Fautore
di un’economia di stampo keynesiano, Romeo intravide
la soluzione
del problema
meridionale in
un’azione congiunta fra iniziativa
pubblica e privata.
|
|
Tracciando l’itinerario storiografico percorso da Rosario
Romeo emerge il diverso grado di influenza esercitato da Gioacchino
Volpe e da Benedetto Croce, ma anche da Federico Chabod e da Nino
Valeri, nella sua formazione. Pur scorgendo in Volpe «una
personalità moderna e intellettualmente creativa»,
capace di fondere la storia politica con quella sociale, senza fare
concessioni al sociologismo e al determinismo, e benché riconoscesse
in lui l’unico storico italiano della sua generazione in grado
di cogliere i nessi vitali tra le forme disparate del processo storico,
Romeo trovò in Croce il vero maestro, del quale assimilò
fino in fondo la lezione.
L’adesione all’insegnamento crociano, infatti, non venne
mai meno. La certezza che la concezione storicistica della realtà
fosse la costruzione più ricca e originale di pensiero storico
prodotta dalla cultura italiana ed europea del Novecento, la più
adatta a dare un senso coerente e intellettualmente significativo
al corso della storia, rimase in Romeo sempre ferma, soprattutto
quando le particolari condizioni politico-culturali del Paese conferirono
al marxismo, alla interpretazione gramsciana della storia d’Italia
rilievo singolare.
Diverso fu invece il rapporto con Chabod, del quale Romeo ammirò
l’impegno politico-civile. Tuttavia, nonostante la lunga e
feconda collaborazione – dal 1953 al 1957 Romeo fu segretario
dell’Istituto Croce, alla cui direzione era stato chiamato
nel 1947 lo storico valdostano – e l’influenza esercitata
nella scelta di alcune tematiche della sua ricerca, Chabod rimase
per Romeo “soltanto” un professore.
Nel 1950 Romeo pubblicava Risorgimento in Sicilia. L’opera,
che ebbe vasta eco e fece conoscere il giovane autore, conteneva
già il nucleo centrale della sua riflessione non solo sul
movimento risorgimentale siciliano, ma sul Risorgimento italiano.
Superando il vecchio schema interpretativo, secondo il quale l’adesione
siciliana al progetto dello Stato nazionale era stata dettata dalla
tradizionale opposizione a Napoli, Romeo sottolineava come la scelta
unitaria, compiuta dalle forze politiche più vive dell’isola,
avesse, da un lato, significato il superamento dell’antico
autonomismo, del vagheggiato disegno della “nazione” siciliana,
e, dall’altro, segnato l’avvio di un processo di aggancio
della Sicilia all’Europa. Certo – osservava acutamente
– il Risorgimento siciliano sul piano dei rapporti economico-sociali
non era riuscito a cambiare il volto dell’isola, ma sul terreno
etico-politico aveva rappresentato un decisivo salto di qualità.
L’inserimento nella nuova compagine statale, pur con tutte
le sue contraddizioni, era stato un efficace elemento di rottura
col passato.
Ma, prescindendo dalle conclusioni tuttora valide della prima opera
di Romeo (si pensi alla penetrante differenza fra gabellotti e grandi
affittuari del Nord; al variegato quadro della cultura isolana della
prima metà dell’Ottocento e alla conseguente revisione
del severo giudizio formulato dal Gentile), ciò che qui più
importa rilevare è che alla sua realizzazione concorse una
forte spinta ideale contro l’anacronistico rigurgito separatista
che si manifestò in Sicilia all’indomani della seconda
guerra mondiale.
Nel 1951 Romeo recensiva l’Italia moderna di Volpe. Se fra
i due storici c’era piena identità di vedute sul giolittismo,
Romeo dissentiva però dal giudizio volpiano sulla classe
politica pre-crispiana e soprattutto sul nazionalismo, del quale
mise in evidenza il carattere classista e la funzione ritardante.
In quella recensione qualcuno ha intravisto alcune coordinate di
fondo di una storia dell’Italia liberale, che però Romeo
non riuscì mai a scrivere, sebbene in Risorgimento e capitalismo
egli formulasse le premesse teoriche per un simile studio. La pubblicazione
di questo testo, la cui stesura fu coerente allo svolgimento della
produzione romeiana e non fu certamente dettata da un prevaricante
ideologismo o da motivi finalizzati – come qualche studioso
ha voluto insinuare – a trarre vantaggio dallo sbandamento
in cui si dibatteva l’intellettualità comunista dopo
il XX Congresso del Pcus, segnò una svolta radicale nel dibattito
storiografico sull’Italia contemporanea. Nell’ambito degli
“studi sabaudi” e nella prospettiva di una storia delle
origini della nazione italiana prendeva, intanto, corpo la monumentale
biografia di Cavour, alla cui stesura Romeo attese per circa un
trentennio. Con Cavour e il suo tempo lo storico siciliano, sulla
scorta di un rigoroso impianto metodologico, oltre a superare le
carenze filologico-interpretative di gran parte della tradizione
biografica cavouriana, apriva nuovi angoli prospettici nella ricostruzione
della vita e del ruolo politico ricoperto dal conte.

La formazione europea, secondo Romeo, consentì al giovane
Cavour di cogliere il carattere internazionale della “questione
italiana”. Cavour non ebbe dubbi nello schierarsi dalla parte
del nuovo Piemonte costituzionale e nell’opporsi al regime
assolutista del vecchio Regno sabaudo; tuttavia, temendo le conseguenze
nefaste della rivoluzione, fino a quando la situazione politica
europea non si stabilizzò, il conte non uscì dall’orbita
del moderatismo azegliano.
In seguito alla salita al trono di Luigi Napoleone, Cavour decise
di abbandonare la posizione moderata e si fece promotore di una
politica riformista più avanzata sia sul piano economico
che su quello politico-civile. La politica del Connubio, che rappresentò
la svolta fondamentale, non fu un’operazione politica di stampo
conservatore, bensì la messa in moto di un disegno progressista
e, per molti aspetti, rivoluzionario. Veniva fuori così un
ritratto di Cavour, della sua ardita “partita” giocata
con la diplomazia europea; un ritratto depurato da ogni scoria oleografica,
che poneva fine al mito del “grande tessitore” e dell’uomo
baciato dalla fortuna. Contemporaneamente, Romeo demoliva il mito
che voleva Inghilterra e Francia i Paesi fratelli, che avevano favorito
l’Unità italiana.
Nella sua ardua lotta, Cavour non dovette affrontare soltanto ostacoli
di politica internazionale, ma dovette anche fare i conti con insidiosi
avversari interni. Se il contrasto con Vittorio Emanuele II ebbe,
secondo lo storico, connotati più di uno scontro personale
che politico, quello con Garibaldi e con Mazzini fu di natura essenzialmente
politico-ideologica. Alla fine, il maggiore realismo della politica
cavouriana ebbe, per così dire, la meglio. E, in effetti,
la soluzione moderata fu l’unica soluzione possibile, l’unica
capace di realizzare l’Unità del Paese e di mantenerla.
Ricordiamo, infine, le pagine con le sue battaglie politiche condotte
in difesa dello Stato e del regime rappresentativo sul Mondo e su
Nord e Sud. Fautore di un’economia di stampo keynesiano, Romeo
avversò la formazione delle grandi concentrazioni oligopolistiche
e intravide la soluzione del problema meridionale, inteso come problema
nazionale, in un’azione congiunta fra iniziativa pubblica e
privata. Lo Stato, che sul finire dell’Ottocento era intervenuto
per avviare lo sviluppo industriale localizzatosi nel Nord, avrebbe
dovuto svolgere un ruolo centrale nel processo di riequilibrio economico
e civile del Paese. Quando, però, apparve chiaro che i partiti
tendevano ad allargare la sfera di controllo sull’economia,
Romeo non esitò a denunciare quel fenomeno, così come
stigmatizzò i guasti arrecati dal sindacalismo selvaggio,
l’inefficienza burocratica, la perdita della cinghia di trasmissione
tra amministrazione dello Stato e classe politica, il terrorismo,
il dissesto della finanza pubblica, l’elefantiasi del sistema
distributivo, l’occupazione della società civile da
parte dei partiti. Cosicché con la sua scomparsa sia il mondo
della cultura sia quello politico dovevano perdere un protagonista,
che aveva trovato nei valori della democrazia e nel senso etico
del liberalismo i cardini della sua azione.
|