Incalzano le odierne dinamiche di una società
industrializzata
che insidia quel
patrimonio
di valori
trasmesso dai padri nello scenario della campagna
salentina o del borgo antico.
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Tra gli autori di opere teatrali in vernacolo, attivi, oggi, in
provincia di Lecce, merita sicuramente l’attenzione della critica
letteraria Giuseppe Pacella.
Nato a Casarano nel 1952, esordisce come attore della Compagnia
“La Cittadella” intorno alla metà degli anni Novanta.
Nel biennio 1998-‘99 inizia la sua attività creativa
scrivendo e firmando il copione di A casa noscia, nonché
adattando al teatro dialettale il film Letto a tre piazze di Totò,
che, nella versione scenica da lui curata, viene presentato col
titolo Tra i ddoi liticanti.
Nel primo caso, trattasi di una pièce incentrata nello spazio
domestico di una realtà familiare piccolo-borghese, i cui
componenti sbarcano il lunario…alla giornata, “sfruttando”
gli scarni proventi del capofamiglia: la moglie non bada a spese,
tantomeno i figli. L’unico, con i piedi per terra (si fa per
dire), è solo lui: marito e padre parsimonioso e accorto
che cerca di supplire con rinunce e sacrifici all’allegra gestione
del magro reddito prodotto dal suo lavoro occasionale. Dopo una
serie di argute, sorprendenti, paradossali gag, la cui natura esilarante
è calibrata intorno alle vicende sempre infauste di un figlio
disoccupato e passaguai, il padre si ribella e taglia i rifornimenti
ai suoi mantenuti, imponendo un regime di vita tanto austero, quanto
grottesco. Si ritorna…alle origini.

Ma a risanare e restaurare tutto ci pensano i nonni, pensionati,
fatti convergere nello spazio familiare da un’astuta trovata
che, sotto la specie di un falso pietismo larico, mira a sfruttare
le loro pur modeste risorse. Alla fine, i poveri vecchi, scoperto
l’inganno, preferiscono ritornare alla propria onesta solitudine,
lasciando sul lastrico gli scialacquatori dei loro risparmi. E proprio
nella soluzione finale riposa il messaggio morale dell’autore,
che, opponendo vecchi e giovani, ossia mentalità e costumi
propri di generazioni diverse, indica nell’onestà, nel
lavoro, nella misura gli unici valori idonei a fronteggiare le difficoltà
della vita e capaci di dare ad essa un profondo sostegno di moralità
e di fiducia.
Ma l’opera maggiore, di per sé rivelatrice della raggiunta
maturità artistica e creativa di Pacella, è senza
dubbio il terzo, in ordine cronologico, dei suoi lavori, sempre
ispirati da un intento educativo, che va oltre l’aspetto ludico,
in grazia di quella costante che è una forte esigenza di
moralità: Furneddhi, Zacareddhe e Patarnosci, scritto e rappresentato,
per la prima volta, nel 2000 (con la medesima Compagnia) presso
la Fondazione “E. Filograna” in Casarano.
E’ una commedia dialettale in tre atti, veramente degna di
questo nome. Non si tratta di una farsa, dunque, ma di un’opera
in cui il vernacolo, con le sottese trame scenico-drammatiche, assurge
alla dimensione di piena dignità letteraria.
Eppure, l’autore non è un letterato di professione,
sicché il suo talento creativo trova alimento esclusivamente
nella sua grande passione per la drammaturgia, sulla quale si innesta
un profondo, viscerale amore per una terra arcaica, larica, archetipica
che oggi non c’è più: il Salento dei padri, in
cui si assolutizza, fino a farsi categoria etico-antropologica,
una visione del mondo non angustamente moralistica, ma ricca di
un autentico ordito valoriale.
Da qui la scelta del vernacolo come lingua materna, ma anche come
lingua della realtà, espressiva di una lettura veristica
di un microcosmo (il paese) nel quale si copulano tradizione e innovazione.
Ossia, resistono, da un lato, i segni di una millenaria esperienza
antropologica, incalzano, dall’altro, le odierne dinamiche
di una società industrializzata e, ormai, “globalizzante”
che insidia quel patrimonio di valori, di tradizioni, di canti e
di “cunti” trasmesso dai padri nello scenario della campagna
salentina o del borgo antico, trapunto di cortili e case a corte,
forse destinate all’abbandono o alla rovina.
In questo passe-partout di attualità e di problematica coscienza,
si iscrive il messaggio teatrale di Giuseppe Pacella, quindi la
sua scelta di ambientare un “dramma di carattere” nel
perimetro di un ambiente sociale subalterno, storicamente collocabile
negli anni Cinquanta del Novecento, allorché si manifestarono
i primi processi evolutivi della società italiana che modificava
strutture e linguaggi sotto la spinta imponente del nuovo. Anni
“sospesi” fra passato e futuro, momento di incubazione
di fermenti novatori accanto a radicati e secolari modelli di vita.
Periodo di transizione, nel quale trascolorava il vecchio mondo
(con il suo carico di gioie e dolori) a beneficio del nuovo che
si annunziava foriero di benessere, perfino di ricchezza, ma che
occultava sotto la sua maschera il volto demolitore di tradizioni
e valori propri di una civiltà georgica, rurale, medesima,
per secoli, nei tratti iconici del paesaggio, del costume, del sacro.
Furneddhi, zacareddhe e patarnosci assurgono, qui, a segni di una
tradizione folclorica che oggi non c’è più, ignorata
dai giovani, insospettata dai giovanissimi ai quali la terra dei
padri si presenta ormai nelle forme omologate e mistificanti di
un vivere sociale che ha perso i suoi connotati storici più
autentici e radicali, alimentando, in loro, la perdita della memoria
collettiva e sradicandoli da quella cultura millenaria che pure
li ha prodotti. In questo mondo, spesso miope, se non cieco, abbagliato
dai miti della tecnologia e del futuro, il dramma di Pacella trova
una sua dimensione educativa e una sua giustificazione storica.
L’autore, che di quel vecchio mondo terragno e feudale ha conosciuto
da bambino le fasi del definitivo crepuscolo, oggi lo rivisita con
contenuta e segreta (dietro le quinte neoveristiche) adesione sentimentale,
riscoprendolo e riproponendolo come ultima traccia di radici antichissime
e di umane, dolorose misure esistenziali.
La trama: una famiglia contadina, costituita da numerosa prole,
vive una vita grama, ma dignitosa, nell’aspro lavoro dei campi.
Questa situazione, che si tramanda per generazioni, da padre in
figlio, sempre coloni di un facoltoso proprietario terriero, viene,
un brutto giorno, infranta dalla volontà del padrone di alienare
il terreno sul quale lavora l’intera famiglia, fatta eccezione
per uno dei suoi figli, emigrato in Belgio per cercare migliore
fortuna.
Fin dalle prime battute dell’ambientazione scenica, si possono
intravedere i connotati della società ancora rurale del basso
Salento negli anni Cinquanta: la sopravvivenza dell’istituto
della colonia nel quadro di strutture latifondiste, la progressiva
disgregazione di queste ultime a beneficio di una riconversione
finanziaria del capitale in un clima politico (la democrazia) meno
favorevole alla tutela di antichi privilegi e attraversato dalle
prime lotte sindacali sorte sulle macerie dell’antico regime,
l’ancora intatto mondo larico (la famiglia) della civiltà
contadina, nella quale unica ricchezza erano le braccia che producevano
lavoro, infine il fenomeno dell’emigrazione, che rappresentò
la foce di flussi intensi verso il nord e l’Europa come reazione
a una secolare condizione di servaggio.
Su questo sfondo irrompe il nuovo con i primi segni di una metamorfosi
epocale che determina il modificarsi di mentalità e strutture:
il figlio emigrato ritorna dal Belgio insieme con la fidanzata transalpina,
quasi a significare l’avvio di modificazioni antropologiche,
ossia il passaggio da una società chiusa mononucleare (furneddhi)
ad un’altra aperta multietnica come quella odierna. Così
l’oscura, insana trama di passioni che lega la figlia del colono
al “fattore” simboleggia il primo sgretolarsi della morale
dei padri in una logica di istinti fusi con vaghe aspirazioni di
emancipazione femminile.
Accanto a tutto ciò, l’antico, ossia il sopravvivere
di una forte coscienza solidaristica che unisce e conforta gli umili,
il materializzarsi di essa coscienza nella piccola comunità
della vita rurale aggregata intorno al sacro (il rosario), la fraterna
comunanza di animali, uomini e cose, la forte corda di moralità
che è retaggio dell’esperienza dei padri, il sentimento
religioso come sostegno a una vita di sacrifici cui solo il soprannaturale
poteva recare soccorso, i giochi umili e ingenui sull’aia,
“colorati” dalle zacareddhe iridate (delle quali i fanciulli
di oggi non hanno memoria), il senso di una vita votata al duro
lavoro dei campi per chissà quale destino di espiazione,
lo scenario rude e aprico della campagna salentina non ancora devastata
dal cemento, il focolare domestico baricentro di gioie e dolori.
Il lieto fine riscatta un’accolta di umili che trovano nel
lavoro, nell’adesione agli antichi valori, le ragioni della
propria dignità e della speranza.
Ultimo dramma, in ordine di tempo, Cci ssi strong papà (2001)
nel cui titolo è già evidente un calembour (strong
= forte, risulta assonanzato con un ben noto, ma taciuto lemma del
turpiloquio triviale) che la dice lunga circa il tessuto di sketch
e di gag interno all’intreccio.
Anche qui Pacella ripropone il confronto generazionale sotteso alla
dialettica passato-presente, iconizzata da padri e figli, questi
ultimi plagiati dal mistificante e illusorio mondo massmediatico.
Ma, soprattutto, egli è il cantore del Salento operoso, epperò
sfortunato, delle classi subalterne: in Furneddhi i contadini lottano
contro l’esproprio della dignità e del lavoro dovuto
alla crisi della società georgica riflessa nella crisi del
latifondo e della colonìa. Qui, a distanza di cinquant’anni,
medesima cornice scenica: gli operai cassintegrati vivono sulla
loro pelle la débâcle del settore industriale (nello
specifico, il calzaturiero), sicché Pacella ripropone, con
la stessa drammaticità, (sia pure risolta e alleggerita dalla
vena umoristica) il problema della sicurezza, della stabilità
economica il cui venir meno fa ricadere in una medesima (il riferimento
è a Furneddhi) situazione di disagio sociale ed esistenziale
quanti, attraverso un pur duro lavoro, ne hanno tratto sostentamento
e argomento di dignità e di agiatezza. La crisi dell’economia
agricola negli anni Cinquanta è speculare, dunque, a quella
dell’industria sul finire degli anni Novanta. Questa la lettura
in chiave sociologica dei drammi di Pacella. Ma, anche, la forza
del suo messaggio ideologico e morale, sempre risolto in chiave
ilarotragica, scoppiettante di verve plautina, sotto la cui coltre,
tuttavia, vibra un “teatro di denuncia” che ripropone
con intelligenza e con metaforico impianto l’annosa questione
meridionale organica alla vicenda del Mezzogiorno e al verghiano
mondo dei deboli, vinti pur sempre dalle forze egemoni e spietate
dell’economia, della storia e, soprattutto, dell’umano
egoismo.
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