D'altra parte,
niente prova
che ciò che
chiamiamo Islam
sia nella sua
totalità e per sempre incompatibile
con la modernità.
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La globalizzazione, che ha provocato contestazioni e movimenti
di resistenza in molti Paesi del mondo, in particolare da parte
di gruppi sociali che si sentivano più minacciati in quanto
meno qualificati e meno scolarizzati, ha avuto effetti analoghi
negli Stati Uniti, dove tanti hanno ripiegato su valori tradizionali
per resistere allo sradicamento economico, sociale e culturale,
e si sa che gli ambienti cristiani più conservatori sono
stati fra i principali sostenitori del presidente Bush. Ma in senso
più ampio, da una decina di anni gli Usa sono sempre più
invasi dalla paura di una violenza incontrollabile. In questo gli
americani non sono per nulla diversi dagli europei, che sempre più
considerano l’insicurezza, nella vita quotidiana e specialmente
nelle città, come la loro prima preoccupazione, la minaccia
più immediata. Gli attentati e gli assassinii spettacolari
nelle scuole medie e nei licei, certi attentati pubblici che avevano
provocato un considerevole numero di morti, gli attacchi di al-Qaeda
o di altri gruppi islamisti armati perpetrati contro interessi e
cittadini americani al di fuori degli Stati Uniti, la preoccupazione
generata dalla crescente insicurezza nelle metropoli e in particolare
a New York, nel contesto di quella che forse troppo sbrigativamente,
ma non senza ragione, chiamiamo civiltà di massa in quanto
indebolisce le appartenenze sociali degli individui, ha provocato
apprensioni, paure e infine la consapevolezza di una minaccia. Coscienza
che si è tradotta nel forte appoggio soprattutto al sindaco
newyorkese, Giuliani, nella sua lotta contro la delinquenza e la
droga, ma che è diventata così profonda da trovarsi
pienamente espressa solo nell’analisi fatta dal Presidente
e dai suoi consiglieri di una minaccia non più interna e
multipla, ma esterna e centrata su un nuovo nemico ben definito
e localizzato, l’islamismo, e in particolare l’azione
di Bin Laden e di al-Qaeda.

Certamente, si capisce che, dopo l’attentato dell'11 settembre,
tutti o quasi i cittadini degli Stati Uniti, concordemente, abbiano
giudicato indispensabile reagire, andare alla ricerca di Bin Laden,
invadere l’Afghanistan dove costui si rifugiava e distruggere
il regime dei talebani che gli offrivano il sostegno armato. Ma
poi? Rapidamente, sembra, si è formato nel cuore stesso dell’idea
di una sfida totale del Bene contro il Male il sentimento che bisognava
attaccare in primo luogo l’Iraq: per la natura del regime
di Saddam Hussein, per il ruolo di quel Paese nell’approvvigionamento
del petrolio, e, soprattutto, pare, perché dopo la Guerra
del Golfo (che aveva finito stranamente per salvare Saddam, per
farne un baluardo contro la rivoluzione islamista di Khomeini in
Iran), l’Iraq era stato sempre visto come una minaccia incombente.
Alla scelta decisa e quasi messianica di una nuova politica da parte
americana si può contrapporre l’atteggiamento degli
europei. Si è tentati di concludere affrettatamente che alla
volontà e alla capacità d’azione degli Usa faccia
da contraltare l’assenza di idee e di mezzi dell’Europa.
E’ vero, in effetti, che l’Europa non ha voluto fin
qui, e non sembra volere nel prossimo futuro, dotarsi dei mezzi
necessari per assicurare la propria difesa e svolgere, in quanto
entità politica rinnovata, un ruolo internazionale di rilievo.
In molti casi i liberals americani o quella che chiamiamo la sinistra
europea condividono l’idea della pluralità delle politiche
di gestione del futuro, e si parla da ogni parte, a dire il vero,
delle alternative che si offrono al mondo, come se questo dovesse
scegliere tra una via americana e una via europea, in attesa di
essere magari posto di fronte a una scelta tra una via cinese e
una via russa.
In ogni caso, non si può non attribuire un’importanza
centrale al rifiuto di un intervento internazionale da parte europea.
Né è verosimile l’idea di una competizione diretta
tra un modello americano e un modello europeo, dato che la maggioranza
dei Paesi europei ha già fatto conoscere la propria preferenza
per il modo di agire stabilito dagli Usa. Niente ha meglio dimostrato
la debolezza, o piuttosto l’assenza dell’Europa –
che avrebbe potuto diventare un attore internazionale importante
– della rapidità con cui un certo numero di Paesi europei
ha aderito alla posizione della Gran Bretagna a fianco degli americani,
opponendosi alla posizione francese e tedesca che voleva lasciare
alle Nazioni Unite il controllo principale delle azioni per il disarmo
dell’Iraq.
Eppure, al di là dello stesso silenzio degli europei, siamo
in grado di immaginare quale potrebbe essere una politica internazionale
europea. Che le relazioni tra un mondo occidentale dominato dagli
Stati Uniti e il mondo detto arabo-musulmano siano destinate a dominare
la vita internazionale nei prossimi venti o trent’anni, è
abbastanza chiaro. Si tratta allora di sapere se l’Europa
è in grado di creare un certo tipo di relazioni tra l’Ovest
e il nuovo Est, l'Oriente.

A questo punto si può già definire quale potrebbe
essere l’approccio dell’Europa, in ogni caso molto lontano
da quello degli Usa. Il problema deve essere definito nei suoi termini
reali, che non sono quelli delle relazioni internazionali. Si tratta
di sapere se la modernità, come l’abbiamo definita
da secoli, in particolare attraverso il trionfo della ragione, è
compatibile con un unico tipo di modernizzazione, quella che consiste
nell’eliminare le forze che si oppongono alla modernità.
O se, al contrario, è possibile immaginare delle vie alla
modernizzazione che combinino variamente il contenuto della modernità
con forme di mantenimento o di trasformazione delle culture, delle
istituzioni sociali e delle rappresentazioni che appartengono a
culture diverse da quelle che chiamiamo moderne.
Per la “vecchia Europa” non esiste alcun monopolio
del modello “francese”, quello della laicità
assoluta, dell’opposizione aperta tra il mondo della ragione
moderna e il mondo delle credenze tradizionali. Come non ricordare,
in linea con i classici lavori di Max Weber, l’importanza
che la religione ha avuto come fattore di modernizzazione in vari
Paesi, e in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna?
D’altra parte, niente prova che ciò che chiamiamo Islam
sia nella sua totalità e per sempre incompatibile con la
modernità. Non è impossibile immaginare modi di sviluppo
che combinino il desiderio di modernità e il rifiuto di una
rottura completa e rapida con modelli diversi di pre-modernità.
Bisogna a questo punto insistere su una delle caratteristiche più
forti della stessa modernizzazione europea. L’Europa ha spesso
mantenuto le forze e le forme dell’organizzazione religiosa
al cuore della definizione di modernizzazione. Basti ricordare gli
stretti legami che si sono frequentemente stabiliti tra la religione,
o talune forme di vita religiosa, e una modernizzazione che si esprime
al meglio nell’azione sindacale o nei programmi di insegnamento.
Veniamo al dunque. Gli Stati Uniti sono entrati in guerra, prima
con l’Afghanistan poi con l’Iraq, in nome di un’incompatibilità
tra il mondo occidentale e il mondo islamico. Come è inaccettabile
rifiutare completamente questa visione e limitarsi a sottolineare
gli aspetti di tolleranza e di umanesimo presenti nell’Islam,
così bisogna riconoscere una diversità all’interno
del mondo islamico pari a quella che esiste nel mondo cristiano.
La Gran Bretagna democratica e la Germania nazista o perfino l’Unione
Sovietica staliniana hanno fatto parte in qualche modo del mondo
che chiamiamo occidentale e cristiano; perché non ci dovrebbero
essere opposizioni altrettanto grandi tra differenti posizioni religiose
in sistemi sociali e politici essi stessi diversi tra loro?
Nel caso dell’Islam occidentale, si è d’altra
parte colpiti dalla distanza che separa in particolare i Paesi che
hanno avuto una forte e duratura esistenza come nazioni, come la
Turchia e l’Iran, e quelli che al contrario non l’hanno
mai avuta, in primo luogo l’Algeria, ma anche l’Egitto,
la Palestina e pure l’Iraq e altri Paesi arabi. Bisogna respingere
risolutamente l’idea di uno scontro di civiltà, che
implicherebbe un’unità di fondo di tutte le parti dell’area
detta cristiana e di quella detta islamica.

Beninteso, occorre respingere allo stesso modo l’idea di
una civiltà buddista dotata di una fondamentale unità
sociale e politica. La più semplice osservazione dimostra
al contrario che la diversità delle situazioni politiche
è troppo grande per consentirci di identificare un certo
tipo di modernizzazione politica con un insieme di credenze religiose.
Il ruolo dell’Europa può essere, e di fatto già
è, quello di cercare combinazioni possibili tra la modernità
di tipo occidentale e diversi modi di mantenimento, trasformazione
e distruzione delle forme di vita sociale e culturale che vengono
dal passato delle società islamiche. Come ha detto Bernard-Henri
Lévy nel suo libro-inchiesta sull’assassinio del giornalista
americano Daniel Pearl, le contraddizioni che hanno portato a questo
tragico epilogo non stanno tra il mondo occidentale e il mondo islamico,
ma all’interno del mondo islamico stesso, e gli europei hanno
conosciuto abbastanza lotte e guerre nel campo cristiano per poter
comprendere non solo l’opposizione tra sunniti e sciiti,ma
anche molte opposizioni di altra natura, cioè quelle che
mettono in gioco le relazioni tra la religione, la società
e il potere politico. Questa è già, in parte, una
politica europea di fronte al mondo islamico.

L'intera evoluzione lenta, a volte contraddittoria, delle relazioni
tra la Turchia e l’Europa deve essere compresa prima di tutto
alla luce degli sforzi di Istanbul per andare oltre la rivoluzione
kemalista, senza abolirne i princìpi, ma allontanando il
rischio di un integralismo islamista grazie all’inserimento
parziale dell’Islam nelle istituzioni turche. Gli europei
hanno dimostrato di cogliere la natura del problema turco evitando
le obiezioni di tipo tradizionale all’ingresso della Turchia
in Europa, cioé la sua storia e la sua realtà geografica.
Gli europei hanno dimostrato, non chiudendo la porta a Istanbul,
di aver capito che l’avvicinamento all’Europa era il
migliore e probabilmente l’unico modo per la Turchia di sfuggire
a forme di penpensiero e di governo che in molti casi, bisogna riconoscerlo,
sono totalitarie.
Esistono molte ottime ragioni per pensare che l’Iran sia suscettibile
a breve termine o di seguire la via americana, cioè diventare
il simbolo del male ed esporsi a un’invasione, o di seguire
la via europea, cioè disfarsi dei princìpi della repubblica
islamista senza per questo distruggere il carattere islamico della
società e delle istituzioni iraniane. Possiamo facilmente
immaginare che, in numero rapidamente crescente, vari Paesi si trovino
collocati da una parte o dall’altra nei loro rapporti con
l’Europa e con gli Stati Uniti. Molti pensano che sarà
inevitabile uno scontro tra l’assolutismo modernista americano
e un Pakistan che è largamente in mano degli islamisti più
radicali, anche dal punto di vista militare. Al contrario, si può
immaginare che l’Egitto o il Marocco, Paesi che hanno dimostrato
una certa capacità di funzionare come Stati nazionali, possano
trovare nelle relazioni con l’Europa dei processi di evoluzione
e di trasformazione del tutto opposti a quelli che emergono dallo
scontro tra gli Stati Uniti e i Paesi del Medio Oriente.
La conclusione che ho appena abbozzato potrebbe essere rafforzata
da altri studi e da una riflessione più approfondita. Non
stiamo vivendo un conflitto tra religioni o civiltà e i rapporti
tra i Paesi occidentali e i Paesi islamici non sono riducibili neanche
a divergenze od opposizioni di carattere economico o strategico.
I Paesi più precocemente modernizzati, e che sono stati anche
Paesi coloniali, devono riconoscere la specificità del loro
tipo di modernizzazione, anche se hanno da tempo il monopolio della
modernità; è nel momento in cui si riconosce la pluralità
dei modi o dei processi di modernizzazione che si può capire
come in ogni regione o Paese un certo tipo di modernizzazione si
fa carico dei princìpi o degli orientamenti generali della
modernità. Per riprendere una vecchia espressione, tutte
le strade portano a Roma; ma ciò non significa che tutte
le società si fondono nello stesso stampo alla fine del loro
processo di modernizzazione, bensì che esistono differenze
crescenti nel modo in cui avviene la modernizzazione, definiti caso
per caso, ciascuno dei quali si richiama agli stessi princìpi
che sono propri della modernità. Non c’è da
scegliere tra la peculiarità di un tipo di modernizzazione
e l’adesione ai princìpi universalistici della modernità.
Tutti i Paesi, anche quelli che più si identificano totalmente
con la modernità, come il Regno Unito, la Francia e gli Stati
Uniti, combinano in un modo o nell’altro la modernità
intesa come valore universale e specifiche modalità di modernizzazione,
che non hanno il monopolio dell’espressione o della pratica
della modernità.
Occorre, per finire, insistere sull’opposizione all’interno
del mondo occidentale tra i Paesi europei che appartengono in generale
alla categoria della società (Gesellschaft) e gli Stati Uniti
d’America. La storia europea, e in particolare quella dell’Inghilterra
e della Francia, si basa da tempo sull’idea che questi Paesi
devono avvicinarsi il più possibile a valori universalistici,
all’uso della ragione, a istituzioni che si preoccupino del
bene comune; il che non esclude, e anzi legittima, i conflitti sociali.
Gli Stati Uniti condividono apparentemente lo stesso punto di partenza
e la loro Costituzione, attraverso la Corte Suprema, ha un ruolo
essenziale nella regolazione della vita sociale. Tuttavia, si è
vista rafforzarsi sempre più negli Usa la coscienza di essere
una comunità, fondata su valori specifici, e inoltre la consapevolezza
di avere un ruolo eccezionale nella storia. Lo spirito di comunità,
vivace nei gruppi di immigrati, è del tutto presente anche
a livello federale.
Questa prima indicazione potrebbe facilmente essere seguita da
molte altre ed è di fondamentale importanza respingere la
falsa idea di un modello europeo universalista che si opporrebbe
a tutti gli altri, che sarebbero particolaristi. Persino il Paese
che più si oppone a tutti i particolarismi, la Francia della
tradizione repubblicana e anche giacobina, ha una certa coscienza
storica o estetica di sé che non si riduce all’immagine
di Paese dei diritti dell’uomo. Si può dunque facilmente
riconoscere che in ogni parte del mondo i temi generali della modernità
si combinano variamente con un tipo o un altro di modernizzazione,
ed è pertanto sempre un errore identificare la modernità
con un particolare tipo di modernizzazione. Se si accetta questa
idea e l’approccio comparato che ne deriva, ci si sbarazza
in un colpo solo dei conflitti spietati che emergono tra “civiltà”,
ciascuna delle quali identifica la modernità con le proprie
caratteristiche storiche e culturali.
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