Quest’Europa dei pentimenti ipocriti e dell’opulenza
diffusa, prima di giudicare
l’America,
dovrebbe rimettere ordine ed
equilibrio in casa propria.
|
|
Il primo maggio è la data che ha visto il Vecchio Continente
compiere un salto decisivo verso una più compiuta integrazione
europea. Ma il paradosso della novità sembra essere questo:
che, mentre l’Unione europea si fa geograficamente più
ampia, l’unità politica degli europei appare più
che mai problematica.
Accenniamo soltanto ad alcuni problemi irrisolti. Il più
visibile è rappresentato dalle polemiche, indecisioni e ambiguità
del Trattato costituzionale, faticosamente elaborato dalla Convenzione
presieduta da Valéry Giscard d’Estaing, e in seguito
non approvato (per non dire più esplicitamente “bocciato”)
da diversi Stati membri. Com’è stato notato, discende
e discenderà da qui una sequela di scompensi che rischieranno
di paralizzare, chissà per quanto tempo ancora, il funzionamento
dell’Unione allargata.
La spada di Damocle del veto, dell’assenza cioè del
voto a maggioranza, resterà sospesa sulle prossime roventi
decisioni comunitarie. Che, fra tante altre, sono queste: associazione
della Turchia collegata al rapporto europeo con l’Islam moderato
(con alcune clamorose eccezioni che non possono non preoccupare);
la questione serba collegata a quella sempre esplosiva del Kosovo;
i fantasmi della Bosnia-Erzegovina, della Macedonia e dell’Albania,
che ancora oggi vanno vagando per le zone grigie del Vecchio Continente.
Insomma: l’allargamento dell’Unione, privo di una valida
copertura costituzionale, di sicure regole decisionali, di chiare
strategie sui Balcani e sull’Islam, di programmi per una stretta
collaborazione militare, e privo inoltre di una condivisa disciplina
contabile nei confronti dei parametri di Maastricht, si sta –
almeno fino a questo momento – rivelando come un allargamento
puramente retorico sul piano formale e del tutto inadeguato su quello
operativo. Su tutto questo, inoltre, incombe l’ombra del massimo
problema: il rapporto con gli Stati Uniti.
Dopo le gravi complicazioni internazionali, prodotte dalla politica
della Casa Bianca nel Medio Oriente, si percepisce nell’aria
una convergenza tra forze conservatrici e progressiste europee.
A prescindere dal rozzo e populistico antiamericanismo delle estreme
destre e sinistre presenti in molti Stati membri dell’Ue, sarà
sufficiente accennare in merito all’alleanza di fatto, ideologica
e politica, che si è saldata fra zapaterismo iberico e neogollismo
francese di Chirac.
Nel momento in cui da più parti si sottolinea la necessità,
giustificata, di riequilibrare il sistema occidentale con una compresenza
europea più incisiva e più autorevole a fianco degli
Stati Uniti, la socialista Madrid e la neogollista Parigi che cosa
propongono? L’idea e l’immagine di un’Europa antagonista
piuttosto che partner dell’America. Occidente contro Occidente:
vale a dire un sistema occidentale spaccato anziché bilanciato
e ricostruito, sia pure criticamente, dall’interno.

Ma la realtà della situazione europea è ben lontana
dal consentire margini di gioco e di scelta, nei confronti dell’America,
tra una credibile opzione antagonistica e una di credibile e autentica
partnership. Lo è meno che mai, sul piano politico e militare,
dopo l’allargamento imperfetto del primo maggio 2004. Circa
metà della nuova Europa, quella che è arrivata “dal
freddo”, che è passata quasi senza soluzione di continuità
dai lager di Adolf Hitler ai gulag di Stalin, è decisamente
filoamericana e vede una garanzia alla propria sicurezza soltanto
ed esclusivamente sotto lo scudo della Nato. Non ha, per esperienza,
alcuna fiducia nella capacità d’intervento dell’Onu
e non prende sul serio le embrionali iniziative di una difesa incentrata
sull’asse franco-tedesco.
Il reale rapporto di forza tra Europa e America è, senza
ombra di dubbio, di uno contro dieci. A questo si aggiunga il lamento
autopunitivo degli europei più ricchi, che hanno posseduto
imperi coloniali, che hanno condotto guerre d’aggressione,
e che oggi sperano di distanziarsi dagli americani e di ingraziarsi
i terroristi islamici, obbedendo ai diktat dei manovratori dei kamikaze
e stracciandosi le vesti sui peccati trascorsi. L’Europa che
ha perduto la percezione dell’amico e del nemico, l’Europa
che piace agli antieuropei di destra e di sinistra, «l’Europa
della contrizione, del pentimento, della perpetua autocritica»,
come dice Alain Finkelkraut, non ha le carte in regola né
per opporsi all’America unilateralista né per ricongiungersi
su una piattaforma di parità con un’America convertita
al multilateralismo.

Quest’Europa dei pentimenti ipocriti e dell’opulenza
diffusa, prima di giudicare l’America che quasi da un secolo,
pur commettendo errori, versa un suo tributo di sangue alla libertà,
dovrebbe rimettere ordine ed equilibrio in casa propria. Allargarsi
non basta. Per ridimensionare la bilancia delle relazioni internazionali
dovrebbe riunirsi dopo essersi allargata, darsi un quantum continentale
di sicurezza difensiva, farsi temere dai terroristi che vorrebbero
trasformarla nell’emisfero malato dell’Occidente. Il resto
non è che resa, travestita con buoni sentimenti.
Fra l’altro, solo ora si sta prendendo coscienza che l’allargamento
verso l’Est è destinato a cambiare gli equilibri interni
e la stessa natura dell’Ue. Il fatto è che l’integrazione
è stata trattata, quasi fino alla dirittura d’arrivo,
più in termini contabili che con una chiara visione d’insieme
delle sue implicazioni.
In un primo tempo, i governi euro-occidentali avevano concepito
questo allargamento come un’iniziativa imposta soprattutto
da una situazione di emergenza. C’era da colmare un vuoto di
potere, aggravato dal collasso delle economie locali, che altrimenti
avrebbe generato (questo si temeva) un pericoloso focolaio di conflitti
intestini e di instabilità al centro del Vecchio Continente.
Successivamente, quando le cose si normalizzarono e la Germania
(non più preoccupata per la propria sicurezza a ridosso delle
frontiere tedesche) smise di premere il pedale sull’acceleratore
e venne anteposta la tesi dell’ “approfondimento”
a quella dell’allargamento, subentrò una sorta di tiro
alla fune tra Bruxelles e i governi centro-orientali sia sulle modalità
sia sulle sequenze del processo di ricongiungimento. Bruxelles intendeva,
a buon diritto, verificare come progredisse ad Est un effettivo
sistema democratico, insieme con il libero mercato; gli altri, impazienti
di bruciare le tappe, anche perché sospinti dal rischio di
incorrere, a causa delle drastiche riforme che avrebbero dovuto
attuare, in un’ondata di impopolarità pregiudizievole
per le loro nuove e ancor fragili istituzioni politiche.
In realtà, non è che a Bruxelles non si fosse consapevoli
del notevole impegno chiesto ai nuovi Paesi perché si allineassero
alle normative Ue. Tuttavia si credeva che bastasse a ripagarli
il diritto di accedere in un vicino futuro ai sussidi comunitari
in favore dell’agricoltura e delle aree più deboli.
Sennonché, pur confidando nell’acquisizione di tali
vantaggi, i Paesi che, affrancati dal giogo di Mosca, stavano percorrendo
faticosamente le tappe di avvicinamento alle sponde dell’altra
Europa, nutrivano aspettative più consistenti e ambiziose.
Ai loro occhi, l’integrazione avrebbe dovuto realizzarsi sulla
base di un’osmosi, di un processo interattivo, in modo che
essi potessero esprimere le loro istanze e concorrere su un piano
di parità alla definizione di una comune identità
europea. Era in particolare la Polonia a coltivare simili propositi,
anche perché aveva un peso politico ed economico (circa la
metà della popolazione e del Pil dei Paesi ex comunisti dell’Est
nel loro insieme) per far sentire la propria voce. Del resto, non
è che l’Ungheria o la Repubblica Ceca si accontentassero
di venire ammesse in Eurolandia dalla porta di servizio o si rassegnassero
ad esser considerate alla stregua di parenti poveri.
Nelle capitali occidentali si è finito così per non
tenere in debito conto il fatto che le nazioni centro-orientali,
entrando nell’Ue, intendevano legittimamente essere soggetti
attivi e compartecipi del processo di costruzione di una nuova e
più grande Europa; ossia di un’opera solidale da realizzarsi
in base a un reciproco rapporto di idee e di energie, di culture
e di orientamenti. Tutt’altro, quindi, che un mutamento di
scenario unidirezionale, circoscritto in una dilatazione a cerchi
concentrici dell’Europa dei Quindici, delle sue logiche e delle
sue geometrie.
Si è osservato, in seguito al pronunciamento di numerosi
Paesi mitteleuropei a favore della “guerra preventiva”
contro l’Iraq decisa da Washington, che essi costituirebbero
una sorta di testa di ponte degli Stati Uniti nel cuore dell’Europa,
a scapito della compattezza e dell’autonomia dell’Ue.
Ma certe loro propensioni filoamericane e il loro fervore atlantista
si spiegano col fatto (per lo più non percepito all’Ovest)
che la Russia è per i governi dell’Est un Paese vicino
troppo potente e pur sempre imprevedibile. D’altra parte, non
avrebbe potuto essere più improvvida quanto rozza e controproducente,
durante la crisi irachena, la sortita di Chirac, secondo cui i nuovi
venuti nell’Ue avrebbero dovuto «stare sugli attenti».

Quel che è certo è che oggi, ad adesione avvenuta,
non solo sono venuti al pettine determinati nodi di ordine politico,
ma sono emersi anche alcuni problemi che hanno a che vedere sia
con aspetti sociologici e con risvolti psicologici sia con prospettive
e linee di tendenza la cui complessità o incidenza non era
stata valutata appieno. Noi ne abbiamo messo in rilievo alcuni.
Ma tutti insieme ci suggeriscono che essere diventata territorialmente
più larga non significa essere diventata più grande:
quest’Europa ha bisogno di una fase di assestamento da realizzare
su un piano di trasparenza e di chiarezza ineludibili; e ha bisogno
di istituzioni decisionali forti e autorevoli. O tutto si ridurrà
ad una mera zona di libero scambio, cioè ad un’Europa
dimezzata, o, se si vuole, ad una non-Europa: quella che non avrebbero
mai immaginato gli spiriti fondatori dopo la tragedia del secondo
conflitto mondiale.
|