| Cè dunque un filo patologico che 
              continua a percorrere lintera storia unitaria italiana e che 
              evidenzia la nostra cronica incapacità di essere nazione. |  | Roma, 27 marzo 1985. Cade Ezio Tarantelli, allievo di Modigliani 
              al Mit, consulente della Cisl, in quel momento impegnato nella riforma 
              del meccanismo della scala mobile.Roma, 20 maggio 1999. Cade Massimo DAntona, docente alla Sapienza, 
              consulente dellallora ministro del Lavoro, Bassolino. Lo si 
              colpì a morte  si disse  perché era a 
              favore del dialogo sociale.
 Bologna, 19 marzo 2002. Cade Marco Biagi, che aveva lavorato al 
              Libro Bianco sul lavoro e si stava occupando della riforma 
              dellart. 18.
 Prima di Tarantelli, era stato assassinato Ruffilli ed era stato 
              ferito Giugni. Subito dopo era stato ferito Da Empoli. La scia brigatista 
              non è mai cessata. Mai messa allo scoperto. E mai spezzata.
 Tragico è stato il destino dei riformisti nel nostro Paese. 
              Dei tre filoni culturali in cui il pensiero riformista sul mercato 
              del lavoro si è articolato dagli anni Ottanta in poi, quello 
              sviluppatosi sulla proiezione Cgil di Accornero-DAntona-Ichino, 
              quello cattolico di Treu, quello socialista di Giugni-Biagi, tutti 
              hanno avuto le loro vittime. La loro parola si è attenuata 
              o spenta specularmente alle parole passate alle pistole che sbucavano 
              dallombra, senza che nessuna parte politica se ne avvantaggiasse. 
              Ci rimettevano, tutte intere, lItalia e la sua società. 
              E continua a rimetterci il moderatismo, che è nemico del 
              terrore e dellautoritarismo.
 Si riteneva tramontata londa di ribellismo che ci immerse 
              nel sangue nei feroci anni Settanta. Si parlava di ultime schegge 
              e di residui scollegati, mentre venivano messi fuori circolazione 
              gli aggettivi deliranti o farneticanti che 
              avevano connotato lincapacità critica (e autocritica) 
              della politica di allora. E invece la realtà è nella 
              continuità dellazione terroristica: nelluniverso 
              cupo delle organizzazioni clandestine, delle Br che hanno sempre 
              selezionato le loro vittime per condizionare la Sinistra e per influenzare 
              il conflitto industriale. Con una differenza qualitativa: il terrorismo 
              degli anni Settanta si era nutrito di una graduale radicalizzazione 
              nel corso di un lungo ciclo di protesta ruvida durante i frequentissimi 
              scontri di piazza. Passo dopo passo, si era passati da una concezione 
              di violenza difensiva, con multipli appelli alla Resistenza, ad 
              una violenza come strumento per catalizzare il conflitto politico-sociale. 
              Ai nostri tempi, invece, mentre i legami col passato sono presenti 
              soprattutto in termini di organizzazione sommersa (la compartimentazione, 
              ora persino più ermetica), lattività dei brigatisti 
              si concentra su poche azioni, di assoluta brutalità, che 
              massimizzano limpatto mediatico. Con tanta acqua in 
              cui nuotare, allora; con meno ossigeno, oggi: ma non del tutto 
              isolati, né in pochi, né sprovveduti, se la reazione 
              dellintelligence non è stata in grado di venire ancora 
              a capo del resto di niente.
 Scrivevamo, ai tempi dei delitti politici brigatisti, 
              che mediamente ogni venti-trentanni emergono in Italia picchi 
              di giacobinismo omicida, legittimato dagli oscuri protagonisti, 
              ma anche da alcuni esponenti del milieu politico, con ragioni soggettive 
              mai riconducibili al conflitto che è indivisibile dalla democrazia. 
              Cè dunque un filo patologico che continua a percorrere 
              lintera storia unitaria italiana e che evidenzia la nostra 
              cronica incapacità di essere nazione. Noi siamo una finzione 
              di nazione, che si manifesta solo quando si profilano emergenze 
              a orologeria: politiche, belliche, morali, di riforma istituzionale, 
              economiche, di catastrofi naturali, terroristiche... Scrive Paolo 
              Mieli che dai tempi del connubio di Cavour e Rattazzi 
               dunque da centocinquantanni  troppe volte e troppo 
              palesemente si è cercato in Parlamento il compromesso politico, 
              al quale sono imputabili alcuni tra i principali mali del Paese: 
              trasformismo, corruzione e lo stesso terrorismo. Siamo la regione 
              europea nella quale né Destra né Sinistra riescono 
              a stare al loro posto, ma cedono alla tentazione impolitica delle 
              convergenze al centro.
 Fu Agostino Depretis a coniare il termine trasformismo 
              quando, nel 1876, la Sinistra andò al potere. Solo che allora 
               come ebbe a notare Indro Montanelli  si chiamò 
              connubio, essendo nato nei salotti torinesi; quando 
              è passato alle bettole della politica contemporanea, ha finito 
              per chiamarsi anche ribaltone. Il massimalismo giacobino 
              deteriore (che nulla ha a che fare con quello di alta levatura politica 
              culturale) è stato e continua ad essere in buona parte frutto 
              di questa deriva, nella quale la provincia Italia, occultando leterna 
              paura rinascimentale del veleno nel cibo, del patto tradito, della 
              pugnalata alla schiena, ha fatto assurgere a sistema la compromissione, 
              lintesa tra opposti, la coalizione demagogica. E dentro questo 
              magma nero può passare tutto e il contrario di tutto: linteresse 
              personale e gli interessi di parte, le imboscate e lipocrisia 
              perbenista, i ricatti e le false riconciliazioni. Lo spettacolo 
              offerto da un teatro politico di situazione, statico, paludoso e 
              tossico, da un secolo e mezzo a questa parte, non è stato 
              edificante. Ovvio che ciò abbia contribuito a formare e a 
              consolidare unantropologia politica e culturale di infimo 
              profilo. Altrettanto ovvio che, al cospetto di un (promesso) teatro 
              dazione, volto a sconvolgere poteri, comportamenti, posizioni 
              di rendita parassitaria, una parte della narcisistica intellighentzia 
              italica entri in fibrillazione, cercando complicità internazionali 
              e consensi interni, e simultaneamente esploda parole di piombo che 
              portano allo sfracello sociale, evocando una violenza dalla quale 
              solo a morto ammazzato caldo prendono, senza vergognarsi, le distanze. 
              Che altro significato dare, ad esempio, alle parole di un sindacalista, 
              secondo il quale il governo «non può essere battuto 
              in una dialettica parlamentare tra maggioranza e opposizione», 
              ma solo dallo scontro di piazza? Che senso può avere laccusa, 
              rivolta ai riformisti, di essere puri e semplici traditori, invocandone 
              la proscrizione? Per quale ragione paralizzante si accosta ancora 
              loggi al fascismo e al nazismo, vedendo in ogni atto di governo 
              un attentato alla Costituzione, reclamando interventi emergenziali 
              del Capo dello Stato, dando corpo e sostanza ai fantasmi di un regime?
 Scrive Franco De Benedetti, senatore Ds, candidato  appunto 
               alla proscrizione: «Sta nellaver creato questa 
              atmosfera la terribile responsabilità, sia pur tutta politica 
              e nulla penale, di chi ha spinto lopposizione a toni, giorno 
              dopo giorno, sempre più estremi... Chi pensa di poter tenere 
              tutto insieme, giustizialismo e garantismo, resistenza al regime 
              e opposizione nellalternanza, i diritti di chi li ha acquisiti 
              e le ragioni di chi non li ha, ripropone tragicamente quella sconfitta 
              che il massimalismo ha tante volte già inflitto in un secolo 
              ai riformisti. Non solo nella Sinistra, ma nel Paese».
 Forse, comè stato notato, il vero problema del nostro 
              Paese non è la politica, e non sono le masse, ma la cultura. 
              O meglio, il basso livello della politica e della cultura, come 
              delle élite e del popolo, delle classi dirigenti e degli 
              intellettuali, filosofi, letterati, cineasti. In questo caso, i 
              Palavobis e i Salon du livre, le interviste alle tv straniere, la 
              solidarietà delle signore Tasca (il cui padre fu collaboratore 
              del governo di Vichy, non scordiamolo!) e gli isterismi dei quotidiani 
              tedeschi, francesi, inglesi, persino belgi, non disinteressati alleuropeo 
              dio quattrino, al mercato e al Pil, tanto quanto a triunvirati (o 
              direttorii) egemoni nel Vecchio Continente, altro non sono che le 
              manifestazioni freudiane del deserto di cultura che ha attraversato 
              in lungo e in largo il nostro Paese, e che continua ad attraversarlo 
              con i suoi indignati da salotto (Pasolini citato a memoria), con 
              le sue vittime con riabilitazione postuma (vedere alle voci Tomasi 
              di Lampedusa e Morselli), con le sue vittime anonime (quante?) per 
              difetto di appartenenza, per emarginazione, per esilio volontario.
 Staremo a vedere in quali tasche sfoceranno i prossimi diritti dautore 
              sborsati dalle nobili editrici italiche; o quali film finanzierà 
              la RAI, oggetto di impegnati girotondi da parte di chi è 
              stato cospicuamente foraggiato. Per quel che ci riguarda, a questo 
              punto, vale la regola aurea di un reazionario irriducibile e illuminato, 
              soprattutto spiazzante, e irridente, Guido Ceronetti: «Dopo 
              aver meditato Kant e Heidegger, aver letto Il Processo e Luomo 
              senza qualità, adottare come faro il pensiero di Cofferati 
              e come modello costituzionale la scienza giuridica di Nanni Moretti»: 
              è quel che ci resta, dal momento che gli scrittori non usano 
              più neppure la carta, perciò non possono scagliare 
              addosso a nessuno, per esorcismo, il calamaio di Lutero!
 Ci eravamo colpevolmente dimenticati della lunga lista di nomi che 
              leterna emergenza nostrana ha scritto col piombo calibro 7,65 
              nel libro grondante del terrore: magistrati (Alessandrini, Galli, 
              Calvosa, Coco...), docenti universitari (Bachelet), economisti, 
              politici (da Moro a Ruffilli), carabinieri e agenti di polizia, 
              dirigenti (Ghiglieno, Taliercio), sindacalisti (Rossa), giornalisti 
              (Tobagi, Casalegno). Dalla tragica lezione di questo terrore avevamo 
              imparato a comportarci con fermezza, ma anche con responsabilità, 
              a far fronte comune, ad essere alieni alle intifade delle parole, 
              alle contrapposizioni cieche che generano odio, ai meschini calcoli 
              di parte; come alle vili neutralità, che si trasformano in 
              complicità di fatto.
 Oggi siamo alle divergenze parallele. Ma il terreno di scontro non 
              è, come sembra, questa o quella riforma del mercato del lavoro, 
              delle pensioni, della sanità, e in generale di un Welfare 
              che comunque è stato ridimensionato in tutta Europa ed è 
              sempre più insostenibile nel panorama dellassistenzialismo 
              de-responsabilizzante e per tanta parte clientelare del nostro Paese. 
              Le tensioni più inquietanti si registrano nel campo dei simboli, 
              e a nessuno viene in mente che proprio questo ha bloccato la democrazia 
              italiana per decenni. Non solo: ha contribuito a fare dellItalia 
              lo Stato europeo col peggiore mondo del lavoro, per partecipazione 
              alle attività produttive, per durata della disoccupazione, 
              per entità del lavoro nero, per ricorso al part-time, per 
              liniquità della differenza tra una minoranza di lavoratori 
              iperprotetta e una maggioranza con poche o nessuna tutela, per sacche 
              di emarginazione anche grandi quanto quelle abitate dai disprezzatissimi 
              «intellettuali di Magna Grecia». E in un contesto così 
              intriso di rude conservatorismo e di squilibrate reazioni che si 
              incuneano le elucubrazioni ideologiche del terrorismo: «Il 
              rilancio dellintervento combattente e con esso della propositività 
              politica della strategia della lotta armata nello scontro generale 
              tra le classi [...] ha confermato la maturità raggiunta dalla 
              guerriglia nel nostro paese e dal patrimonio politico elaborato 
              e verificato nello scontro rivoluzionario dalle Br» (dal documento 
              di rivendicazione Br-Pcc).
 Dubitiamo che cessi il crepitio delle parole, che si prosciughino 
              i rivoli dei veleni, se il Parlamento e i sindacati, gli imprenditori 
              e i lavoratori, gli uomini di autentica cultura e la gente stradale 
              non troveranno ununità di tipo morale volta a difendere 
              i valori comuni, condivisi, compreso il rispetto delle ragioni degli 
              altri, del pensiero diverso, che scandiscono i ritmi fisiologici 
              di una democrazia.
 Chi scrive ha vissuto in diretta lintera stagione alta 
              dei rumori del terrorismo, e sa benissimo che biografie e itinerari 
              degli anni di piombo hanno dimostrato come la vocazione allomicidio 
              politico nasca dalle parole (Padova, Roma, Napoli, Milano, Torino, 
              Marghera...) e poi prenda consistenza nel delitto, come lo slogan 
              fuso nellodio si trasformi poi in agguato. Lex leader 
              di Potere Operaio (quello del «fucile in spalla agli operai»), 
              Oreste Scalzone, ha rintracciato lorigine dellomicidio 
              Biagi «nelle tematiche del Palavobis», nel triplice 
              resistere di Borrelli, nelle parole di intellettuali 
              come Vattimo e Moretti. Opinioni, senza dubbio. Che tuttavia non 
              possono non suscitare il sospetto che una ricostruzione severa degli 
              ultimi trentanni coglie non pochi episodi, a sinistra come 
              a destra, di strumentalizzazione del clima e di demonizzazione dellavversario.
 Di fronte a un Paese che è stato storicamente immobile, raramente 
              ripiegato su se stesso, a riflettere sulla propria condizione; e 
              di fronte ai professionisti dellindignazione da applauso, 
              sta il pensiero di Biagi: Da una parte sola, dalla parte del 
              lavoro. Il giurista chiedeva un mercato più europeo, 
              più occupati regolari, con più diritti, con più 
              uguaglianza per tutto il mondo del lavoro, con più scuola, 
              più formazione, per una società attiva, inclusiva, 
              solidale. «Perché lItalia sia una Repubblica 
              veramente fondata sul lavoro», tre le priorità: le 
              riforme delloccupazione e del Welfare, lemersione del 
              sommerso, il dialogo sociale. Lo hanno ferito profondamente le parole 
              calibro 7,65, urlate nelle piazze da frange estremiste difficili 
              da isolare da parte di maggioranze moderate. Lo hanno ucciso i demoniaci 
              Neciaev che si annidano nelle purulenze catacombali della 
              società italiana.
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