Sono passate
le ansie, le attese,
le estati, gli inverni, le idee, le passioni. E i sogni: quelli
ad occhi chiusi e quelli ad occhi aperti...
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Più mi soffermo su queste ultime pagine di Antonio Errico
(Angeli regolari, I libri di Qui Salento, Guitar Edizioni,
Lecce 2002), più mi convinco che i codici espressivi, antichi
e nuovi, più autentici di questo Autore sono rappresi nelle
due pagine dapertura, in Dedicato, nella parola
serica che qui sgorga come per miracolosa partenogenesi, e che in
filigrana riverbera dapprima in una sorta di snellissimo propileo
saggistico (narrativo, di fatto, con nervature di analisi frutto
di cospicue letture) che precede cinque cammei su Toma, Verri, la
Merini, Bianciardi e Fiore figlio, e infine nel testo conclusivo,
in annales anchessi narrati, con la sfera del racconto tutta
dentro il mondo, dentro la fantastica possibilità di rievocare,
di rapportarsi, di reinterpretare elettivamente le proprie convinzioni
e verità.
Il formidabile potenziale semantico ed ermeneutico insito in questa
scrittura sta, infatti, nella capacità di Errico di trasgredire
le norme di una progressiva linearità algidamente saggistica,
dalla quale lo affranca anche il suo non volere o non potere schivare
la poesia. Con la conseguenza estetica, che già Nietzsche
osservava, che «solo sotto gli occhi della poesia si scrive
in buona prosa». La poesia, dunque, diviene modalità
linguistica di un atteggiamento esistenziale modulato in un arco
di tempo che va dai folgoranti anni della prima adolescenza (sigillati
dal colpo di pistola alla tempia di Luigi Tenco) alla drammatica
cesura della «crepa che si apre allimprovviso»,
come tattile segno della discontinuità, quando «tante
cose sono cambiate... sono passate le ansie, le attese, le estati,
gli inverni, le idee, le passioni. E i sogni: quelli ad occhi chiusi
e quelli ad occhi aperti».
Allora, lopposizione della nuda realtà e della poesia
è metafisica, nel senso che riposa su una frammentazione
del vero e dellimmaginario? Direi di sì, se le significazioni
della memoria colludono alle stesse origini del dire (quando esso
è poetare), e nellistante in cui leffetto principale
della scrittura è questa eversione destabilizzante della
parola, del sistema codificato di un linguaggio che vorrebbe solo
ricapitolare la storia e le storie.

In Errico è tutta fruibile nella sua immediatezza la redenzione
del linguaggio come elemento e registro differenziale nei cammei
di cui dicevamo. Altro e diversamente per la temperie interiore
dello scrittore non potendo essere, comunque. Perché non
di letture casuali o di superficie, di approcci mondanamente estemporanei
parla Errico. Ma di contiguità e partecipazione dirette,
e di non trascurabili complicità (con Verri, con Toma, con
Fiore); o di officine accuratamente esplorate (Bianciardi) «seguendone
le tracce per tredici anni, con passione e con pazienza, aspettando
che il personaggio si completasse senza fretta»; o di condizioni
da «onda di delirio» elegantemente trasportate in metafore
(Alda Merini), con la follia che dissolve se stessa per mutarsi
in «dolore che purifica», con la sofferenza che riemerge
in «quintessenza della logica», con la poesia che è
«luogo in cui si rinnova il caos originario».
Così, la trasfigurazione espressiva (narrativa) di Errico
si realizza non solo nei contenuti e concetti ontologici, ma anche
come tensione permanente tra realtà vera e fantasia significante,
come «lunga narrazione di una storia che stringe nelle sue
trame il passato, il futuro, il presente, lassente, lastratto,
il concreto, lincredibile, il vero, limpossibile, laccaduto,
tutto quello che hai avuto, tutto quello che hai perduto».
Cioè tutti gli interstizi (angusti) delle relazioni con laltro
da sé e tutti gli spazi (vitali) delle solitudini dentro
di sé. Al modo delle relazioni e delle solitudini dei passeggeri
del treno di Caproni, (non a caso, un poeta), di chi sale e chi
scende tra stazione e stazione, mentre è sempre nero il buio
delle gallerie e sempre trasmutante il paesaggio che snoda la corsa;
mentre negli scompartimenti-compartimenti-stagni che separano vite
transeunti «i discorsi si intrecciano, come i destini».
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