Difficile
dimenticare come vennero accolti in Italia: respinti al porto di
Ancona dai portuali
comunisti che
incrociarono le braccia, respinti alla stazione di Bologna... |
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Almeno per quel che riguarda il primo conflitto mondiale eravamo
convinti di sapere tutto, di conoscere tutti i risvolti, anche i
più oscuri, di una guerra che aveva saldato un fronte gigantesco
su due continenti, da Verdun a Vladivostok. Invece, non è
così. Non lo è, almeno, per l’Italia. Perché
continuano ad emergere fatti inediti (e insospettabili), che gettano
nuova luce su quanto si verificò in alcune regioni che furono
primari teatri di battaglia in uno degli scacchieri più tormentati
dell’epoca.
Quella tragedia europea fu, fra l’altro, un gigantesco, tragico
laboratorio nel quale vennero sperimentati i mali incurabili del
Novecento: la morte inflitta su scala industriale, le deportazioni
di massa, il mondo orribile dei campi di concentramento, il trasferimento
di intere popolazioni, la cancellazione di intere nazionalità.
E una parte di queste vicende è stata riportata alla luce,
grazie ad una ricca documentazione, con scritti e con fotografie
che riportano in primo piano i destini delle cavie di quegli orribili
esperimenti: la permanenza in trincea, con la forzata convivenza
di vivi e di morti, il primordiale magma umano dei soldati disintegrati
dai tiri delle artiglierie o avvelenati dai gas esplosi dagli obici;
e, nelle retrovie, i traumi fisici e psicologici delle deportazioni:
i paesaggi sinistri delle baracche uniformi dei lager, gli sguardi
spenti dei profughi, la solidarietà familistica delle donne
e quella innocente dei bambini, l’aria smarrita dei prigionieri.
Sono parole e immagini angoscianti, da leggere e da vedere in un
libro, Il popolo scomparso. Il Trentino, i Trentini nella prima
guerra mondiale (1914-1920), curato da Quinto Antonelli e da
Diego Leoni, e dedicato all’inferno di quella guerra planetaria.

Involontario paradigma di questo cataclisma, il Trentino, non soltanto
in quanto teatro di sanguinosi scontri militari, ma anche in quanto
frazione di una problematica realtà etnica, qual era l’Impero
austro-ungarico. Dal 1914 in poi, ai trentini successe di tutto.
Gli uomini ritenuti in grado di portare le armi, cioè quelli
dai diciotto ai cinquant’anni, si divisero, volenti o nolenti,
in due distinte fazioni, prendendo due direzioni opposte: alcuni
divennero soldati dell’imperatore viennese, altri soldati
del re sabaudo; si trattò, in pratica, di una maggioranza
di sudditi absburgici (non pochi contro la stessa propria volontà)
che furono costretti a mobilitarsi sotto le bandiere di Francesco
Giuseppe, e una minoranza di irredentisti che, disertando, vestirono
le divise grigioverdi di Vittorio Emanuele III. Allo scopo di tenerli
il più possibile lontani dall’Italia, quasi tutti i
sudditi dell’Impero delle Due Corone vennero assegnati ai
fronti europei orientali. Per la maggior parte combatterono in Galizia.
Quelli che riuscirono a sfuggire all’ecatombe furono fatti
(o si diedero) prigionieri in Russia, dove finì per coglierli
la rivoluzione bolscevica. E anche in questa circostanza si divisero:
ci fu chi decise di unirsi all’Armata Rossa di Trockij, pensando
così di riscattare se stesso in nome del proletariato; e
chi preferì farsi internare, in attesa di tempi migliori.
Sul fronte opposto, i trentini rimasti fedeli all’Intesa si
ritrovarono (alcuni liberi, altri prigionieri, alcuni arruolati
e altri sbandati) sotto i cieli sconfinati dell’Asia: in Siberia,
nel Turkestan, addirittura in Cina. E i racconti delle loro avventure
sono avvincenti come tragedie brechtiane. Tanto più che nessuno
dei loro familiari, genitori o mogli o figli, poté attenderne
a casa o il ritorno o il tremendo telegramma che li dichiarava “valorosamente
deceduti sul campo di battaglia”.

Per ragioni economiche e politiche, oltre che per più stringenti
decisioni militari, parecchie decine di migliaia di trentini furono
evacuati dalle autorità absburgiche e dispersi nelle province
centrali dell’Impero, soprattutto in Tirolo, nella Boemia
e nella Moravia. In ventimila, invece, vennero concentrati in lager
austriaci, nelle orribili “città di legno”, nelle
quali la sporcizia, la miseria, la fame e le malattie infettive
concorsero a decimarli. Ne tornarono pochissimi, a conflitto concluso,
tutti, senza eccezione, malati, denutriti e fiaccati nel fisico
e nell’anima: la guerra passata sulla loro terra aveva arroventato
la vita di un popolo, i patimenti l’avevano arrugginita. Di
tutta una generazione, più di metà era stata cancellata
dalle armi, mentre nei superstiti sarebbe rimasto per sempre il
marchio del dolore.
Beffarda rivincita della vita sulla morte, i documenti scritti dai
soldati sui fronti, dai profughi nei campi di concentramento, dai
deportati nelle regioni centrali del mosaico imperiale absburgico,
affidate all’ignoto destino della corrispondenza epistolare
o alle righe di diari e di sdruciti quaderni di scuola, sono giunti
numerosi fino a noi, per ricordarci tutto un vissuto di guerra di
un popolo letteralmente scomparso: i destini inattesi, la disperazione,
le malinconie, le reazioni meno prevedibili e magari inconcepibili
in tempi normali.
Ad esempio, il pregiudizio antisemita di un soldato precipitato
nella fornace bellica galiziana, che si vede offrire del cibo, e
persino delle donne, da «un Abreo furbo come il diavolo».
Oppure la rabbia misogina di un sacerdote in servizio fra le tende
di un ospedale alle spalle delle prime linee, disgustato per l’arrivo
di quattro intraprendenti crocerossine («alle loro case non
avranno proprio niente da fare»). O ancora, il residuo dell’innocenza
di un internato nel campo di concentramento di Mauthausen, il quale
riesce a trovare “bellino” un paese, con le villette
«coperte di pergolato di rose o di viti americane».
Tranches de vie, pezzi di vita, spaccati di antropologie e di temperamenti,
di umori e di speranze, che ci illustrano un’umanità
trascinata dentro una bolgia in cui tutto è imperscrutabile,
ogni condizione è provvisoria, l’esistenza stessa è
appesa a un filo.
Insieme con gli scritti, i documenti fotografici, disseppelliti
e raccolti nei solai e nelle cantine delle case trentine. Anche
questi inediti. Sono foto quasi tutte scattate dai soldati e dagli
stessi profughi e deportati, immagini che rivelano una loro dilettantesca
estemporaneità, e che tuttavia, come tutto ciò che
è fotografia, fissano momenti di vita che non tornano più,
e sono ritenute “proiezioni di nature morte”.
Altro discorso, questo. Per ciò che ci riguarda, e che ci
ha particolarmente colpito, oltre ad un’evidente prevedibilità
di inquadrature, sono impressionanti le immagini del conflitto combattuto
in alta quota, fra le nevi dell’Adamello e le rocce delle
Dolomiti, con i valligiani trasformati in eschimesi, con i soldati
riparati dal gelo con una mantellina di panno ruvido: la guerra
dei contadini con a tracolla il fucile 91, la guerra che vide soccombere
centinaia di migliaia di meridionali in terre dal clima ostile.
Ecco: sono proprio queste foto a darci l’idea delle contraddizioni
di quel conflitto, che fu un magma confuso e micidiale di arcaismo
e di modernità. Accanto ai telefoni da campo, i cani da slitta;
insieme con i mezzi corazzati, i piccioni viaggiatori; in cielo
gli aerei da incursione, fra le balze gli orsi siberiani…
Alcune pagine dopo, un drammatico documento da preludio: un gruppo
di prigionieri spogliati dalle guardie per la disinfestazione; uomini
nudi sugli attenti, di fronte a uomini vestiti, che con scrupolo
incurante delle altrui sofferenze registrano i nomi di quegli sventurati.
Come dire: le prove generali di uno spettacolo prossimo venturo!
Tornarono quasi tutti, invece, i duemila “Ulissi oscuri”
(la definizione è di Claudio Magris) i quali, abbagliati
dal sole dell’avvenire, abbandonarono Monfalcone nei primi
mesi del 1947, e passarono in Jugoslavia, per contribuire alla realizzazione
del comunismo. Storia di un’illusione, di un sogno degno di
tutto rispetto, tradottosi presto in un’odissea che gli ultimi
superstiti ricordano con sobrietà, oggi, dopo un silenzio
interrotto soltanto da un romanzo di Pasolini (Il sogno di una
cosa), pubblicato nel 1949-‘50.
Avevano abbandonato i cantieri navali e quelli aeronautici, con
buone paghe e con posti di responsabilità, e avevano attraversato
il confine convinti di raggiungere una terra che era l’avamposto
paradisiaco del proletariato. Non si era trattato di un trasferimento
organizzato: ciascuno si era mosso spinto da un impulso ideale individuale,
sull’onda della grandezza raggiunta dalla Grande Madre Russia
dopo la vittoria sul nazismo, e tutti insieme si erano ritrovati
sotto le bandiere titine, prima che il Cominform sovietico scomunicasse
il dittatore jugoslavo, bollandolo con l’accusa di tradimento.
Un anno dopo, moltissimi erano già rientrati, con la coda
tra le gambe. In Jugoslavia erano stati ritenuti delle spie, perseguitati,
messi in prigione. Alcuni sarebbero tornati dopo anni di internamento
nel lager dell’isola di Goli Otok (Isola Nuda), nel Quarnaro,
dopo essere stati i primi a scontrarsi con la verità e con
la realtà del “socialismo reale”: Tito, con metodi
stalinisti, aveva perseguitato questi stalinisti, un “mucchio
selvaggio di matrice gramsciana”, come li ha definiti Andrea
Berrini, che ne ha ricostruito la storia in Noi siamo la classe
operaia, titolo preso da una vecchia canzone: “Noi siamo
la classe operaia / che suda che soffre e lavora / finiam di
soffrire che è l’ora”.
Riferiamo questo episodio per ricordare l’altra verità
storica finora elusa, e comunque tenuta in piena ombra. Il partito
comunista della regione Giulia spingeva perché la zona di
Monfalcone, con Gorizia, divenisse la Settima Repubblica Socialista
della Jugoslavia, e, all’interno di questa politica, sollecitava
i seguaci all’emigrazione: era necessario bilanciare l’esodo
della gente istriana e dalmata con un “controesodo”
ideologico. Dunque, non si fece nulla per scoraggiare il trasferimento
dall’area di Monfalcone, anche se è molto improbabile
che i dirigenti comunisti giuliani non conoscessero quel che era
il mondo jugoslavo, con la sua arretratezza, con lo spirito di rivalsa
nei confronti dell’Italia, con la diffidenza anche nei confronti
delle gerarchie politiche internazionaliste che agivano a Roma.
Ed è qui che si innesta il discorso sull’altro orrendo
silenzio, durato fino a poco fa: quello sulle foibe. C’era
una ragione di fondo per rimuovere le pagine tragiche della pulizia
etnica portata a termine, e questa ragione non riguardava il numero
delle vittime, che non conosceremo mai (i titini diedero alle fiamme
i registri anagrafici dei comuni italiani appena occupati), come
difficilmente potremo appurare il numero delle foibe e degli inghiottitoi
trasformati in fosse comuni (finora si sa di 167 su circa duemila
presenti in tutta quell’area, compresa la foiba di Basovizza,
dove sono stati scoperti diciotto metri di corpi accatastati. Questa
foiba era profonda 208 metri, ma la massa delle vittime aveva ridotto
il fondo a soli 190 metri: come dire, vi erano non meno di 1.500
persone “infoibate”). Basovizza come Monrupino, Gropada,
Vines, Villa Surani, Carnizza, Gallignana, per il lungo elenco dei
luoghi della vergogna, dove i morti si contano in centinaia di “metri
cubi”. Al di là di tutto questo, che può definirsi
storia se non negata, per lo meno occultata, riguarda, la ragione,
la politica svolta da Palmiro Togliatti e dal suo partito in favore
della Jugoslavia, alla quale intendeva far consegnare Trieste e
l’intero Friuli-Venezia Giulia, Udine compresa.
In questo modo, l’Italia avrebbe perso in un sol colpo, e
per merito di una forza politica interna, la maggior parte del territorio
per il quale aveva avuto oltre 600 mila morti nel primo conflitto
mondiale.
Questo versante della determinazione comunista di smembrare la Penisola
in favore di Tito andava tenuto rigorosamente nascosto, dal momento
che l’azione togliattiana era saltata e che alla Jugoslavia
era stato negato anche il possesso della Zona A del Territorio Libero
di Trieste, amministrato, insieme con la Zona B, dagli alleati,
prima, e dagli inglesi in un secondo momento. E ciò, più
d’ogni altra cosa, ha causato i silenzi sulla tragedia istriana,
sul terrore seminato dai titini nelle terre di Zara, di Pola (Pula),
di Fiume (Rijeka), e, nei giorni della ferocia e degli omicidi indiscriminati
e dei saccheggi a tutto campo, durante la presenza degli jugoslavi
a Trieste, quando questa città aveva già preso il
nome di Trst.

350 mila istriani e dalmati salvarono la vita abbandonando avventurosamente
le loro terre: in parte, un popolo scomparso anche questo, per infoibamento;
in parte, un popolo disperso, al quale oggi riconosciamo unità,
oltre che grande dignità, dopo i giorni della nostra viltà.
Difficile dimenticare, infatti, come vennero accolti in Italia:
respinti al porto di Ancona dai portuali comunisti che incrociarono
le braccia, respinti alla stazione di Bologna dai ferrovieri comunisti
che bloccarono gli ingressi dei treni con i profughi a bordo…
Solo adesso noi cominciamo a fare i conti con questo passato, con
la nostra storia sommersa o vischiosa. A novant’anni dai trentini
col muro nel cuore, a sessant’anni dai crimini anti-italiani
nell’Istria.
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