Volava leggero come gabbiano d’inverno,
novello Icaro
innocente,
stupefacente.
Volava e rideva,
di tanto in tanto ritornava
nel ventre
della terra...
|
|
«Sì, pronto.
Sono Maurizio. Tu chi sei?».
«Sono Ernesto. Ernesto Barba. Vedi che tra qualche giorno
passerò dalle tue parti. Se ti fa piacere, potremmo anche
incontrarci. Sicuramente verrò a Gallipoli. Ti telefonerò».
Era l’inverno di un anno che ora non ricordo più. Un
anno comunque lontano nel tempo. Quella sera faceva freddo, la tramontana
spazzava la perla del Salento, rendendola città-sogno felliniana.
Ora comprendo i motivi profondi del comportamento di Ernesto, del
perché, a tutti i costi, ci tenesse a vederci nei luoghi
più impensabili e alle ore più strane. Più
di ogni altra cosa ricordo il suo rito. Percepivo che i suoi movimenti
e le sue decisioni erano frutto di un suo antico rituale, cioè
di un suo modo di essere che, una volta espletato, gli metteva poi
l’anima in pace. Ad accompagnare Ernesto a Gallipoli, volta
dopo volta, c’era sempre un uomo diverso dall’altro.
Non gliel’ho mai chiesto, credo però che si trattasse
di una sorta di tassista pagato a ore o a mezze giornate. Molte
altre volte, veniva invece col suo amico del cuore: Franco Pisanello,
dello Sheraton-Nicolaus di Bari.
Ernesto Barba era veloce come il vento. In poche ore di permanenza
nel Salento, in particolare a Gallipoli ma anche a Copertino e a
Lecce, compiva molti degli obiettivi che si prefiggeva. A Gallipoli,
faceva visita ad alcuni personaggi che io pure conoscevo, il dr.
Alberto Laviano ad esempio, oppure a Fernando De Rossi ma, francamente,
non ho mai capito molto quali fossero i motivi dei suoi incontri
con questi comuni amici; forse, ma tiro ad indovinare, per quanto
riguarda il De Rossi, il suo incontro con lui poteva riguardare
questioni riguardanti il mare, perché Fernando possedeva
una buona conoscenza sui traffici e su tutto ciò che ruotasse
attorno al porto e alle marine gallipolitane.
Ernesto sbrigava poi qualche altra faccenda come, ad esempio, quella
di andare – spesso senza farsi riconoscere – nell’edicola
dei fratelli Bono al Borgo, oppure in quella dei Casavecchia all’interno
di Gallipoli vecchia, e lì comprare le pubblicazioni sulla
città che gli interessavano. Faceva ancora dell’altro.
Andare, ad esempio, a visitare un Pineto, che per Ernesto non era
– parole sue – «una pineta, come quella che sta
in fondo, dietro lo stabilimento del vino, ma un bosco grande grande
che comincia dalla spiaggia, dal mare e ci sono pure i canali del
rimboschimento contro la malaria». Poi, al crepuscolo, prima
che la chiesa della “Purità” chiudesse le sue
porte, entrava da solo in questa piccola Cappella “Sistina”
nostrana, mentre io aspettavo sull’uscio, da dove ugualmente
potevo vederlo sedersi su uno dei posti del coro e assumere lì
una posizione tale che gli consentiva di guardare fissamente un
punto della parete. Lo vedevo profondamente assorto nei suoi pensieri,
rapito da qualche suo recondito segreto dell’anima, difficile
da interpretare.
Il suo atteggiamento non era quello tipico di un orante. Piuttosto
i suoi raccoglimenti nella piccola chiesa gallipolina avevano sì
un qualcosa di profondamente mistico, ma un misticismo affatto finalizzato
a questo o a quel credo, perché la sua cultura religiosa
era planetaria e non era facile restringerla nell’ambito di
una sola fede. E’ certo che Ernesto Barba è passato
attraverso il Cristianesimo, l’Islam, il Confucianesimo, il
Tantrismo, l’Animismo, il Buddismo, l’Ebraismo. Forse
anche altre religioni, delle quali io ignoro l’esistenza.
Comunque, questa sorta di rito speciale, Ernesto lo compiva come
ultimo atto della sua brevissima permanenza a Gallipoli. Nell’auto
con la quale giungeva in città c’era sempre pronto
un mazzo di fiori di stagione. Più di una volta, l’ho
accompagnato silenziosamente al cimitero, in un’ora del crepuscolo,
quand’ancora il custode non lo aveva definitivamente chiuso.

Quando c’era Ernesto Barba, il custode del camposanto di
Gallipoli sapeva come attardarsi, soprattutto grazie al rispetto
e alla stima che egli aveva nei confronti di Aldino (Ndino) Barba,
lo zio silenzioso e irraggiungibile per Ernesto per via di antiche
storie di famiglia. Per la verità c’erano anche altri
personaggi di questa straordinaria città-sogno felliniana
per i quali il custode aveva rispetto: ad esempio, per il dottore
Salvatore Coluccia e per Ennio Stefanelli, il tipografico che stava
all’angolo del palazzo di città “Balsamo”.
Nel camposanto, Ernesto faceva un percorso silenzioso, interrotto
solo da qualche domanda su come va la vita di questo o di quello,
delle morti importanti che c’erano state nel frattempo, della
vita amministrativa della città, se fossero cioè i
comunisti foscariniani a governare oppure la destra economica. Poi
giungevamo al gruppo di tombe che interessava Ernesto, e fra queste,
oltre a quella del padre, ce n’era una alla quale egli teneva
molto. Era quella del suo avo Emanuele, la cui lapide tiene inciso
questo epitaffio: “1818-1887 / Alla imperitura memoria / del
cittadino esemplare / Emanuele Barba / medico letterato patriota
/ quanti educando emancipò / riconoscenti posero”.
Passavo il mazzo di fiori ad Ernesto, che lo appoggiava alla base
di questo marmo, lambendo così anche parte di un’altra
lapide, quella di Maria Barba, l’ottocentesca zia monaca di
Ernesto.
Dunque, quella sera faceva veramente freddo ed Ernesto aveva una
gran voglia di ripartire subito. Scendendo la scalinata del cimitero
scherzò un po’ sulle cose che aveva ancora da fare:
pernottare in una stanza d’albergo a Lecce e poi, all’indomani,
farsi accompagnare alla Grottella di San Giuseppe da Copertino e
lì parlare con qualcuno del posto sulle e delle vicissitudini
del santo dei voli. Solo dopo si faceva accompagnare all’aeroporto
di Brindisi per ritornare a Roma oppure in qualche altro posto lontano
migliaia di chilometri dal Salento.
- «Ciao, Maurì, ci risentiremo per lettera. Ah, dimenticavo,
mia madre, mammà Vera Gaeta, dice che hai dimenticato qualcosa
dei miei avi Emanuele Barba (medico cerusico e fondatore del Museo,
nonché grande personaggio della storia gallipolitana) ed
Ernesto Barba (primogenito di Emanuele, direttamente nonno del Nostro,
e anch’egli grande personaggio della storia di Gallipoli a
cavallo tra Ottocento e Novecento), allora che passasti da lei a
Roma. Mi ha dato questa busta per te. Ciao e ricordati sempre che...
“mannaggia ‘e ffemmene!”». [Ernesto
usava spesso questa espressione, e ciò, in chi lo ascoltava,
poteva dargli l’idea di disprezzare le donne. Come tutti sanno
invece era tutto il contrario. Ernesto non solo amava visceralmente
le donne, ma la sua passione sconfinava fino a coivolgere tutto
ciò che sapesse di “femmina”].
Quella volta lì, rimasi con la busta in mano. Sapevo cosa
contenesse. In fondo si trattava di carte che anche Ernesto si era
trovato spesso fra le mani, che spesso aveva osservato in modo quasi
maniacale, proprio come facevo io a quel tempo. Erano i ricordi
garibaldini del suo antenato più famoso: l’incisione
di Emanuele Barba e il ritrattino di Garibaldi su stoffa; l’autografo
di Luigi Castellazzo; la bolletta di un deposito postale; la busta
e la lettera di Garibaldi inviata da Caprera il 12 novembre 1863;
un foglio a stampa dell’Associazione culturale italiana, sezione
di Gallipoli; un altro foglio volante con stampata la poesia Un
sospiro a Garibaldi; un’altra busta e relativa lettera
di Garibaldi inviata da Frascati il 10 luglio 1871; un dagherrotipo
con le immagini del Dr. Tiberio Riboli con Giuseppe Garibaldi ferito;
una ferrotipia con busta del Dr. Riboli; ancora un biglietto da
visita del Dr. Riboli e due dagherrotipi di Garibaldi autografati;
una busta con una ciocca di capelli e un fiocco di barba di Garibaldi;
un’altra busta con lettera della stessa Ceva Altemps Stampacchia
inviata da Gallipoli l’8 novembre 1883; una busta con lettera
ancora di Ceva Altemps Stampacchia inviata da Torino il 10 ottobre
1883; una riproduzione originale della mano di Garibaldi autografata
dal Dr. Riboli; un opuscolo rarissimo di Emanuele Barba; altro opuscolo
rarissimo di Giuseppe Garibaldi; altre lettere, altre buste, altre
foto, ma di minore importanza rispetto a quelle citate. Erano carte
antiche, frutto di antichi ricordi, legami strettissimi di storie,
situazioni, speranze, giochi, lotte, alle quali prima Ernesto, ma
dopo anch’io, ci siamo legati con infantile fascino, sospiranti
i grandi tempi che toccarono questi grandi personaggi del passato
e la stessa città ionica.
Quella sera d’inverno di quell’anno che ancora non
ricordo, un anno comunque lontano nel tempo, vidi Ernesto allontanarsi,
lo vidi volare, un po’ come un angelo, e un po’ come
uno dei suoi santi più venerati, quel San Giuseppe da Copertino,
lo vidi volare al di là della Serra, al di là dell’abbazia
basiliana di San Salvatore nella pianura, e pure di quella di San
Mauro sulla Serra.
Ernesto volava al di là della terra, oltre il mare, attraverso
spazi siderali, verso luoghi incantati, fatati. Volava leggero come
gabbiano d’inverno, novello Icaro innocente, stupefacente.
Volava e rideva, rideva muovendo ritmicamente la sua mano infantil-militaresca
di angelo vendicatore (penso a Carmelo Bene vestito col costume
dell’angelo con in mano la grande spada ondulata), che di
tanto in tanto ritornava nel ventre della terra che gli aveva dato
i natali e lì trasfigurarsi, gonfiarsi e allungarsi come
gigante celeste, per poi divenire gabbianella leggera e sicura e
attraversare i cieli tersi e rossi di una Gallipoli ribelle e austera,
di una città tanto amata eppure negata, per tuffarsi infine
in un oceano di profumo di donna e lì perdersi o confondersi
tra le pieghe di Sabellina, sua amica tarantata d’infanzia.
Ernesto partì da Gallipoli dicendo che sarebbe tornato dopo
qualche tempo. Per questo rimasi in attesa degli eventi.

Dopo qualche tempo, Ernesto Barba si fece nuovamente “sentire”
direttamente da Taipei, attraverso uno stranissimo libro (verde
dorato) di poesie, Sistole & diastole, stampate su
carta di riso e rilegato con un solido filo di seta rossa, il tutto
confezionato dalle mani di Miss Scarlett Chang (Edizioni Siddharta).
Era il 1973 ed Ernesto aveva già cominciato a caratterizzarsi
come Mashallah, cioè – grazie ad uno pseudonimo
tipicamente salentino – come «Francesco Marra / sempre
senza una lira / sempre innamorato / colla capo piena di vento /
sempre stonato. / Quando morirà seppellitelo / con “il
libro dei sogni” / e la coppola in capo».
Confesso che quella volta Ernesto mi stordì, mi ammaliò.
E fu soprattutto la sua poesia che mi trascinò sulle mura
medievali di Gallipoli. Anche quella fu un’altra straordinaria
notte di un inverno di un anno le cui cifre non ricordo più.
Comunque un anno lontano nel tempo.
Ricordo che quella notte faceva freddo e il vento di tramontana
spazzava la città-sogno felliniana. Con me, sugli spalti
prospicienti il castello angioino, avevo il libro di Ernesto, aperto
proprio alla pagina della “sua” Questione meridionale:
«Sulla strada di Metaponto / li polizziotti m’anno sparato
addosso. / Acciso e sanguinato / per 5 metri ho camminato a sforzo.
/ In una mano tenevo cicoria / e nell’altra una bandiera rosso.
/ Poi ho caduto morto sotto un fosso».
Tutti sanno che Ernesto Barba era un giramondo. Non stava mai fermo,
e io – che ero finanche troppo legato a Gallipoli –
mi vedevo costretto a seguirlo solo col vento oppure attraverso
un epistolario di carte sempre aperto. Si trattava di carte antiche,
nuove, profumate, orientali, guatemalteche, gallipolitane.
Leggendo la sua scrittura, andavo scoprendo un suo mondo del tutto
inedito, fatto spesso di grandi contraddizioni, incredibili paradossi,
spesso in contrasto durissimo con il mio mondo sostanzialmente di
volgare materialista concreto. A volte, leggendo una sua poesia,
mi veniva di inorridire davanti a quelle sue incomprensibili posizioni,
ma poi i versi erano così belli che era impossibile rimanere
insensibili. Nella poesia Storia patria scrive: «Ahi Malasorte!
/ Avrei dovuto pugnare sul Volturno / contro quei malarnesi dei
Piemontesi / (Li pifferi delli granatieri / suonavano la marcia
dellu Paisiello / con le cornette delli lancieri). / E avrei dovuto
difendere a Gaeta / la bianco gigliata bandiera del Reame. / Sarei
morto di fame, sì / ma / ma avrei preso a columbrine in faccia
/ bersaglieri, tamburini sardi e garibaldini / agli ordini di quel
buzurru / del signor generale Firmato Cialdini / Ahi Malasorte!
/ Così in tenuta bianca sempre fuori ordinanza / sarei dovuto
sbarcare / e, gran belle gesta d’Oltremare, / occupare Tripoli,
bel suol d’amore / la Marmarica, le Sirti e la Cirenaica.
/ Poi, / che un bel mori tutta la vita onora, / sarei dovuto saltare
in aria / mentre ero dal barbiere / nel quartiere ufficiali della
Regia Nave / “Benedetto Brin”. / E il mio pennello insaponato
/ sarebbe ancora sotto teca / nel museo civico con annessa biblioteca
/ della città di Brindisi. / Ahi Malasorte! / Avrei dovuto
cavalcare / in camicia nera (di seta naturale) / su un cavallo bianco
a sella / con un frustino in mano / ed una Macedonia Esportazione,
/ come se fosse un fiore, in bocca. / Poi avrei marciato su Roma
/ in una Bugatti Targa Florio / con su scritto “Il Duce non
si tocca”. / Ed il ritorno l’avrei dovuto fare / da
barone pugliese e fascista perfetto / in vagone ristorante e vettura
letto. / Ahi che sorte malasorte / una sorte delle più nere.
/ Fortuna che feci in tempo / ad essere Balilla Moschettiere».
Una lirica questa del tutto diversa – oserei dire contrapposta
– a quella di Las Mananitas che fa così: «Un
giorno / un bel giorno d’autunno / i generali / Emiliano Zapata
/ Pancho Villa / (che era vegetariano) / Che Guevara / scenderanno
a New York / e sfileranno / su dei cavalli bianchissimi / alla testa
/ dell’armata peona / tutti / fatti a marijuana / scamiciati
/ in sandali guaracha. / Rum e mescal nella borraccia. / I generali
/ Emiliano Zapata / Pancho Villa / (vegetariano) / Che Guevara /
per tutta la Quinta Avenue / dalla Quarantottesima alla Cinquanttotesima
strada / cavalcheranno al passo / (quale banda / suonerà
las Mananitas?) / tra due ali / di biondissime yanqui / liberate
da ogni machismo / conquistate da tanto carisma. / In sandali guaracha
/ scamiciato / mescal e rum nella borraccia / sorriso marijuanero
/ sarò anch’io / con voi / Generali / Che Guevara /
Pancho Villa / Emiliano Zapata. / Poi scompariremo / all’angolo
del Plaza».
O ancora quest’altra lirica, dal titolo Traduzione d’una
canzone: «Con i compagneros della taverna / padroni di
galli / boxeur pesi welter / fedeli a Castro / e seguaci di Che
/ una sera alla Calle Moca / ci ubriacammo senza pietà. /
Una chitarra scandiva in flamenco / “Che sebbene / sia un
uomo sposato / ogni volta ch’io ti vedo / il sangue / mi diventa
una pietra”. / Tutti piangevamo - / Caramba! / Ma non era
il rum!».
Che strano mondo quello di Ernesto. Eppure mi affascinava. Egli
volava sul mondo e sognava, e io di lui sognavo i suoi Sogni:
«Vorrei / pieno di streppa / pieno di snuffia / per ore /
fare all’amore».
E ancora quest’altra, dal titolo Todo por la patria:
«Polizia / con le scarpe pulite / con le unghie alluttate
/ con i baffi fascisti / con gli occhiali da sole / e uno sputo
nel cuore. / Messico / Caraibi / America del Sud / America del Centro.
/ Se una persona mi gusta / se voglio bene a un amico / me lo mettono
dentro».
Tornò a Gallipoli ancora una volta una sera d’inverno
di un anno che non ricordo più. Faceva freddo e la tramontana
spazzava la città-sogno felliniana. Allora mi mostrò
i suoi tatuaggi (una rosa rossa con al centro una svastica) e io
ne rimasi sconvolto. La mia anima, fondamentalmente concreta, non
li accettava (almeno la svastica), eppure la sua poesia mi ammaliava:
«Braccio coi tatuaggi / Braccio ferito a rissa / Braccio d’amante
guappo / Braccio di nuotatore / Braccio paracadutista. / Povero
braccio mio. / Braccio sinistro / andato a artrite».
Mi disse: «Maurì, tu sai cos’è l’Erba
voglio?».
«No», risposi.
E lui: «Datemi / un sole / un mare / una città / una
donna / un libro / un amico / che m’indroghi / come una droga
/ per indrogarmi / ancora / di più».
Ernesto amava il Salento. Molto. Tanto. In Futuro remoto
ha scritto: «A Yokohama prenderò il postale per tornare
/ a casa. / O a Colombo. / Parlerò solo col barman, durante
il viaggio / ed i miei capelli bianchi mi salveranno / dai ruffiani
nei porti di scalo. / Cosa dirà il finanziere aprendo la
mia valigia: / una cicala di giada / un ventaglio dell’epoca
Meji / (Quando le donne erano docili e dolci) / e un amuleto taoista
/ incartati nella pagina sportiva del / “Manila Times”?
/ E che effetto mi farà / salire sulla littorina delle “Ferrovie
del Sud Est”? / Sicuramente alla stazione di Bari / dove tutti
i treni si fermano / il rosso del neon che dice “La Gazzetta
del Mezzogiorno” / sarà più forte di tutte le
luci della Ghinza. / (La Ghinza: diecimila ragazze in kimono / ma
non una sola / principessa manchù). / Meloni e faraglioni
/ castelli saraceni / fortini e rivellini / conventi e trappeti
/ vigneti e uliveti / montagne spaccate / fontane crociate / fichi
d’India. / E lontano / passato il Capo di Leuca / come persi
al lotto / da morire di nostalgia / los cocoteros delle isole /
le trentasei viste del Monte Fuji / l’impero Khmer profumato
d’oppio / il mondo di Susie Wong / e i kimono di Michiko.
/ Che moriremo dove siamo nati. / In Magna Grecia».
Nella poesia Bar Impero, scrisse: «Chona / cioccolatino
al liquore. / Il liquore / della Zia di Lecce / che veniva sotto
Natale / col mandorlato / e il liquore. / Chona / cioccolatino al
liquore / ri-incontrato a Manila».
Tutte le volte che Ernesto Barba giungeva a Gallipoli, il mondo
diventava per me un altro, una sorta di strano Mondo a gogò
(una sorta di autobiografia di Ernesto), che egli canticchiava sotto
voce: «Il mondo era una bolla di sapone. / A Salisburgo /
su un tavolino del caffè Tomaselli / graffiai “Una
rosa rossa per Do”. / In Norvegia / vidi un vespasiano / in
un bosco. / A Reigate / feci il testimonio a un matrimonio. / A
Cracovia / dovetti rompere il ghiaccio nell’acquasantiera.
/ Ad Angkor Vat / vidi una scimmia masturbarsi. / A Vienna feci
una sauna. / Alla stazione di Firenze / mi svegliai ogni volta /
che il treno si fermava. / Da Bangkok mandai un telegramma. / Da
Los Angeles ne ricevetti parecchi. / A Dusseldorf / in un bar d’invertiti
/ bevvi un cocktail chiamato “Perverso” / e rifiutai
di ballare un tango. / A Londra / partecipai a un congresso fascista.
/ Sempre a Londra / commisi atti contro natura / dietro i leoni
del British Museum. / A Kabul mi feci circoncidere. / A Nova Huta
/ telefonai dal bar principale / che si chiama “Arkadia”.
/ A Pago-Pago / (American Samoa) / sognavo di prendere / il Settebello.
/ A Lilla sono stato in prigione. / A Gaeta anche. / A Interlaken
/ la prima volta che giocai al tennis / c’era il sole. / A
Monaco / non finii l’università. / A Okinawa / mi licenziarono.
/ Ad Amsterdam / rimasi sei giorni / (o sette?). / A Lecce / in
Via dell’Arte della Cartapesta / feci all’amore / con
una professoressa di nuoto / triestina. / (Era di domenica). / A
Bonao / (Repubblica Domenicana) / ballai il pata-pata bugaloo /
con una mulatta zoppa. / Alle Bahamas / una negra / mi fece il pedicure.
/ In Finlandia / scrissi facendo pipì / sulla neve / “Vanitas
Vanitatum”. / Ad Antiochia / incrociai la prima carovana di
cammelli. / Alla “Casa dello Studente” / vidi un bruttissimo
film pornografico / in bianco e nero. / A Saigon invece / ne fui
protagonista ma a colori. / A Istanbul / ho servito messa in greco.
/ A Berlino-Est / baciai una ragazza ungherese / all’Humboldt-Platz
/ (là dove bruciarono i libri). / A San Francisco / in un
bagno turco / tirai di streppa. / A Colonia / restai giornate intere
/ a vedere le maone / sfilare sul Reno. / A Napoli comprai / una
bellissima gatta siamese. / E a Macao / un carillon che suonava
“Il Mefistofele”. / A New York / non sbarcai / perché
avevo la pleurite. / A Stoccolma / sentii per la prima volta / “Che
bella panzè che tieni / che bella panzè che hai”.
/ Alle Hawai / nel fare il surf / mi sacramentai / contro gli scogli
a fior d’acqua. / (Persi i due incisivi). / A Cordoba / entrai
in un museo bellissimo. / A Taipei / lo stesso. / Ad Avellino /
vinsi la gara di marcia & tiro. / A Lucerna lavorai una settimana.
/ Poi piantai. / A Oslo m’imbarcai / sbarcai ad Abadan / (veramente
disertai). / A Manila / avevo a disposizione / una Cadillac con
aria condizionata / e l’autista con guanti e cappello. / (Lei
era molto ricca). / A Lisbona / bevvi il vino verde / così
si chiama lo champagne. / A Kiel / in piena regata / Paf! / scuffiai.
/ A Specchia / (in Terra d’Otranto) / in una camera piena
di specchi / peccai con spocchia. / A New Delhi / mi curai / una
blenorragia. / A Roma / feci la Prima Comunione. / A Quito (Ecuador)
/ tre presidenti / m’invitarono / a prendere il tè
/ che poi era caffè. / A Erzerum / mi presentarono la sorella
/ del brigante Kocero. / A Parigi / portai fiori / sulla tomba di
Drieu. / Ad Alicante / visitai il carcere / di José Antonio.
/ Ad Agnano / presi a cazzotti un carabiniere. / A Città
del Messico / in Plaza Garibaldi / bevvi una spremuta / d’erba
alfa-alfa. / A Seoul / mi lasciai crescere / i capelli. / Ad Atene
/ persi l’aereo una seconda volta. / Ad Anzio, a Villa Borghese
/ smagliai le calze della mia ragazza / che era un’istitutrice
danese. / A Beirut / in una casa d’appuntamenti armena / mi
rubarono il baisenville. / Ad Ankara / mangiai un ottimo pollo alla
Kiev / nel Ristorante Sureya / (il maître d’hotel era
stato alla corte di Re Zog). / Ad Hong Kong conobbi Michiko / Principessa
Manchù di passaporto giapponese / l’anno dopo volai
a rivederla a Venezia / e fra tre mesi me la sposo a Puerto Rico.
/ Il mondo mi è diventato una stella. / Una stella filante».
Ernesto, quand’era in Salento, aveva sempre fretta di fuggire,
lasciarsi alle spalle la terra amata ma altrettanto negata. Aveva
voglia di dimenticare le offese, i nemici. Sentiva il bisogno di
sparire nel nulla, fuggire lontano portandosi dietro solo impressioni
salentine, o i rumori del ventre dell’oceano profumato di
donne ancora fresche e gonfie di selvatico candore.
Vedevo Ernesto allontanarsi, in direzione della Serra alta, sulla
strada per Lecce, quando era già sera, a volte d’estate,
altre d’inverno. Una volta lo vidi levitare, quasi un san
Giuseppe da Copertino, al di là di Gallipoli, verso gli orizzonti
di Copertino e anche verso quelli di Carpignano Salentino. Ernesto
levitava pure al di là di Lecce, oltre la Torre Belloluogo
di Maria d’Enghien, attraversava cieli hidruntini, pensava
(e viveva) luoghi magici, stregati. Levitava e rideva, e cantava
The best has yet to come: «Cosa diventerò?
/ Un albero ad Haiti / un’onda del Pacifico / un gabbiano
/ sullo Jonio / una nuvola in Giappone / una brezza alla regata
/ un verso in sanscrito / io / che non cambio mai?».
Quella volta Ernesto Barba scomparve all’orizzonte lasciandosi
dietro luoghi un po’ fuori mano per tutti. Non si trattava
solo di Lecce e neanche di Cavallino, ma un loro rione – Castromediano
– che perfettamente si rifà a quel Sigismondo della
sua/mia “Storia patria”, un nugolo di case di periferia
sulla vecchia via Malemnia Lecce-Cavallino o, se a voi più
piace, Cavallino-Lecce. Ernesto partiva per luoghi lontani da Gallipoli,
però una volta – per via dell’organizzazione
di un grossa catena di alberghi – gli capitò pure di
abitare sotto i cieli siciliani, da dove mi giunse il suo libro
di aforismi – A Sud di Palermo – edizione Karma
System, 1984.
Sul frontespizio scrisse: «Maurì, sperando che venga
a trovarmi: a Sud di Palermo. Ciao vastaso!».
Invece, in un altro foglio a parte, scrisse: «Se come dice
Jung: “Circostanze esterne non possono essere sostituite ad
esperienze interiori”, allora questi due anni passati in Sicilia
sono assolutamente insostituibili. Non c’è scampo dal
proprio personaggio, così, dopo vent’anni in Oriente,
ho vissuto in Sicilia: marca di frontiera, isola, territorio tribale.
Durante questi due anni ininterrottamente ogni giorno ho commesso
mentalmente adulterio, sospeso tra le due mitologie, tra l’isola
greca e la città mongola. E se queste note potessero scegliersi
una forma archetipale (molto all’ottativo) dovrebbero essere
un cestino pieno di kaki, frutti originari della montagna taoista
di Yang-ming-shan, ma che diventano più dolci e gustosi maturati
al sole di Sicilia (Sciacca, ottobre 1982 - Parigi novembre 1984)».
Non era facile vedere Ernesto scomporsi per dei problemi, neanche
per quelli seri italiani, perché per lui, c’era sempre
«... una spiaggia a Sud di Palermo dove ogni libro che leggi
diventa Magiko». Come magico gli sembrò l’Alto
Belice, del quale scrisse: «Ti sveglia il gallo / spacca
la legna / accendi il fuoco / spazza la cenere / va all’acqua
al pozzo / guadagna il pane. / Pane e fatica. / Pane durissimo.
/ Dura è la vita / se non hai un dio. / (Che Dio t’aiuta)».
Non ancora vinto dalla stanchezza di vivere, scrisse: «Le
muraglie della città (Siracusa): prima d’essere delle
opere militari sono soprattutto una difesa magica». E scrisse
pure che «La Sicilia, la costa jonica della Calabria e la
Terra d’Otranto passarono dal greco al volgare italiano saltando
il tramite del latino. Non è solo questione di semantica».
Quanto segue lo ha scritto Ernesto Barba, però io l’ho
fatto quasi mio, perché sempre ho creduto che «Tutti
abbiamo una Madre / la Grande Madre / che ci aspetta / lassù
sulla vetta / o in fondo all’abisso. / Come che sia, / quale
sarà la mia? / la nera prediletta / dai Varvara / Shavara
/ Pulinda / o vestita d’azzurro dell’etere / l’adorata
/ dagli Elmi / Apuli / Sicani».
(1
- continua)
|