Richelieu e Mazarino erano scomparsi nel secolo
XVII,
De Gaulle e l’impero francese nel XX.
Alle soglie del terzo millennio, Chirac tenta di resuscitare una
grandeur ormai priva di senso storico e politico e pericolosa per
l’unità del Vecchio Continente.
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Ora che l’attenzione si è spostata sulla ricostruzione
postbellica dell’Iraq, gli Stati Uniti devono affrontare un
problema ancora più grave: gestire il terremoto dentro l’Alleanza
atlantica. Due dei maggiori alleati dell’America sul continente
europeo – Francia e Germania – si sono mossi sulla scena
internazionale contro una politica per la quale il presidente americano
è stato disposto a rischiare vite americane. Quello scisma
ha indotto la Russia ad affrontare gli Stati Uniti più esplicitamente
di quanto non avesse mai fatto dalla fine della Guerra fredda. E
questo modello di comportamento si ripete adesso nella controversia
– con i medesimi schieramenti – sul ruolo degli Usa nell’Iraq
postbellico.
Continuando così, l’Alleanza atlantica, per mezzo secolo
pilastro della politica estera americana, subirebbe una progressiva
erosione. La fine della Guerra fredda e di una minaccia comune ha
minato a poco a poco molte delle premesse che stavano alla base
della Nato. Ciò nonostante, per un decennio gli Usa sono
rimasti dominanti in forza dell’abitudine e delle circostanze,
mentre sotto la superficie molti in Europa covavano rancori per
il crescente divario di potenza militare e crescita economica tra
le due sponde dell’Atlantico e per l’esibizione di muscoli
della nuova Amministrazione americana in difesa dell’interesse
nazionale.

Questi risentimenti latenti sono risaliti in superficie nel periodo
immediatamente successivo agli attacchi terroristici dell’11
settembre, nel nome dell’unilateralismo contro il multilateralismo.
L’iniziale solidarietà all’America in quanto vittima
si è affievolita quando gli Usa hanno dato alla sfida un’impronta
militare, dichiarando guerra al terrorismo. Ed è sparita
con l’elaborazione di una strategia dell’attacco preventivo.
Questa strategia – sebbene resa necessaria dalle minacce alla
sicurezza lanciate da gruppi privati insensibili alla deterrenza
perché privi di territori da difendere e irraggiungibili
dalla diplomazia perché in cerca della vittoria totale, con
il pericolo che armi di distruzione di massa possano cadere nelle
mani di terroristi o di Stati canaglia – va contro i princìpi
dello Stato sovrano, che giustificano le guerre solo come resistenza
a un’aggressione o a un attacco imminente.
Il piacere con cui Francia e Germania hanno sfidato l’alleanza
occidentale ha però cause più profonde. Non aveva
precedenti l’annuncio del voto contro gli Stati Uniti al Consiglio
di Sicurezza, né l’intenso lavorio ai fianchi di capitali
remote, ignorando mezzo secolo di tradizionale alleanza e dando
l’impressione ai leader dell’Europa dell’Est che
la cooperazione in guerra con gli Usa avrebbe potuto complicare
il loro ingresso nell’Unione europea. Ed è con un atteggiamento
di sfida quasi giuliva che i ministri degli Esteri di Francia e
Germania hanno invitato la controparte russa – l’antico
avversario della Nato – al loro fianco a Parigi, mentre ripudiavano
pubblicamente una politica di massima priorità del loro alleato
di mezzo secolo.
Era un gesto che derivava direttamente dal repertorio del Cardinal
Richelieu, che nel ‘700 combatteva la potenziale superpotenza
dell’epoca – l’Impero absburgico – con una serie
di alleanze in continuo mutamento, finché l’Europa civile
non fu divisa e la Francia si trovò in posizione dominante.
Questo però accadeva prima dell’epoca del terrorismo
e delle armi di distruzione di massa, quando la Francia aveva ancora
i mezzi per sostenere la sua tattica.
L’irritazione per le decisioni americane non avrebbe però
prodotto una rivoluzione diplomatica di tale portata se i tradizionali
punti d’appoggio dell’alleanza non fossero stati erosi
dalla scomparsa di una minaccia comune, accompagnata dall’arrivo
al potere di una nuova generazione, cresciuta durante la Guerra
fredda, che dà per scontate le conquiste, non ha partecipato
alla liberazione dell’Europa con la seconda guerra mondiale
né alla sua ricostruzione col Piano Marshall mentre ricorda
le proteste contro la guerra del Vietnam e lo spiegamento dei missili
in Europa. In Germania questa generazione è poi frustrata
dalla crisi economica e dal processo di riunificazione, che molti
dell’ex Ddr sentono come occupazione più che come liberazione.
Il gollismo, che insisteva per un’identità europea definita
in contrapposizione con gli Stati Uniti, non è stato sostenuto
da alcun Paese europeo importante finché la crisi irachena
non ha dato al presidente Chirac l’opportunità di reclutare
la Germania – almeno temporaneamente – nella versione
gollista dell’Europa. Chirac ha sfruttato i timori di isolamento
del cancelliere Schröder dopo la sua campagna elettorale pacifista
e antiamericana per attirarlo in un solco evitato dai precedenti
cancellieri, che tutti si erano adoperati per comporre le differenze
tra Europa e Stati Uniti. Questo terremoto politico ha spaccato
in due l’Europa: da una parte gli Stati che cercano un’identità
europea attraverso il confronto con l’America, dall’altra
quelli che, guidati da Gran Bretagna e Spagna, puntano sulla cooperazione.
Questi scismi multipli hanno prodotto un capovolgimento a Mosca,
almeno temporaneo. Giunto al potere quasi simultaneamente a Bush,
il presidente Putin ha cercato di governare il catastrofico crollo
del rango internazionale russo dopo la Guerra fredda concentrandosi
sull’economia interna e appagando quanto restava dell’antico
status di Grande Potenza attraverso consultazioni dimostrative con
gli Stati Uniti, per lo più su questioni inerenti al fondamentalismo
islamico. L’armonia esterna, però, ha occultato agli
occhi di alcuni americani la dolorosa esperienza che la Russia stava
vivendo: la perdita del suo status di superpotenza e la disintegrazione
del suo storico impero.
La Russia non poteva che arrendersi alla sua nuova debolezza, simboleggiata
dall’abrogazione del trattato Abm e dall’allargamento
della Nato fino ai suoi confini, ma lo ha fatto digrignando i denti.
Forse, se le consultazioni con gli Usa fossero state di maggior
respiro e meno concentrate sull’agenda americana, la Russia
avrebbe potuto trovare un livello di compensazione per il suo rango
perduto e sarebbe stata più riluttante a cambiare direzione.
Così stando le cose, invece, l’offerta franco-tedesca
di un fronte unito contro gli Stati Uniti sulla questione irachena
è piaciuta al nazionalismo russo e gli ha offerto la prospettiva
di nuove opzioni non dipendenti dalla buona volontà americana.
Sei mesi dopo che l’allargamento della Nato aveva fatto entrare
nell’alleanza tre ex repubbliche sovietiche il ministro degli
Esteri russo poteva dimostrare alla sua gente l’apparenza insignificante
della Nato stando fianco a fianco con Francia e Germania in un gesto
che voleva simbolizzare l’emancipazione dalla politica americana.
Se l’attuale tendenza nelle relazioni transatlantiche continuerà,
il sistema internazionale sarà alterato alle sue basi: l’Europa
si dividerà in due gruppi definiti in base all’atteggiamento
verso gli Stati Uniti, la Nato cambierà il suo carattere
diventando un veicolo riservato a chi ribadisce la relazione transatlantica,
e l’Onu diventerà un forum dove si studiano contrappesi
alla “Superpotenza”.

Il dibattito sull’amministrazione postbellica dell’Iraq
è un esempio di questi pericoli. Dopo un periodo dedicato
a ripristinare la sicurezza, è nell’interesse dell’America
non insistere su un suo ruolo esclusivo in una regione nel cuore
del mondo islamico, ma invitare altre nazioni a condividere il ruolo
di governo, inizialmente i partner della coalizione, poi altri Paesi,
poi l’Onu, soprattutto le sue Agenzie tecniche e umanitarie.
Ma la proposta del ministro degli Esteri francese, tacitamente appoggiata
a Berlino, di considerare priva di legittimità la presenza
americana in Iraq finché non sarà appoggiata da processi
diplomatici simili a quelli che hanno preceduto la guerra, amplierebbe
le crepe esistenti. La ricostruzione dell’Iraq dovrà
riconoscere l’importanza di un’ampia base internazionale,
ma anche l’imprudenza di usare il multilateralismo come slogan
e le Nazioni Unite come un mezzo per isolare gli Stati Uniti.
Troppe cose però sono successe perché si possa tornare
indietro. Urge una rivitalizzazione della relazione atlantica, se
le istituzioni mondiali devono funzionare veramente e se il mondo
deve evitare un ritorno alle politiche di potenza del XIX secolo.
Quella rivitalizzazione deve basarsi sul senso di un destino comune,
piuttosto che sul tentativo di trasformare l’alleanza in una
rete di sicurezza à la carte. Se non si può trovare
un terreno comune – se la diplomazia prebellica diventa un
modello – gli Stati Uniti saranno spinti a costruire coalizioni
ad hoc insieme al nocciolo della Nato che resta devoto a una relazione
atlantica. Sarebbe una triste fine per un’alleanza durata mezzo
secolo.
E’ arrivato il momento di metter fine al dibattito unilateralismo-multilateralismo
e di concentrarsi sulla sostanza. I nostri avversari europei nelle
recenti controversie dovrebbero smetterla di incoraggiare la tendenza
dei loro media a descrivere l’Amministrazione americana come
un’accolita di Rambo assetati di guerra e gli Stati Uniti come
un ostacolo ai progetti europei anziché un partner di obiettivi
comuni.
Da parte sua, la politica americana ha bisogno di chiudere il fosso
tra la filosofia globale espressa a livello presidenziale e le tattiche
a breve termine della diplomazia. Occorrono più consultazioni
con i partner, soprattutto sugli obiettivi a medio termine. C’è
un elenco di cose che ci attendono: ridurre la proliferazione delle
armi di distruzione di massa, affrontare le implicazioni politiche
della globalizzazione, affrettare la ricostruzione del Medio Oriente.
E poi c’è la discussione su princìpi che riconoscano
la necessità occasionale dell’attacco preventivo, senza
che ogni singola nazione debba definire la propria posizione.
Questi compiti richiedono una base che va al di là della
zona atlantica. L’asse franco-tedesco-russo si rivelerà
probabilmente transitorio. I calcoli che hanno portato Putin a cercare
una relazione stretta con l’America resteranno, mentre la crisi
irachena verrà considerata una tentazione occasionale rispetto
al più solido interesse per una cooperazione russo-americana.
La sfida sarà quella di dare a questi convincimenti un carattere
reciproco meno dipendente da consultazioni ad hoc. Deve svilupparsi
un dialogo sistematico su temi globali: l’incontro con Putin
del consigliere per la sicurezza Condoleeza Rice è stato
un primo passo in questa direzione.
Il predominio militare americano è un dato di fatto. Politiche
di riequilibrio del potere attraverso le alleanze non possono cambiare
questa realtà. Ma l’America può provare a tradurre
il suo predominio in una ricerca sistematica di consenso internazionale.
Se gli alleati europei vanno incontro agli Stati Uniti con lo stesso
spirito, si potrà evitare che i dibattiti su unilateralismo
e multilateralismo si trasformino in profezie che si realizzano
proprio perché annunciate.
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