Quella che chiede all’Esecutivo di
essere protetta dalla concorrenza dei cinesi è una Italia
senza idee, che ha perduto
la straordinaria
abilità dei nostri vecchi artigiani.
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Da quando il tema della “globalizzazione” è
penetrato nell’orecchio del grande pubblico, la competitività
italiana è calata di un altro buon dieci per cento. L’autistico
dibattito politico dovrebbe aprire una finestra sulla realtà
e guardare finalmente a quello che succede nel mondo. Le polemiche
sul declino del nostro Paese acquisterebbero un’altra sostanza.
In questa fase gli Stati Uniti si stanno accorgendo che la globalizzazione
non riguarda più soltanto le produzioni industriali sostituite
da quelle cinesi. Ad abbandonare il campo e a fuggire sono anche
i servizi e i posti di lavoro dei colletti bianchi. Programmatori
di software o fornitori di servizi bancari o telefonici costano
un decimo in India rispetto a San Francisco. In Germania le banche
si servono di consulenti nei Paesi dell’Est a metà
costo.

Per i sostenitori del libero mercato si tratta di un vero e proprio
shock. La teoria del commercio che garantiva benefici globali si
basava sulla divisione delle economie industriali in due segmenti:
quello dei beni commerciabili, per esempio i computer, e quello
dei beni non commerciabili, per esempio servizi e assistenza ai
computer. I beni non commerciabili rimanevano al riparo dalla competizione
globale, offrendo rifugio all’80 per cento dei lavoratori
in America e al 75 per cento in Europa. Così, a mano a mano
che la concorrenza riduceva i prezzi dei beni commerciabili, il
resto dell’economia beneficiava di un aumento del potere d’acquisto.
Ora i servizi non saranno più un riparo dalla globalizzazione,
anzi ne accentueranno la pressione. Europa e Stati Uniti non potranno
compensare i costi della concorrenza nell’industria perché
tutto è esposto alla concorrenza e quasi tutto è meno
conveniente che in Asia.

Dal punto di vista politico, l’Occidente non è preparato.
Negli ultimi duecento anni al centro delle divisioni c’erano
i lavoratori del settore industriale. Socialisti e liberali hanno
fondato visioni e identità sui mercati del lavoro nazionali.
La caratterizzazione di classe è così forte che ne
risentono anche i dibattiti sulla globalizzazione o sulle distinzioni
tra capitalismo europeo e statunitense. Tra lavoro e capitale, tra
flessibilità e protezione sociale, si è creata una
divisione politica “interna” alla società. Attorno
ad essa si sono cristallizzate destra e sinistra, la cui dialettica
ci sopraffà quotidianamente in forme che molto spesso perdono
contatto con la realtà.
Ora che l’intera economia – non soltanto la parte industriale
– è vulnerabile, la linea divisoria non passa più
all’interno dei vari Paesi, ma li separa l’uno dall’altro.
I dati sono forse esagerati, ma se alla ripresa americana mancano
otto milioni di posti di lavoro, il 60 per cento è finito
in Asia. Ciò solletica istinti isterici di protezione nazionale,
già forti negli Stati Uniti, eppure velleitari: grazie a
Internet, fortunatamente, non è possibile chiudere le connessioni
in tempo reale tra un radiologo di Nuova Delhi e un ospedale di
New York, e ciò crea vantaggi per entrambi.
L’impatto della nuova concorrenza sui servizi non sarà
affatto annichilente per i Paesi che non chiudono gli occhi e non
alzano barriere. Quando la produzione di computer si è spostata
in Asia, gli Stati Uniti hanno sfruttato il calo dei costi per il
boom mondiale delle tecnologie. L’Europa non ha visto quello
che succedeva e ha perso il boom degli anni Novanta del secolo scorso.
Anche i servizi asiatici saranno un’opportunità per
chi saprà riposizionarsi. E, per farlo, bisogna avere personale
in grado di anticipare l’evoluzione informatica. Governi che
incoraggiano l’istruzione e rendono disponibili apparecchiature
e autostrade informatiche al largo pubblico. Pur rafforzando la
sicurezza sociale, la flessibilità del lavoro deve aumentare
per consentire un rapido passaggio da attività vecchie a
quelle innovative. Allo stesso modo, i capitalisti incapaci devono
essere sostituiti da quelli capaci grazie a un sistema finanziario
più efficace.
Già ora l’Italia è cinque volte più esposta
alla concorrenza commerciale cinese rispetto alla Germania, e tre
volte più della Francia. Ma come possano entrare questi temi
decisivi in un dibattito pubblico reso cieco dalla propria ferocia,
è del tutto ignoto.
Quella che chiede all’Esecutivo di essere protetta dalla
concorrenza dei cinesi è un’Italia senza idee, che
non sa più innovare e ha anche perduto la straordinaria abilità
dei nostri vecchi artigiani. Se produci tegole o tondino di ferro
non hai più speranza. Ma per fortuna l’Italia non è
tutta così.
Nelle valli sopra Bergamo, un cotonificio produce tessuto per camicie:
osservando il prodotto, sembrerebbe un’azienda spacciata,
e invece esporta il 70 per cento della produzione, e poco tempo
fa ha aperto un nuovo stabilimento con ottanta operai, non a Shanghai,
ma a Mottola, in provincia di Taranto. Segreto del successo: un
imprenditore coraggioso e una straordinaria attività di addestramento
dei giovani per trasmettere loro un’esperienza secolare. Poco
lontano, un’impresa costruisce i freni delle migliori automobili
al mondo. Se c’è un problema, è che le nostre
università formano pochi ingegneri meccanici: al Politecnico
di Milano, i migliori si iscrivono a Ingegneria gestionale, vogliono
tutti diventare manager, pensano che disegnare il disco di un freno
sia un’attività obsoleta, e per questa ragione chi
ha bisogno di ingegneri meccanici li importa dalla Repubblica Ceca
o dall’India.
Per essere competitivi ci vogliono una scuola che apra la testa,
istituti professionali in grado di tramandare l’esperienza
dei nostri artigiani migliori e soprattutto tanta concorrenza per
evitare che si creino posizioni di rendita, che sono il maggiore
ostacolo all’innovazione. In un libro che aiuta a capire come
sopravvivere alla concorrenza cinese (La leva della ricchezza.
Creatività tecnologica e progresso economico), lo storico
di Chicago, Joel Mokyr, scrive: «In ogni società vi
sono forze che si oppongono all’innovazione, che vogliono
proteggere interessi particolari, piccole e grandi rendite. Nelle
aziende di questi Paesi gli ingegneri sono stati sostituiti da avvocati,
commercialisti e lobbisti, ascoltati dal governo, che li protegge,
e guarda con sospetto agli innovatori. La storia ci insegna che
qui inizia il declino di un Paese». Sembra di leggere la vicenda
di certe aziende del tessile, che, partite dalla creatività,
si sono ridotte a contrattare con il Cipe i pedaggi autostradali.
Il Sud non avrà un futuro, fino a che le famiglie penseranno
che per trovare un buon lavoro i loro figli devono iscriversi a
Giurisprudenza o a Lettere, o prepararsi alla carriera di commercialisti.
C’è un’altra Italia: all’Interaction Design
Institute di Ivrea una quarantina di giovani progettano nuove modalità
di interazione fra l’uomo e la tecnologia. Ma sono ancora
troppo pochi, e le aziende i giovani “creativi” li vanno
a cercare a Londra, al Royal College of Art.
Wim Bishoff, ex capo di una grossa banca inglese, racconta che
per assumere i giovani segue una regola precisa: prima scorre l’elenco
dei laureati in Lettere Classiche, poi in Matematica: se proprio
non li trova, assume un giovane uscito dalla London School of Economics.
Sorprendente? Ma no, risponde. Una volta assunti i giovani, li invita
a colazione ed espone loro i problemi della banca. I classici e
i matematici, per lo più, dimostrano che non hanno idea di
che cosa si stia parlando; ma ogni tanto il loro modo di vedere
le cose è talmente inusuale, «che improvvisamente capisco
come risolvere un problema fino a quel momento senza vie d’uscita.
Quanto ai laureati della London School, mi ripetono ciò che
ho letto su Business Week: non imparo nulla». (In
realtà, in Italia sessant’anni fa tutto questo lo aveva
già capito Raffaele Mattioli).
Scuola e università, dunque, per dare indirizzi innovativi,
grazie all’apporto della creatività dei giovani migliori.
Ma è accaduto quest’anno che alla “Sapienza”
di Roma si siano iscritti a Fisica una trentina di studenti. Altrettanti
alla facoltà di Matematica. E diecimila a Scienze della Comunicazione.
Todos periodistas, olè! Tutti giornalisti in pectore.
Al novantanove per cento candidati ad imparare l’amara scienza
di vivere di ripieghi o di espedienti. E’ concepibile, tutto
questo, in una società che non vorrebbe arretrare nel futuro?
E che colpa ha la Cina se, piuttosto che lavorare, pretendiamo di
essere tutti inviati speciali?
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