum urbis, che preannuncia il tramonto della città 
              eterna e la fine del paganesimo, con Fanum Apollinis. Fra 
              i due estremi, la buona novella si diffonde in tutti 
              gli strati sociali, con Thallusa, Pomponia Graecina e Agàpe, 
              scatenando le persecuzioni, con Paedagogium.Lo spunto ideativo del Centurio è offerto da un passo del 
              Vangelo di Luca (XXIII, 47), che recita: «Videns autem centurio 
              quod factum fuerat, glorificavit Deum dicens:  Vere hic homo 
              iustus erat» («Il centurione, riflettendo su quanto 
              era accaduto, rese gloria a Dio, esclamando:  Veramente era 
              costui un uomo giusto»). Questo poemetto si può, a 
              ragione, considerare il manifesto dellintero ciclo 
              dei Poemata. Nel vecchio ufficiale romano in pensione si mescolano 
              e si scontrano memoria e coscienza: ricordi non più gratificanti 
              di guerre, stermini di popoli, saccheggi di città e presentimenti 
              di unepoca nuova, non più dominata dalla fallace pax 
              romana bensì, agostinianamente, dalla pax christiana 
              del De civitate Dei.
 La fabula del poemetto è presto detta. Etrio, dopo quarantanni 
              di servizio militare, si gode la quiescenza con lunghe passeggiate 
              per le stradicciole del suo villaggio natio, nel Lazio; ma non senza 
              che lo riassalgano nellimmaginazione fantasmi del passato. 
              Un giorno il centurione simbatte in uno sciame 
              di fanciulli, appena sbucati dalla scuola, con le loro cassette 
              e tavolette cerate («pueri loculos tabulamque gerentes»), 
              che lo circondano schiamazzando: «Dic aquilas, dic arma  
              fremunt  dic bella cruoremque». Il vecchio li accontenta; 
              le domande incalzano, ma sinsinua lentamente nellanimo 
              di Etrio un dissimulato disgusto per i racconti di guerra, che i 
              suoi scalpitanti rampolli dei padroni del mondo («rerum domini») 
              pretendono con petulanza; e sbotta, se pur bonario (son sempre dei 
              fanciulli): «Olim.../ Semper ego ut mera bella crepem?... 
              Sed et est quod torquat ora» («Un giorno...Ma solo e 
              sempre di guerra debbo io parlare? Cè pure, talvolta, 
              qualcosa che fa storcer la bocca»); e con progressiva studiata 
              accortezza narra quanto ha visto con i propri occhi di quell«uomo 
              straordinario» finito sulla croce. Dagli episodi di guerra 
              si passa ad episodi della vita di Gesù; ma se i primi entusiasmavano 
              quei frugoli bellicosi, i secondi incuriosiscono soltanto.
 Eppure gli episodi della vita di Gesù, per quel loro alone 
              pressoché surreale, dovrebbero eccitare la loro fantasia. 
              Ecco il Galileo, in un ameno lago, librato su una barca, tra cielo 
              e mare, che ammaestrava una folla ingente, assiepata sulla riva, 
              «tamquam pueros pater ipse docebat» («come un 
              padre, i suoi figli»). E ancora, sempre introdotto a sorpresa 
              dallavverbio indeterminato «un tempo» («olim»), 
              quellUomo che siede tra bambini, che le madri si affrettavano 
              a portargli da presso, perché li accarezzasse («Matres 
              teneros hinc inde ferebant / infantes, quos ille quidem contingeret»), 
              mentre proprio i suoi compagni se ne indispettivano («At comites 
              simul obiurgare, minari, matribus irasci») e quel maestro 
              li rabboniva. Infine, e siamo al culmine della suspense sempre più 
              tesa per il reiterarsi quadruplicato dell«Olim», 
              il tripudio della gente, che reca in mano «ramos pallentis 
              olivae», per quellUomo, «vectum asella»; 
              e che, procedendo tra la calca, nella città santa, 
              riconosce il centurione sussurrandogli una parola, che 
              risuonerà assai strana alle orecchie di quei fanciulli. E 
              la parola pace, che riecheggerà ammonitrice agli 
              uomini di buona volontà, lì, su quel poggetto che 
              dà pasto ai corvi («grumum qui corvos pascit ad urbem»). 
              Un barlume di autocoscienza il Pascoli attribuisce al centurione 
              («mihi sceleris letique ministro») nellincontro 
              folgorante con Gesù a Gerusalemme; nessuno invece ai fanciulli, 
              forse perché privi di ogni esperienza di vita, e che dunque 
              risentono nel loro inconscio la mitologia della violenza dei padri. 
              E la mitologia che continua a rivendicare il figlio di Albino, 
              lesattore usuraio del villaggio, che torna a chiedere a Etrio: 
              «Dic etiam: nobis terrarum impervius ullus angulus est? Quem 
              nos non vicimus, est quis?» («Dicci ancora: cè 
              angolo alcuno della terra per noi inaccessibile? Cè 
              tuttora chi noi non abbiamo vinto?»).
 In Centurio, la trama narrativa è come trapunta liricamente 
              dal gorgheggio degli uccelli, che per la sua dislocazione strutturale 
              nella compagine semantica, riveste precisi caratteri simbolici, 
              e al tempo stesso instaura un rapporto, una liaison, tra il vecchio 
              Etrio e i fanciulli, pur nella radicale diversità psicologico-emotiva, 
              luno nel raccontare e gli altri nel recepire. E il rapporto 
              di cui si legge nel Fanciullino: «Linvisibile fanciullo 
              (chè dentro ognuno di noi) si pèrita vicino 
              al giovane più che accanto alluomo fatto e al vecchio, 
              perché più dissimile a sé vede quello che questi. 
              Il giovane in vero di rado e fuggevolmente si trattiene col fanciullo; 
              perché ne disdegna la conversazione, come chi si vergogni 
              dun passato troppo recente. Ma luomo riposato ama parlare 
              con lui e udirne il chiacchiericcio e rispondergli a tono e grave; 
              e larmonia di quelle voci è assai dolce ad ascoltare, 
              come dun usignolo che gorgheggi presso un ruscello che mormora». 
              Il centurione vaga fra i campi, mira i filari delle viti a scacchiera, 
              che gli rammentano le legioni, «at aves non signa canebant»; 
              «ma uccelli non le trombe cantavano»); e quel canto 
              lo restituisce ad una realtà di serena pace.Quando i monelli improvvisamente ammutoliscono («ore favent»), 
              a un cenno col dito di Etrio che si accinge a riprendere il racconto 
              («vix hic dicturus digitum bene sustulit»), si ode dimprovviso 
              tuttintorno il rapido garrire delle rondini («circum 
              velox auditur hirundo»). E ancora le rondini  ricorda 
              bene il centurione  volitando sussurravano, in una lingua 
              incomprensibile dagli uomini, («barbara sed lingua, et non 
              intelligitur»), allorecchio del derelitto sulla croce 
              non si sa che cosa («sicut memini, cum prorsus in aure non 
              homini soli nisi quid garriret hirundo»).
 Né sembra vogliano allontanarsi da quel poggio maledetto 
              le rondini; che anzi si infittiscono a shiera, mentre in cielo navigano 
              rosee nubi, quando al calar delle tenebre cessa lo schiamazzo, si 
              allenta la tensione, e la feccia della città è sfollata 
              (Veniente tamen iam vespere clamor / et tumor hinc et faex 
              omnis concesserat urbis / ...Multa, ut nunc, pueri, circum volitabat 
              hirundo, / et roseas memini fluitare per aera nubes»). Lascendenza 
              biblica delle rondini sul colle dei Crani non attenua 
              lintenzione simbolica del poeta, che in quel prolungato intermittente 
              garrire coglie leco infinita dellappello alla pace, 
              quale messaggio estremo di salvezza universale.
 4. «Flet Thallusa canens, aeque memor, immemor aeque» 
              (v. 180) «Piange Thallusa e canta, egualmente ricorda e non ricorda», 
              come la Ofelia shakespeariana, alla quale, se pure per ragioni diverse, 
              è da paragonare per la intensa drammaticità interiore. 
              In questo poemetto, come in Pamponia Graecina, Agàpe, Paedagogium, 
              il messaggio cristiano è colto nella dimensione dellumano 
              dolore, della sofferenza redentrice, diremmo manzonianamente.La notizia della vittoria al concorso di Amsterdam giunse al Pascoli 
              qualche giorno prima della morte, avvenuta il 6 aprile 1912. Laveva 
              attesa a lungo, con trepidazione, tanto più che linfermità 
              che lo costringeva a letto non si allentava. Sarebbe stato il canto 
              del cigno. La motivazione della vittoria non poteva essere più 
              lusinghiera: «Carmen eximium quo vix cogitari quidnam possit 
              praestantius» («Poema eccelso del quale non si potrebbe 
              immaginare nulla di più perfetto»). Infatti, nel leggerlo, 
              gli accademici, ignorando ancora il nome dellautore, non ad 
              altri pensarono che a Giovanni Pascoli: per la catturante delicatezza 
              dei sentimenti, non nuova a quei giudici, per la fine introspezione 
              psicologica, per lineguagliata forza espressiva, per la ingenua 
              sensibilità sociale; aspetti che hanno poi fatto ritenere, 
              pressoché concordemente, Thallusa il capolavoro in assoluto 
              del corpus latino del Pascoli.
 Se nel Centurio la rievocazione del cristianesimo delle origini 
              oscillava tra storia e mito, per intendere Thallusa  scrive 
              Ermenegildo Pistelli  «non cè bisogno di 
              riposte notizie storiche e archeologiche, e neppure di alcuno sforzo 
              per adattarci a uno speciale ambiente, diverso e lontano dal nostro. 
              In nessun componimento la ricostruzione è così profondamente 
              ed esclusivamente umana come in questo»
 Due sono i motivi ispiratori di fondo del poemetto: uno di natura 
              storico-sociale, listituto giuridico della schiavitù 
              nella società pagana; laltro è lo sconfinato 
              amore materno, che annulla la diversità di classe tra matrone 
              e schiave, tra il bambino sottratto a Thallusa, perché schiava 
              e cristiana, e il bimbo della matrona da lei cullato. La esecrazione 
              pascoliana della schiavitù, col suo ius vitae et necis, affonda, 
              certo, la sua prima radice nel socialismo umanitario non materialistico 
              del poeta, ma attinge motivo ulteriore in quellumanesimo perenne, 
              in quella «intima cristianità delle letterature classiche», 
              da lui rivendicata nella prolusione pisana del 1903, La mia 
              scuola di grammatica.
 Il poemetto si apre con un delicato riquadro, realistico e insieme 
              simpatetico: la giovane schiava riconduce a casa dalla scuola i 
              due figlioletti della sua padrona, tenuti stretti a sé per 
              mano, luno con la destra e laltro con la sinistra, «haud 
              invitos sed saepe morantes» («docili ma spesso lenti 
              nel procedere»). Si fermano presso bottegucce, riboccanti 
              di ninnoli («armillis bullisque catellisque») o dinnanzi 
              a tavoli imbanditi di leccornie fumiganti. Con essi sosta anche 
              Thallusa, del pari incantata, ma che alla vista di quelle squisitezze, 
              a lei sconosciute, indugia ancor di più, tanto che il più 
              piccino si affretta ad offrirle la sua monetina ancora in serbo 
              perché possa comprarsene: «balbutit puer: numquam tetigisti 
              crustula, quo nil dulcius». Il gesto commuove la donna, che, 
              non più corrucciata, gli accarezza la testina dolcemente 
              e bisbiglia: «Lucille, quid offers non adeo parvae belluria 
              servae? / Haec ede tu: rodant haec mures dulcia dulces» («Mio 
              Lucietto, perché offri i dolciumi a una schiava ormai fattasi 
              grande? Mangiali tu piuttosto; o semmai se li rosicchino i topini»). 
              Ma limmagine improvvisa dei topini le riporta alla memoria 
              la sua creaturina, strappatale appena nata: si abbandona alle lagrime 
              e ricompare sul suo volto il rancore. Bisogna far presto a rincasare, 
              o il padrone le riserverà le solite aspre rampogne; e si 
              trascina con strattoni i due piccoli, che dun tratto smettono 
              il loro chiacchierio e si affrettano, «binisqui tolutim passibus 
              aequant / singula Thallusae vestigia» («trotterellando 
              eguagliano con due passetti ogni passo di Thallusa»). Intanto, 
              sbotta con la moglie il padrone per il pur lieve ritardo della schiava, 
              e annuncia di averla già ceduta ad altri; anzitutto perché 
              Thallusa bazzica con la «marmaglia cristiana» («Chresti 
              sectam») e può, a lungo, plagiargli i figli, che viene 
              constatando troppo legati a quella schiava. Invano Gaia, la moglie, 
              pagana anchessa, adduce attenuanti: «Verum frugi est 
              patiensque laboris / et caros pueros habet et pueris est cara» 
              («Ma è frugale, laboriosa, ha cari i nostri bambini 
              e lei è cara ad essi»). La donna, insomma, oppone allauctoritas 
              del padre padrone il suo istinto materno, che sa di avere in comune 
              con la schiava. Il dato di natura prevale sul pregiudizio sociale. 
              Alle premure di Thallusa, infatti, non esita ad affidar il suo terzogenito 
              ancora lattante, quando ella deve recarsi a celebrare con le amiche 
              i riti della Dea Bona. Così la schiava resta sola in quella 
              casa non sua, ma che pure, in qualche modo, illusoriamente, le ricrea 
              nella immaginazione il tepore affettivo del nido. Disinganno 
              atroce: il nido veramente suo è stato infranto: 
              le è stato ucciso il marito, che per primo laveva avviata 
              alla fede cristiana e alla religione dellamore fra gli uomini; 
              le è stata rapita, appena nata, lunica sua creatura; 
              e questi ricordi le sconvolgono la mente. Sogguarda di traverso 
              gli abbracci affettuosi tra i figli e la matrona («Dulces 
              complexus limis Thallusa tuetur»); le si schianta il cuore 
              come depredato dei suoi affetti e Thallusa si abbandona a un impeto 
              di odio. Il lungo monologo, che occupa la parte centrale del poemetto, 
              ne rivela una vera e propria degradazione, la quale, 
              peraltro, rientra nella prospettiva estetica di un realismo psicologico.
 Lanimo di Thallusa è lacerato tra speranza (cristiana) 
              e disperazione (schiavile), tra fede ingenua e rivolta emotiva sino 
              alla dissacrazione. Vi si susseguono sarcastiche imprecazioni che 
              sfociano nella empietà: «Va felice, Gaia, e a te la 
              Dea Bona sia propizia come a me fu il buon Dio; e al ritorno possa 
              tu vedere la culla del tuo piccino, come io vidi quella del mio, 
              al mio rientro»; «dulcique fruaris alumno / non magis 
              atque egomet, cui frustra lacte tumentes / abreptum puerum non invenere 
              papillae» («e possa goderti la soave tua creatura non 
              più che io stessa la mia, che, strappatami, non ritrovarono 
              più le mammelle gonfie di latte»).
 Siamo ormai al delirio, che la figura retorica del climax rende 
              con grande efficacia espressiva. Limmaginazione allucinata 
              della schiava è fissa sul viso evanescente del suo bimbo: 
              morrò certo, gli sussurra, ma risorgerò e tuttavia, 
              figlioletto mio, non ti vedrò nel primo fiore, quando col 
              mio sorriso ricercavo il tuo («parve puer, te non in primo 
              flore videbo, / cum risum risu tentabam promere primum»). 
              Perché non può riconoscermi  insiste quella 
              infelice  come la mamma sua, «mihi qui non riserit umquam!» 
              («egli che mai ha potuto sorridere a me»). Un dolore 
              che le serra la gola, né Dio stesso può nulla, né 
              la morte («Nil contra Deus ipse potest, nil ipsa potest mors»). 
              E nel suo scatto estremo Thallusa maledice Tertullo e la culla in 
              cui vagiva, la casa intera, con la padrona e quei bambini che ella 
              riprendeva dalla scuola e a lei affezionati. «Dum furit et 
              cunctos optat vanescere flammis / seque una, tenui tintinnant, ut 
              putat, aures / murmure, mox agni tamquam sine matre relicti / vox 
              animum temptat. Tremibundo palpitat omnis / vagitu domus. Infelix 
              Thallusa, vocaris! / Novisti vocem. Matrem vox illa vocat te». 
              («Mentre così vaneggia e brama che tutti siano avvolti 
              dalle fiamme, insieme con lei, le giunge allorecchio  
              così crede  la voce come di agnellino abbandonato dalla 
              madre, che le tocca il cuore. Tutta la casa palpita di un tremulo 
              vagito. Quella voce chiama te, povera Thallusa! La conosci, quella 
              voce. Tinvoca mamma quella voce»).
 Si è spento quel bieco baleno di vendetta, e quando Tertullo 
              si sveglia, per quietarlo gli canta la ninna-nanna, così 
              come la canterebbe al suo bimbo perduto: «Ocelle mi, quid 
              est quod vis apertus esse?» («Occhiuzzo mio, che cosa 
              è che ti fa stare sveglio?»); «Ocelle mi, quid 
              est quod usque me tueris?» («Occhiuzzo mio, che è 
              per cui mi guardi così fino?»); e Thallusa, in un trasporto 
              di complice tenerezza, ama immaginare che quello sguardo fisso sia 
              un segno di partecipazione del piccolo al proprio dolore; ma soggiunge: 
              «Sum servuli quidem vix mater, ipsa serva. / Genis tuis tegaris: 
              liberam videbis» («Sono madre a stento di un piccolo 
              schiavo, schiava io stessa. Chiudi le tue palpebre: mi rivedrai 
              libera»). Ma il senso di una maternità soffocata esige 
              altri sfoghi e la nenia dolorosa prosegue: «Ocelle, qui tueris 
              usquequaque lugens...» («Occhiuzzo, che mi guardi piangendo 
              come se io stia per allontanarmi da te... non credere che la morte 
              ti tolga la tua mammina»), «genas tuas remitte semper 
              et videbis» («abbassa le tue palpebre, e la vedrai sempre 
              la tua mammina»). E allucinata la trasposizione del 
              sogno in realtà: quel piccino che frigna ha le sembianze 
              del suo; del pari, il desiderio materno di ritrovarlo nellaldilà 
              si trasforma in certezza che nello stesso luogo lorfanello 
              abbraccerà la sua mamma. Allora «Flet Thallusa canens, 
              aeque memor, immemor aeque», e a quel canto ritmato dai singhiozzi, 
              Tertullo, che dondola nella zana, schiude la boccuccia al sorriso 
              («tandem crispatur buccola»); un sorriso che Thallusa 
              reclama tutto per sé, insistendo: «Ride! coepisti tandem 
              risu cognoscere matrem» («Sorridi! Cominci finalmente 
              a conoscere tua madre e le sorridi»).
 Ma troppo breve è stato il dolce autoinganno di Thallusa. 
              La madre vera di Tertullo sopraggiunge; ha ascoltato le sue parole 
              al piccolo («Mater adest sed vera redux auditque loquentem»), 
              e la invita ad andare a dormire, perché il giorno dopo dovrà 
              levarsi presto: «Primo mane domo servam novus emptor abegit» 
              («Di primo mattino il nuovo acquirente condusse via la schiava 
              dalla casa»).
 5. «Mortalis amor, dolor immortalis» (v. 197) Largomento del poemetto Pomponia Graecina fu ispirato al 
              Pascoli da un passo degli Annales di Tacito (1, XIII, 32), cui egli 
              si riferisce esplicitamente ad apertura: «Non cultu nisi lugubri 
              Pomponia vitam, / non animo vixit nisi maesto» («Se 
              non con vestiti di lutto, se non col cuore mesto Pomponia visse 
              la sua vita»). Ma riportiamo per intero il brano dello storico 
              latino: «Pomponia Grecina, nobile matrona romana, andata sposa 
              a Plauzio, al suo ritorno dal governatorato della Britannia con 
              gli onori del trionfo, poiché era stata accusata di superstizione 
              straniera («superstitionis externae rea»), fu sottoposta 
              al giudizio del marito. E questi, secondo lantico costume 
              («prisco instituto»), istruì il processo sulla 
              vita e sullonore della moglie alla presenza di tutti i congiunti, 
              e la proclamò innocente («propinquis coram de capite 
              famaque coniugis cognovit et insontem nuntiavit»). Questa 
              Pomponia ebbe poi lunga vita in continua tristezza («continua 
              tristitia fuit»). Infatti dopo luccisione di Giulia, 
              figlia di Druso, voluta con inganno da Messalina («dolo Messalinae 
              interfectam»), per quarantanni vestì a lutto, 
              e sempre triste in cuore; per lei tutto ciò passò 
              impunemente durante il regno di Claudio («imperitante Claudio»), 
              poi le fu motivo di gloria («mox ad gloriam vertit»)». 
              Qualche chiarimento, che faccia comprendere la diversione esegetica 
              del Pascoli rispetto alla sua fonte. La figlia di Druso era una 
              lontana parente di Pomponia e della sua avvenenza e virtù 
              era oltremodo invidiosa Messalina, la depravata moglie dellimperatore 
              Claudio (lo zuccone, di cui si prende gioco atroce Seneca), 
              poi bersaglio nella celeberrima satira VI di Giovenale contro le 
              donne.
 Lispirazione del poemetto, inoltre, fu probabilmente rafforzata 
              dalla lettura del romanzo Quo vadis? del polacco Enrico Sienkiewietz, 
              che, in traduzione italiana, circolò largamente alla fine 
              dellOttocento. La patrizia romana, infatti, vi compare, insieme 
              con il marito, Aulo Plauzio, figura di primo piano nella Roma neroniana, 
              che è il tempo storico cui ci riconduce il poemetto pascoliano.
 Tornando a Tacito, dal suo brano si deduce che egli attribuiva la 
              ragione della tristezza e dellabbigliamento lugubre di Pomponia 
              alla morte di Giulia; il Pascoli, invece, con maggiore verosimiglianza 
              e in coerenza con lintenzione ideologica dei Poemata Christiana, 
              la fa risalire allo struggimento segreto della donna, costretta 
              dal marito allabiura della sua fede cristiana, per poter riabbracciare 
              il figlio ancor piccolo.
 Il disprezzo di Tacito, come di Giovenale, di Plinio il giovane, 
              di Svetonio, per la superstitio externa, è radicale, 
              assoluto (Annales, XV, 44), perché sovvertitrice del «mos 
              maiorum» sul piano dei comportamenti pubblici, della «pax 
              romana» sotto il profilo politico-istituzionale, e del sistema 
              egemonico «utriusque ordinis» dal punto di vista sociale. 
              «Superstitio exitialis», per il più nefando dei 
              crimini che viene imputato ai seguaci del Christus: l«odium 
              generis humani», che poi, per ritorsione, avrebbe scatenato 
              contro di essi lodio di tutti gli altri popoli, compresi gli 
              ebrei. La separazione dei valori politici dai valori spirituali 
              costituiva lasse rivoluzionario della nuova fede, allinsegna 
              dellamore, della charitas paolina. Troppo stridente, dunque, 
              il contrasto tra ideologia e prassi imperiale e cristianesimo, perché, 
              assumendo a pretesto lincendio del 64, non si desse sfogo 
              alla più feroce delle persecuzioni. Ma, come scrive Ernesto 
              Buonaiuti, lincendio e la repressione «costituiscono 
              il battesimo storico della comunità romana e più genericamente 
              della Chiesa nei suoi contatti col potere politico».
 In Pomponia Graecina, i valori politici sono rappresentati dallautoritarismo 
              di Plauzio, «Flamen dialis», e perciò insignito 
              di un crisma ufficiale; nonché, fra le mura domestiche, «pater 
              et herus» («padre e padrone»). I valori spirituali 
              sono invece rivendicati, nella loro superiorità non soltanto 
              in ambito privato, dalla fermezza di Pomponia; valori che ella conserva 
              in cuor suo anche quando il marito le pone lalternativa crudele 
              tra il sacrificare agli dei, secondo il «buon costume degli 
              antichi padri» («O domus antiquis quae stabas moribus», 
              proclama Plauzio), e la separazione dal figlio; in definitiva, quando 
              è in gioco senza scampo o la salvezza o la perdizione eterna, 
              sia di lei che della sua creatura.
 La struttura del poemetto è dunque assai più articolata 
              degli altri. Accanto a Pomponia, in funzione eponima e ideologicamente 
              epesegetica, appare Plauzio, in funzione antagonista e tutoria della 
              continuità della tradizione, non soltanto domestica; tradizione, 
              peraltro, che già il padre di Pomponia non ha riconosciuto 
              nella sua assolutezza inibitoria, pur nella propria illibatezza 
              di vita. Offensivo, dunque, per la figlia, lo scherno che il marito 
              invece gli riserva: «Tu dedignaris... An ipso Graecino patre? 
              Quam molli qui pectore Romam / venerit ex Asia, posita feritate 
              Quirina, / novimus...» («Tu ti sdegni. Ma a renderti 
              seguace di un criminale in croce, è forse lo stesso tuo padre 
              Grecino? Sappiamo come, deposta la romana fierezza, sia ritornato 
              dallAsia a Roma da rammollito»). Non marginali, se pure 
              sfumate, le figure dei due fanciulli, il piccolo Aulo e Grecino 
              il cuginetto, che incarnano la innocenza intatta a livello individuale 
              allalba dellesistenza, come il cristianesimo, nella 
              sua originaria purezza, incarna laspirazione allinnocenza 
              dellintero mondo umano: aspirazione insopprimibile e già 
              avvertita in epoca pagana con la mitica età di Saturno, «sotto 
              cui giacque ogni malizia morta» (Pd., XXI, 27).
 Il tenore di vita, cristianamente appartato e riservato, è 
              motivo di maligne mormorazioni del volgo: «Quid habet Graecina, 
              quod intus sic servet?» («Che cosa ha mai Grecina, che 
              se ne sta sempre tappata in casa?»); ha da poco potuto riabbracciare 
              il consorte, di ritorno in trionfo dalla Britannia, e tuttavia se 
              ne sta corrucciata («angitur»); ha in odio, infelice, 
              la luce del giorno e si nasconde nellombra («odit aegra 
              diem, latet in tenebris»); in quali templi degli dei si aggira, 
              per pregare o per rendere grazie?» («supplex aut grates 
              habitura?»).
 Si affretta a deferire allorecchio del principe limmancabile 
              ruffiano, con la solita vischiosità adulatoria: «Temo 
              proprio che qualche superstitio non spreta servis» («ben 
              accolta dagli schiavi») abbia intaccato «ampli flaminis 
              uxorem Graecinam»; cosa che non vorrei proprio credere («credere 
              nolim»). Non vè dubbio: è rea confessa 
              («tum rea fit mulier»). Seguono il processo e lintimazione 
              del marito, cui Pomponia replica reclamando la propria intemeratezza, 
              la devozione al consorte e al figlio, lamore per la casa; 
              con il richiamo alla saggezza evangelica: «la bontà 
              di un albero si conosce dal frutto: e nessuno ha mai colto luva 
              dai pruni» (frux unicum arbori index: / nemo de spinis 
              umquam collegit uvam, Matteo , VII, 16-18). Una tregua apparente 
              nel contrasto insanabile; quando, infatti, il «flamine diale», 
              investito, come tale, dallautorità dellimperatore 
              (che è Nerone), impone di versare i grani dincenso 
              sullaltare degli dei, imputandole un presunto «humani 
              generis contemptus» («il disprezzo nelluman genere»), 
              Pomponia, «extollens secura caput», ribatte: «falso! 
              Nam fratrum quasi convictum coetumque sororum / ipso patre Deo nostrum 
              genus putamus» («E falso! Perché noi crediamo 
              come una comunanza di fratelli e una società di sorelle il 
              nostro genere umano, con lo stesso Dio quale padre»). Che 
              è la temuta, esplicita, e invano scongiurata, professione 
              di fede cristiana di Pomponia. Lepilogo è ineluttabile: 
              il figlio resterà col padre e la donna può pure andar 
              via da quella casa; altrimenti sarebbe stata una riprova che la 
              superstitio externa già serpeggiava fra le classi 
              alte di Roma.
 Ma a richiamare Pomponia alla realtà dellevento inaspettato 
              dellabiura è la voce del suo figlioletto che chiede 
              di lei: «Tum vox auditur, gracilisque silentia rumpit, / custodem 
              pueri patulo rogitantis in oeco» («Si ode allora una 
              voce fievole che rompe il silenzio, di fanciullo che domanda insistente 
              al custode nella vasta sala»). «Mater ubi est?», 
              replicato tre volte con un crescendo angoscioso, che fa quasi balzare 
              il cuore dal petto alla donna («Cohibet cor palmis perdita 
              mater»).
 Nei primi tempi cristiani, che son quelli del poemetto, la professione 
              della nuova fede oscillava, di necessità, tra velleità 
              eroiche e ripiegamenti solipsistici: gli estremi emotivi fra i quali 
              si muove il travaglio interiore di Pomponia, che è cristiana 
              ma pur sempre una patrizia. In lei ladesione ai dettami di 
              un culto straniero non si configura che come un pur sincero atto 
              intellettuale, favorito da una cultura raffinata (quella del padre, 
              invisa a Plauzio); mentre nella schiava Thallusa nasce quasi da 
              pulsioni istintive, prelogiche, fanciullesche, perché la 
              predicazione cristiana delluguaglianza e della fratellanza 
              universale la appaga nel suo bisogno naturale di riscatto umano, 
              prima ancora che sociale. Le accomuna però il dramma di una 
              maternità offesa e lacerata, del nido brutalmente 
              negato, che la schiava si ricompone illusoriamente riversando nel 
              bimbetto della padrona quelle effusioni traboccanti che limmaginazione, 
              sempre più accesa, riserva al suo, nel sogno ricorrente di 
              riabbracciarlo; Pomponia, col pianto nel cuore («lacrimis 
              mater inusta»), lo ricompone nello sforzo di ripristinare 
              lintatta tenerezza con la quale era solita raccontare al suo 
              piccolo Aulo, ormai senza più il cuginetto, compagno di giochi, 
              favole dilettose, come quella della pecorella smarrita 
              o della monetina perduta (Luca, XV, 1-10). Lo aveva particolarmente 
              scosso la favola del figliol prodigo (Luca, XV, 11-32), 
              e insiste per riascoltarla da lei, soltanto da lei, perché 
              nessun altro sa narrare come la sua mamma: «Hoc, matercula 
              narra; nam tu sola vales hoc enarrare diserta». Ma questo 
              riaffiorare dal fondo di una memoria ormai sconvolta un prius irreversibile 
              di intimità domestica ed esistenziale acuisce lo strazio 
              della donna, cui non resta che abbandonarsi allimminente grande 
              «giorno del Signore» (del giudizio universale, Atti 
              degli apostoli, II, 19-20), preceduto da sangue, fuoco e fumidi 
              vapori. Ella sente, in assoluta solitudine, scorrere i suoi giorni 
              e i suoi anni, propriamente dal 57 al 64, «guttatim, quasi 
              de vitrea clepsydra» («a goccia a goccia, come da una 
              clessidra»); ma quel giorno, la madre, sguarnita della «palma 
              e della bianca stola» («non palma nec alba est iam stola»), 
              non potrà condurre il suo figlioletto innocente oltre i confini 
              del mondo («deducens puerum mortem transmittere mundi»). 
              Lo sguardo di nascosto «ac flens ingeminat:  Mortalis 
              amor, dolor immortalis» («e piangendo ripete:  
              mortale è il mio amore, ma immortale il mio dolore»): 
              cioè il dolore disperato di non appartenere, per la sua abiura, 
              al «numero degli eletti», in quel giorno del Signore 
              31. La città «eterna» è avvolta da vampe 
              gigantesche e sembra rischiarare luniverso, quasi immane fiaccola 
              di morte, che le raffiche impetuose del vento attizzano vendicatrici 
              (Apocalisse, VII, 1). La parusia invocata qui si tinge di inusitata 
              violenza simbolica, a specchio, inconscio, dellanimo di Pomponia, 
              che trova rifugio furtivo, travestita per non farsi riconoscere 
              quale patrizia, tra i cunicoli delle catacombe. E qui, tra i vari 
              emblemi cristiani, ne avverte un fascino per lei non nuovo. Si addentra 
              con una lucerna accesa e le giunge allorecchio un canto femminile 
              come di ninna-nanna: «Naenia clarescit muliebri mixta querela. 
              / Naenia profeto est, qualis cantatur ut infans / dormiat». 
              Avanza ancora, con un presentimento atroce: è infatti la 
              nenia sul corpicino straziato dai molossi del nipotino Pomponio 
              Grecino, lamichetto perduto del suo piccolo Aulo: lo guarda 
              e riguarda: «Ille oculis ambit matrem quam saepe vocabat, 
              / et dulcem quaerit, siqua est, hinc inde gemellum» («Con 
              gli occhi, quel bimbo esanime fissa colei che spesso in vita chiamava 
              madre, e cerca qua e là, se ancora ci sia, il dolce suo gemello»). 
              Un tramite oltre «il muro dombra», che separa 
              la vita dalla morte, presagio, almeno, di vita imperitura nella 
              memoria dei superstiti: una cristiana corrispondenza damorosi 
              sensi, che suggella lintenso calore umano che palpita nel 
              poemetto.
 Il Pascoli non lascia esplicitamente intendere se, tra quei cunicoli 
              indelebilmente segnati dal sangue innocente dei martiri («Dependent 
              phialae sparso modo sanguine tinctae»), e alla vista del corpicino 
              sbranato dalle fiere, Pomponia, smarrita e sgomenta, abbia riconquistato 
              in tutta pienezza la fede cristiana, compromessa dallabiura. 
              Ma è questa indeterminatezza che, per un verso, consente 
              al Pascoli, fedele alla sua poetica, di non appiattirsi sul presunto 
              dato storico, e per laltro sollecita limmaginazione 
              del lettore secondo la sensibilità sua propria; perché 
              «la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella 
              che migliora e rigenera lumanità, escludendone non 
              di proposito il male, ma naturalmente limpoetico». Ci 
              sembra perciò da condividere quanto osserva in proposito 
              Piero Treves: «Escluso il cristianesimo di Pomponia dal piano 
              della realtà, resta a vedere se vi rientri, o possa rientrare, 
              sul piano della poesia. Qui lo stesso confronto con Thallusa mostra, 
              ne avesse o non ne avesse piena coscienza il Pascoli, e quantunque 
              per ovvie ragioni si compiacesse di fare del Cristianesimo, soprattutto 
              ai suoi inizi, la religione dei poveri, degli schiavi e dei diseredati, 
              che Pomponia è nel suo intimo, nella sua condotta, nella 
              sua educazione e nel suo sentire, assai più prossima al Cristianesimo 
              che non sia per essere Thallusa».
 Il tempo storico del poemetto Agàpe è ancora il neroniano, 
              con il suo avvenimento più clamoroso e tragico per il cristianesimo 
              delle origini, lincendio di Roma, di cui si è detto. 
              Fonte è lepistola di San Paolo ai Romani (XVI, 1), 
              dalla quale sono ripresi i nomi dei personaggi, maschili e femminili, 
              spesso con la stessa terminologia adoperata verso di essi. Ma il 
              rito dellAgàpe, che è la celebrazione del banchetto 
              tra cristiani di ogni lingua, nazione e stato sociale, a ricordo 
              dellultima cena di Gesù, trae spunto da un passo di 
              Tertulliano (Apologetico, XXXIX). «La cena nostra indica il 
              suo significato dal nome: si chiama infatti agàpe, che in 
              greco suona amore». E però un lemma di pregnanza 
              paolina: per lapostolo delle genti, infatti, delle tre virtù 
              teologali «la più grande» è la charitas 
              (Ai Corinzi, I, 13, 13).Il racconto di Agàpe è databile, più precisamente, 
              la sera del 18 luglio, quando i cristiani, raccolti per il banchetto, 
              avvertono senza lasciarsi prendere dal panico le crescenti avvisaglie 
              dellincendio imminente dellUrbe: «Nox subìit 
              dubìis surgentibus flatibus Euri, / turbida: praetereunt 
              ingentia nubila Romam» («Poi giunse la notte, torbida 
              di sbuffi mutevoli dello scirocco che si levava, e grandi nuvole 
              passano su Roma»). Tuttintorno la Roma pagana, guasta 
              nei costumi e iniqua nelle istituzioni, impazza per lultima 
              volta, mentre i credenti tra le mura del cenacolo si confidano tra 
              loro: «chiunque sa di far bene, egli è legge a se stesso» 
              («Est, quicumque sibi est bene conscius, ipse sibi lex»), 
              e si ripetono lammonimento estremo, per bocca di Aquila, «collaboratore 
              mio in Cristo Gesù» (Epistola ai Romani, passo citato): 
              «Quisquis es, Hebraei seu sanguine, sive Quirites, / dives, 
              inops, liber, posita sive emptus ab hasta, / inter vos, frates, 
              haec summa est legis, amate!» («Chiunque tu sia, di 
              sangue ebraico oppure quirite, ricco, povero, libero, comprato allasta, 
              fra voi, fratelli, questo è lessenziale della legge: 
              amate!»). Ormai «questo mondo passa, questa età 
              è svanita», preannuncia ancora Aquila; il giorno del 
              Signore è imminente, e la sua attesa si accompagna con la 
              preghiera; mentre «un crepitio di fiamme, un guizzo di fuoco, 
              e il vento nella sua furia flagella le vampe e aggiunge fuoco a 
              fuoco» («Crepitant flammae, micat ignis, et igni ignem 
              adflat»). Nella illusione cristiana è la soluzione 
              escatologica della parusia, ma in effetti è lennesimo 
              crimen dellimperatore.
 In questo poemetto, che perciò differisce dagli altri, il 
              messaggio della fratellanza è rilevato dal Pascoli nella 
              sua dimensione etica e non soltanto sociale: «la legge morale 
              dentro di me e il cielo stellato sopra di me», sarà 
              il monito dellimperativo categorico di Kant; ma la sua prima 
              enunciazione risale allalba dellera cristiana: «chiunque 
              sa di far bene, è legge a se stesso». Ecco Antusa, 
              la fiorente, che, nello scompiglio della città, 
              si affretta a ricoprire con la propria veste di vergine la sorella 
              Lycisca, una meretrice ignuda che fugge dal lupanare («propiorque 
              Anthusa Lyciscae / virginea nudam velabat veste sororem»): 
              sorella, parola nuova e inaudita della charitas cristiana.
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