I colpevoli degli scandali devono andare in prigione,
multarli soltanto non serve a niente: i reati dei colletti bianchi
sono
sottovalutati, ma non si tratta
del gioco
del Monopoli.
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Il “caso Parmalat”? Non mi sorprende la globalizzazione
degli scandali. Gli scandali sono un prodotto del sistema capitalista.
Spesso si verificano quando un boom economico è appena finito.
L’economia reale si ferma e quella di carta, che ha costruito
un castello senza fondamenta, crolla. Nel mio ultimo libro, La fortuna
favorisce gli audaci, propugno una maggiore stabilità ed
equità nello sviluppo del capitalismo e regolamentazioni
nazionali e internazionali tempestive, perché dobbiamo contenere
il fenomeno.
Dunque, il “caso Parmalat” è il versante italiano,
anzi europeo, della Enron, la società del Texas che andò
in bancarotta poco più di due anni or sono, e inaugurò
una serie di scandali dai quali Wall Street non si è ancora
pienamente ripresa. I nostri scandali erano prevedibili, ce lo aveva
insegnato il disastro delle Casse di Risparmio verso la metà
degli anni Ottanta. Ma da noi quasi mai le autorità intervengono
prima, quasi sempre reagiscono dopo. Da voi è la stessa cosa.
Alla radice degli scandali, che da Enron a Worldcom, fino a Parmalat,
hanno scosso e continuano a scuotere i mercati, ci sono molti fattori.
L’ingordigia, che ha aspetti anche positivi, perché
è una forte spinta alla crescita, ma che conduce alla corruzione.
L’ossessione dell’aumento del profitto trimestrale:
è assurdo che due centesimi in più mandino le azioni
di una società alle stelle, e due in meno le deprezzino drasticamente.
Gli enormi interessi personali dei dirigenti, che sono strapagati.
La complicità tra certe imprese e certe banche. E così
via.
Ci si domanda: chi è più colpevole, l’industria
oppure la finanza, l’economia reale o l’economia di
carta? E’ difficile stabilirlo. Gli scandali che travolsero
il Giappone nel 1991 appartenevano in prevalenza all’economia
reale, ai manufatti, ai commerci al dettaglio, all’edilizia.
Anche la Enron, e la stessa Worldcom, che segnò il record
dei dissesti, facevano parte dell’economia reale, sia pure
della nuova economia, cioè la più rischiosa. Ma la
finanza ha aggravato la situazione: è questa che fa i prestiti,
le revisioni dei conti, l’avallo dei bilanci, e che condiziona
la Borsa.

In questo senso, non è che l’Europa sia più
o meno esposta dell’America in fatto di scandali. Credo però
che la differenza di fondo sia questa: negli Stati Uniti è
più facile che esplodano scandali dal momento che le imprese
sono costrette a pubblicare un mucchio di dati, anche se a dire
il vero non sempre sono trasparenti, ma che prima o dopo vengono
controllati; da voi in Europa e in Italia è più facile
che vengano nascosti perché non avete obblighi così
stretti, cogenti. Se li aveste avuti, i problemi della Parmalat
sarebbero venuti alla luce prima.

Comunque, occorre trarre due lezioni. Ci vuole la massima trasparenza,
che può essere imposta esclusivamente dagli enti di controllo
e dai Parlamenti, possibilmente giocando d’anticipo. E, in
secondo luogo, ci vogliono punizioni esemplari. I colpevoli degli
scandali devono andare in prigione, multarli soltanto non serve
a niente. I reati dei colletti bianchi sono sottovalutati, ma non
si tratta del gioco del Monopoli. L’etica negli affari non
può restare soltanto uno slogan.
Gli scandali economici e finanziari ci sono sempre stati. Purtroppo
tra il loro scoppio e l’adozione di una legge rigorosa che
li prevenga passa parecchio tempo. E’ come un inseguimento
che non finisce mai. Facciamo l’esempio dei fondi comuni d’investimento
inquisiti per transazioni occulte dopo la chiusura dei mercati.
E’ un altro scandalo che si poteva prevenire con una più
rigida sorveglianza da parte delle autorità di controllo.
Il che non è stato. Logico che il mercato ne abbia risentito,
che chi ha investito si sia sentito penalizzato. L’intero
mondo è paese. Che dire di più?
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