Una nuova storia da narrare.
Un nuovo
rincorrersi nel tempo.
Un perdersi
nellinfinito, questa volta, nel silenzio tantrico tibetano.
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Il suo sguardo fu sempre da grande cosmopolita, anche in quei due
anni in cui risiedette a Sciacca, da dove mi scrisse che «Il
più grande uomo di Stato che lItalia abbia avuto, piaccia
o no, è stato Crispi: il quale era sì nato in Sicilia
ma da genitori albanesi». Ed ancora, che «In Sicilia,
il Diavolo del Mezzogiorno esiste. Lho prima sentito, poi
visto e poi mi ha pure sfiorato. E non una sola volta. Assume la
forma di lucertola mediterranea: Salamandra ctonica che si nutre
non della combustione dellelemento fuoco ma della somma di
tutti i raggi quando il sole è allo zenit. Nei momenti in
cui leffetto combinato di sole e mare alleati alterano lo
stato di coscienza il ramarro appare».
Un giorno, Ernesto mi fece giungere dalla Sicilia una lettera dietro
laltra. In una di esse cera scritto: «Non chiedermi
sio sia a Marsala Sciacca Corleone. In Sicilia sono sempre
allintersezione tra la magia e la disperazione». E ancora,
in un suo personale Ricordo di Siracusa: «In giro per la vecchia
Ortigia. Tra una chiesa con la croce di Malta e un patio catalano
cè un palazzo in barocchetto, tutto melusine e tritoni,
fatiscente, vuoto. Mia moglie mi chiede: Ti piacerebbe vivere
qui e scrivere un libro? (Quale? De Diablo?, De Magia?, De
Magica Geographia?). No, forse prima. Ora non più.
E le stringo più forte la mano come ogni volta che sono sicuro
duna verità vera».
Dopo due anni di permanenza in Sicilia, a Sciacca, a sud di Palermo,
Ernesto ripartì nuovamente, volatilizzandosi nel nulla orientale,
forse in una bisca thailandese, o in un ritrovo cinese, in un bistrò
giapponese, in una storia infinita che sembra non stare mai in piedi.
Per un po di tempo scomparve dal mio orizzonte.
Gli spalti dei bastioni delle mura di Gallipoli non mi diedero la
gioia di vederlo o sentirlo per qualche lunghissimo mese. Ricordo
che il Malladrone interrogato a tale proposito rispose
di non sapere nulla di lui. A me era rimasta intanto la sua storia,
intrigatissima, soprattutto per via di quella sua Storia Patria,
che poi, in fondo, era anche la mia. Ernesto, in qualche posto del
mondo, continuava a vivere come in sospensione.
Fino a quando, una sera dinverno, una sera che faceva veramente
freddo e la tramontana spazzava ancora lantica città
fondata dallinfanticida cretese Idomeneo, con una busta intelligentemente
intestata e anche un po profumata dellodore di donna,
dallo Sheraton Nicolaus Hotel-Bari, Ernesto si fece risentire: «Attention,
le grand Barba est de retour en Asie. Il vous attend sur le toit
du monde à Holiday Inn- Lhasa, Tibet, Peoples Republic
of China; pour vous faire connaître tous les mystiques et
magiciens du Tibet... Maurizio, Maurizio, 3 mesi in Puglia e non
ci siamo visti. Io parto per il Tibet: ognuno ha un suo appuntamento
col destino. Mi spiace solo lasciare i Santi di Puglia. Un abbraccio».
Era il 15 luglio 1990 e nuovamente Ernesto ricominciava a volare,
questa volta su cieli diversi, e soprattutto cieli altissimi, i
più alti del mondo. Partiva una sua nuova avventura. Una
nuova storia da narrare. Un nuovo rincorrersi nel tempo. Un perdersi
nellinfinito, questa volta, nel silenzio tantrico tibetano.
Stranamente però, questa volta, invece che sentirlo più
lontano, lo sentii più vicino. Si trovava, è vero,
a Lhasa, sul tetto del mondo, città cinese dei buddisti lamaisti,
dominata dal Potala, sede celeste degli dei, e si sa che gli dei
sono sempre in ogni tempo e soprattutto in ogni luogo. Fu questo,
forse, e forsanche il suo desiderio di farsi poeta-dio, che
io, comune mortale, per di più materialista, e anche un po
agnostico, cominciai a sentirlo più vicino.
Il 30 dicembre 1990, Ernesto si fece finalmente sentire con tutto
il suo grande amore per la sua e mia e nostra terra. Scrisse: «Ora
che sono solo / nel freddo / lontano / vorrei avervi con me / San
Michele / San Nicola / San Cosimo e Damiano. / Vorrei avervi vicino
/ San Teodoro / SantOronzo / San Giuseppe da Copertino / Voi
che per regalo di Dio / Siete dello stesso paese mio. / Vorrei avervi
con me / per non essere più solo / per non aver più
freddo / e non avere più paura / felice / sicuro / beato
in mezzo a voi / nella solare pattuglia / dei miei Santi di Puglia».
Ancora il 10 gennaio 1991 mi giunse una gonfia lettera con dentro
una pregiata seta cinese dipinta a mano raffigurante due panda,
e una cartolina con su segnate queste parole: «Disse / il
Panda di Lassa / Senza il mio Maurizio / qui il tempo mai
passa... / mai passa...». In un altro angolo della stoffa,
alludendo ai due panda, scrisse: «Maurizio ed Ernesto che
si fanno un rosolio dalle parti di Soleto». Infine in un altro
angolo: «Maurizio, / me ne andai fuci fucendo. / Scusami.
/ Se mi aspetti / ritorno. / Un abbraccio».

E, subito dopo, il 25 giugno 1991, Ernesto mi spedì da Lhasa
uno stranissimo Certificato dellHimalaya Restaurant - Haute
cuisine on the Roof of the World. Su questa sontuosa carta filigranata
di ideogrammi cinesi rossi e neri con su impresso il Potala dei
Lama tibetani carta che io conservo come parte della carne
del mio amico perduto di suo pugno cè scritto:
«This is to certify that Mr. Maurizio Nocera has been the
guest Number One in this Temple of Castronomy, here on the Roof
of the World. Signed Ernesto Barba - General Manager Holiday Inn
Lhasa».
A questo affetto del cuore di Ernesto risposi come meglio potetti,
ma sicuramente il mio pacchettino con mortalissime cose salentine
non fece neanche in tempo a raggiungere il tetto del mondo che subito
mi vidi arrivare un altro pacco, questa volta nella forma di un
mandala su di una stoffa di un giallo mai visto e con su scritto:
«Raiseup your prayer flag Nocera, you are invited to the opening
of the Himalaya Restaurant the most beatifuml dining experience
in Tibet perhaps in the whole of Asia. Holiday Inn Lhasa may 30th
1991,
7 pm».
Io non so leggere bene un mandala, comunque su di esso riuscii a
percepire che Ernesto, con questa nuova stoffa, stava sperimentando
un percorso del quale ancora oggi tento di individuare i contorni.
Riuscii a percepire bene i segni zodiacali che erano impressi su
quel mandala e, qua e là, riuscii pure a rintracciare il
segno indistinguibile del mio sfortunato amico.
Per lui il tempo era divenuto ormai un concetto diverso da quello
mio, soprattutto nella sua dimensione cosmologica. Le mie risposte
alle sue domande non riuscivano più a stare con i suoi tempi.
Andavano tutte a finire fuori bersaglio e fuori tempo massimo.
Per questo cercai di rincorrere Ernesto come meglio potetti, ma
sentii di non farcela. Parlando di lui, qualcuno mi accennò
ad una sorta di nemesi storica, facendo allusione al fatto che Ernesto
aveva avuto a Gallipoli, agli inizi del 900, ben quattro morti
illustri. La morte di suo nonno Ernesto, suicida nel 1902, e di
lì a pochi anni, ben altre tre morti per suicidio degli zii
paterni Eugenio, Gustavo e Carmelo. Io lasciai perdere questa storia
della nemesi, e cominciai invece a rincorrere sia pure nella
lontananza come un matto Ernesto nella speranza di acciuffarlo
per la vita. Non pensavo affatto che egli potesse morire, oppure
che egli avesse il desiderio di morire. Lo sentivo ancora giovane
e al tempo non facevo ancora attenzione. Nella rincorsa affannosa,
però, perdetti anchio la cognizione del tempo e soprattutto
persi le cautele nei suoi confronti dovute alla nostra forte differenziazione
ideologica.

Non capii in tempo cosa gli stesse accadendo. Ernesto cominciò
così a sommergermi di carte e stoffe tibetane, sicuramente
lavorate in un angolo di uno dei tanti rifugi conventuali tantrici
del Potala, oppure semplicemente studiati allinterno del Lhasa
Hotel. Questa valanga di carte e di cose tantriche barbiane,
invece di darmi forza coscienziale, mi confusero un po.
Nellagosto del 1991, Ernesto si rifece vivo con uno strano
omaggio, formato da cinque pezzi di stoffa quadrati: azzurro, bianco,
rosso, verde, giallo. Su ognuno di essi cè impressa
una scena ideogrammatica cinese con al centro un cavallo bardato
di tutto punto e cavalcato da una sorta di fiamma, con le sue lingue
di fuoco svettanti verso il cielo. Sul quadrato verde Ernesto aveva
incollato una carta con su scritto: «On the occasion of the
Grand Opening of the Dop Dop Noodle Shop all the nuns and monks
of Lhasa are invited to join the party. You to Maurizio Nocera.
August 12, 1991, 6:30 pm, Firecracker start». Stavo per prendere
laereo e volare verso quei cieli azzurrissimi del mio sfortunato
amico, ma fui annebbiato dalla paura del vigliacco e mi fermai sulla
strada che dalla Grottella di san Giuseppe da Copertino porta a
Lecce e a Brindisi.
Nel marzo 1992, unaltra gonfissima busta giunse da Lhasa.
Dentro unincomparabile sciarpa di finissima seta color ocra.
Profumatissima, di un profumo molto strano, che difficilmente si
smorza nel tempo (Ernesto mi dirà poi che è una stoffa
Magika, che per molto tempo è stata attorcigliata alla vita
di una dolce fanciulla di Lhasa. Lui mi ha detto che è una
stoffa che ha a che fare con i forti sensi del basso ventre. Questa
sciarpa, con la relativa lettera che laccompagnava, lho
donata ad Eugenio Barba, fratello di Ernesto, il 14 novembre 2002,
in occasione della rappresentazione del suo spettacolo Mythos, presso
il teatro Koreja di Lecce).
Nella busta di Lhasa, però, cera ancora dellaltro,
in particolare su una carta cinese filigranata con simboli rosso
sangue. Su di essa Ernesto aveva scritto: «Dear Maurizio,
happy tibetan new year of the water monkey!!! from all the 683 multi-ethnic
staff of the Holiday Inn Lhasa. The orange Khatag: never to be used
for mere mortals but for welcoming the most revered Living Buddhas
or for the most honoured and aristocratic guests...».
Le mie risposte a tutte queste lettere io non le ho più,
e non so che fine abbiano fatto. Ad un certo punto del lungo rapporto
epistolare, gli spazi fra me ed Ernesto cominciai a sentirli lontanissimi
come spazio, ma vicinissimi come sentimenti.
Di lui continuarono a giungermi foto, ambienti, panorami, storie,
quando di donne, quando di monaci, di santi tibetani, di panda.
In un pacchetto, che non riesco a capire come abbia fatto ad attraversare
una distanza così lontana, mi giunse un preziosissimo pugnale
tibetano. Uno di quei piccoli pugnali con il fodero dargento
e foglia doro incastonato di pietre colorate verdi e rosse
(credo trattarsi di lapislazzuli e rubini).
A stretto giro di posta arrivò un altro pacchetto, con allinterno
unaltra sorpresa. Bellissima: due timbri tibetani in pietra
dura (credo alabastro) su ognuno dei quali rispettivamente
vi è scolpito il mio nome e cognome. Linchiostro,
scelto non casualmente da Ernesto, è rosso incandescente.
Nonostante il Tibet e laltitudine di Lhasa, Ernesto trovò
ancora il tempo per ritornare in Europa, passare dalla Puglia, da
Lecce, da Gallipoli, da Copertino, da Carpignano Salentino. Io gli
stavo dietro solo per il tempo dei suoi riti, delle sue passioni,
devozioni, amori, poi mi appartavo, non volevo disturbarlo, o quanto
meno fargli perdere il soffio della vita e il battito del cuore
di gabbiano che era in lui.
A volte, Ernesto arrivava in Salento accompagnato da favolose amiche
mozzafiato. Ne ricordo una, di Parigi (o almeno così diceva
lei), che camminò assieme a noi per le strade di Lecce facendo
girare la testa a non pochi uomini. Siamo nel 1992, e nonostante
la grande capacità di mascheramento di cui era in possesso
Ernesto, mi accorsi che in lui si stava facendo strada una disperazione
più grande del pianeta.
Lo vidi scomparire di nuovo. Tornò a Lhasa, al The Grand
Hotel. Cominciò a farsi risentire con lettere, pacchettini,
amuleti, altro ancora. Il tutto senza dimenticare la sua piccola
patria, il Salento, Gallipoli, Lecce, san Giuseppe da Copertino.
Mi scrisse che per lui «Lecce è sempre una delle capitali
della mia geografia intima» e che «Essere nato in Salento
/ un tormento di scelta / come offerta darchetipo. / Essere
chi? / il frate in estasi / volante alto / sopra le torri, le mura
/ il Palazzo / oppure / appiedato nel Capo / raccontare culacchi
/ come Papa Galeazzo».
E ancora, in Lecce by night: «Quella notte a Santa Croce /
solo quiete, niente vento. / Lei vestita tutta in rosa. / Il trionfo
della gioia / del barocco del Salento». Oppure, in Le Porte
di Lecce: «La Porta San Biagio / ti porta al Capo. / Adagio
adagio / Finibus Terrae / è la fine del viaggio. / Da Porta
Rudiae / dove vai vai, vai bene / cè SantOronzo
che ti benedice. / (Nel caso mio / dove andai andai lo fece). /
Porta Napoli / come il nome dice / porta a Napoli, bella città.
/ (Sulla Via Ferdinandea / in una villa vesuviana / Olimpia e Violante
/ profumo di zagara e pasciuli / odore di cioccolata peruviana /
suonano larpa e il piano / un po di Pergolesi, del Paisiello
/ forse sinventano Satic / e aspettano. / Mi aspettano perché
/ lasciai lì / il mio spadino e il mio kepì). / Io
invece / passato Gallipoli Soleto Copertino / scelsi il mio destino
/ scegliendo Porta San Martino. / Da qualche secolo non cè
più: / portava a San Cataldo / Derentò Corfù
/ Istanbul Antalya / Passo Khybee Varanasi / Lumbini Kathmandu.
/ Io naturalmente/ sempre fuori tangente / andai oltre. / Sempre
più sù / sempre più fuori-Lecce/ sempre di
più».
Con queste sue poesie, Ernesto cominciò a rivelarsi sempre
più un autentico salentino. Nella poesia Leccese nella guarnigione
cinese scrisse: «Dopo i lampi / dopo i tuoni / folgorato tra
i dragoni / mi ricordo / gli after-loves / senza tempo / senza spazio
/ fuso insieme / a Sugar Shu. / Mi ricordo / la tenente / (in tutti
i sensi / volontaria) / dellArmata Proletaria / Lei-Lei Shu.
/ Straordinaria / mi ricordo / La sua rosa: / con un petalo / (o
era un sepalo?) / di più».

Ernesto era un grande sognatore. Si illuminava con un niente, spaziando
e rientrando in un mondo lontano, alto nel cielo.
Il 4 febbraio 1992 ricevetti questa lettera: «Caro Maurizio,
nessun lavoro in Lhasa oggi, capodanno dellanno della Scimmia.
Lalbergo con 12 clienti. Laeroporto chiuso fino alla
settimana prossima. Vivo in un limbo assoluto a meno otto sotto
zero e stonato (nel senso nostro dialettale) nella maniera più
radicale. Ti scrivo come se alzassi il radiatore (cosa che non si
può) per avere un poco più caldo (i piedi, Maurì,
li petuzzi, perché anche con 3 paia di calze termiche ti
fanno male. La notte è diverso, cè sempre
solo silenzio e gemiti la striazza di turno anche se nessuno
parla: il mio tibetano è solo mantra religioso, il loro inglese
inesistente). Innanzi tutto ti devo un grazie incredibile. Un giorno
dovrò veramente (ma poi poco dovrei essere serio) nominarti
mio agente-Pr ufficiale. Lo sai che stai inventando la leggenda
del Rimbaud salentino? Io che scrivo poesie o per combattere la
malinconia (in francese cafard) o per ricordarmi una battuta di
pizzica-pizzica dun tratto mi hai fatto diventare personalità
addirittura con pagine intere sul Quotidiano dei poeti! Che destino
per un hotelier dellindustria alberghiera coloniale! Grazie
Maurì, perché senza volerlo così mi hai inserito
in una maniera o in unaltra ma in una maniera molto
bella nelle radici di casa nostra: casa ahimé abbandonata
perché assunto larchetipo maggiore dellEmigrante
errante. Ma solo gli Emigranti hanno un rapporto invisibile con
la propria terra: metà tà fisica! Devo proprio tornare
dalle parti nostre: terre magiche pure se la Sacra Corona Unita
imperversa e il Lecce va in Serie B. Taccludo qualcosa che
ho scritto qui. Ti mando solo roba di casa, ultimamente sono in
pieno viaggio esoterico: sto preparando la mia tesi per il dottorato
sulla storia delle religioni orientali e vivo in unatmosfera
tantrika totale. A proposito, ho tradotto le poesie del VI Dalai
Lama (che oltre che essere un Dio rincarnato, fu un libertino maestro
nostro e ebbe una vita da gatto, cioè 9 vite). Ne esistono
solo traduzioni (pessime) due in inglese e una (ma parziale e disgraziata
kitch) in francese. Sono molto strane, a metà tra lo stornello
erotico e il sutra classico. Vuoi che te le mandi? Sto preparando
un libretto con introduzione come regalo per i miei amici. Il fatto
è che a Lhasa non ci sono tipografie. Ciao Maurì.
Un abbraccio. P.S.: Come si chiama il tuo amico che mi ha fatto
pubblicare lintera pagina con foto?».
Quellamico era Antonio Verri, ed Ernesto lo conobbe quella
volta che venne a trovarmi di notte fonda in una Lecce destate
afosa e sitibonda. Anche Antonio rimase affascinato da Ernesto e
posso assicurare che lo stesso effetto lo ebbe Ernesto di Antonio.
Ricordo il mattino in cui, seduti in un bar hidruntino, i due parlarono
quasi tutta lintera notte. Non finirono mai di bere o sorseggiare
del vino (io e Verri), birra leggera o altra bevanda analcolica
per Ernesto. Quella notte, per la verità, vidi questi due
straordinari poeti salentini studiarsi vicendevolmente, come libri
aperti e sfogliati, con i loro anni di vita, la loro disperazione
dentro, il loro lavorìo contro il tempo, il loro tormento
coreutico, la loro smania di vento, il loro spazio retato, la loro
voglia di fuggire, il loro starmi accanto e farmi lentamente morire
assieme a loro.
Un giorno di festa, era giugno 1992, arrivò unaltra
lettera con una nuova sorpresa. Io e Antonio Verri stavamo impazzendo
alla ricerca di un tassello per un Declaro senza nome e senza dimora.
Ernesto ci venne in aiuto in extremis con un suo Vecchissimo Sud.
Ci scrisse: «Licenze dallievo ufficiale. / Viaggiavamo
in seconda classe / sulla Gallipoli-Lecce / come sul Trans Europa
Express / (Parigi Vienna Istanbul) / Ade du! Harmonica Zuq! / A
Pasqua scapolavano le campane / A Natale la Kleine nacht musik della
Pastorale / Destate il mare sapeva dalga di sale. /
La vita una trovatura da trovare. / Questo prima / che lAids
arrivasse / La mafia vincesse / e il Reame finisse».
Poi Ernesto riprese un suo motivo di sempre, il Salento.
Sapevo che da anni inseguiva tutto ciò che si diceva e faceva
sul Magiko Matteo Tafuri di Soleto. Mi scrisse Soleto: «Tu
/ gelato di vaniglia / mantiglia di Siviglia / cavadduzza senza
briglia. / Specchio Magico che dici tu? / Tu, / la luna ti somiglia.
/ Buonestate Maurì».
Il 26 settembre 1992, pensai che Ernesto era sicuramente felice
nel silenzio sulla più alta vetta del mondo, tra i suoi amici
tantrici e le splendide bellezze allacqua di rosa. Eppure,
mi giunse da Lhasa un suo appello alquanto disperato: «Grazie
per linvito alla Masseria san Martino (Maglie). Sarà
tra poco spero. Io termino il mio contratto qui in Tibet il 15 novembre.
Due anni passati così... Il mio prossimo lavoro avrà
come base lItalia anche se mi occuperò soprattutto
della parte estera e sarò quindi spesso e per lunghi periodi
oltremare: il che significa che sicuramente farò qualche
puntata in Salento. Dici Lhasa: te lo ricordi il Deserto dei Tartari?
Bè, io sono non il tenente Drago ma il vecchio (ho già
58 anni suonati, quindi pure troppo vecchio per fare il colonnello.
Tutti i miei colleghi della Nunziatella o sono generali a due stelle
o in pensione. E io continuo, tattìmberi tattìmberi,
a fare la vita degli zingari) colonnello. Lhasa ha 40 mila tibetani,
40 mila cinesi come popolazione civile e 120 mila soldati. Caserme
da tutte le parti. La mia vita è scandita dai segnali di
tromba dellesercito cinese. Siamo solo 5 europei in tutto
il Tibet (e tutti lavoriamo allHoliday Inn). Ogni tanto succedono
casini (irridentismo, indipendentismo, separatismo, chiamalo come
vuoi, quando i tibetani fanno a mazzate coi cinesi) e ci rinchiudono,
per 3-4 mesi senza notizie, agli arresti domiciliari in hotel. In
teoria non si dovrebbe andare a donne locali, abbiamo addirittura
firmato un affidavit in merito: ma Lhasa, essendo per definizione:
Freddo, Altitudine & Solitudine, nessuno onora questa firma.
Allora se lo scoprono, ti mandano una settimana in campo di ri-educazione
a piantare alberi. Ti ricordi che disse Tagore? Ogni uomo
nella sua vita dovrebbe avere un figlio, scrivere un libro e piantare
un albero. Bà, un libro di canzonette lo scrissi, figlio
e figlia a Dio piacendo li ho avuti, ma mai avrei creduto che avrei
obbedito alle istruzioni di Tagore in Tibet: gli alberi che ho piantato...
messi in fila a doppio filare farebbero la Gallipoli-Lecce. Quindi,
a seconda del termometro se fa meno zero, la mia vita qui è
fatta di periodi di grande libertinaggio (con lapproccio tribale
dei locali che ti trasforma il tutto in un corso dantropologia
sessuale) e di grande lavoro spirituale. Ero venuto qui per quello
in definitiva: quindi studio molto (ho preso a maggio scorso il
mio Ph. D. in Buddismo esoterico alla Sorbona), poi il freddo ti
manda in tilt e poi ricominci di nuovo. Ma ancora 48-49 giorni e
torniamo in un mondo normale. E così ti ho raccontato Lhasa,
dove il tempo mai passa, mai passa. Caro Maurizio, stammi bene:
ora che anche la festa dei Santi Medici è passata, siamo
alle porte dellinverno. Citiamo un grande: Dieu La Rochelle
(Dio! Che maestro di vita): Jattends la fin de lhiver».
Ho continuato a rispondere alle sollecitazioni di Ernesto, ma francamente
non so che fine hanno fatto tutti i miei messaggi. Dopo quellultima
lettera del settembre 1992, Ernesto Barba continuò a farsi
sentire ancora con qualche messaggio, soprattutto con delle cartoline
volanti. Una di queste, dellottobre 1992, porta scritto: «Sono
a Taiwan per 3 mesi (uniche donne le aborigene tutte tatuate,
che esperienza!). Tra poco torno in Italia, ma riparto per lAlgeria.
E tu? Vastaso non scrivi mai. Un abbraccio». Ma come che non
scrivevo mai? Ad ogni sua lettera, rispondevo immediatamente, ma
forse comincio a crederlo ora il suo continuo muoversi
in ogni parte del mondo sicuramente avrà deviato anche parte
della mia corrispondenza.
Da quel momento Ernesto cominciò a disorientarmi, a farmi
perdere le sue tracce. Anni dopo, ho capito che forse egli aveva
intuito da sua madre il mio impegno a fargli dimenticare quella
nemesi storica che lo attanagliava alla gola: quei suoi
avi morti suicidi.
Continuai a vederlo continuamente spostarsi. Ad una amica, un po
borghese e ammiratrice di Mao Tse-tung, che in quel tempo si trovava
a passare dalle parti del Tibet, le dissi di andare a trovare Ernesto.
Fu onesta, tentò di farlo, ma di lei mi giunse solo questo
messaggio: «Maurizio, mi dicono che è già ripartito.
Che faccio? Riparto anchio?».
Improvvisamente Ernesto mi ricomparve nella forma di un voluminoso
pacco. Era il novembre 1992. E oggi impossibile per me elencare
tutte le cose che Ernesto ci aveva messo dentro. Comunque, conservo
ancora una pietra, verdissima, che a tenerla in mano ti provoca
dei pruriti sulle dita (io non conosco questo tipo di cose e, soprattutto,
questo tipo di pietre; in Salento non ci stanno di certo). Ernesto
laveva infilata in una stoffetta tibetana color amaranto.
Cera poi una lunghissima sciarpa di seta color ocra, anche
questa profumatissima con nel mezzo lindicazione che era stata
attorcigliata per lungo tempo sui fianchi di una fanciulla tibetana,
la quale, secondo Ernesto, viveva a Lhasa al di sopra di tutti gli
altri tibetani, cioè al di sopra, nel senso che
era molto alta. Questa sciarpa stava attorcigliata (ancora oggi
è così) a uno stranissimo libro, targato Francesco
Marra, che solo Ernesto poteva pensare. No, forse lavrebbe
potuto pensare anche Antonio Verri. Il pensiero vola a quella volta
in cui vidi Ernesto con Antonio confabulare a Giurdignano, allincrocio
dello stradone di campagna che porta al menhir di san Paolo. Comunque,
questo strano libro-oggetto, Ernesto laveva dato in regalo
(per il Natale 1992) ai suoi amici. Sulla copia destinata a me,
Ernesto aveva scritto: «Ai nomadi sconosciuti che (lo) fecero
dormire quando faceva così freddo nelle loro tende lassù
nellAltopiano in mezzo a mogli e figli».
In questo strambo libro, Ernesto aveva elencato anche le motivazioni
dellardita scelta di andare a vivere alcuni anni della sua
vita in un modo che poteva sembrare così traumatico. Per
questo aveva scritto: «E bene dopotutto per la mia carriera
essere il direttore dellalbergo più difficile del mondo.
Voglio preparare un Master sullinfluenza dello Shivaismo sul
Vajtayana. Voglio essere testimone dello scontro tra questi due
dinosauri, il Lamaesimo e il Marxismo Maoista. Mi iscriverò
al Collegio Tantrico di Sera, per studiare i loro rituali. Noblesse
oblige lunico europeo dopo il Gesuita Ippolito Desideri, anno
scolastico 1714-1716. Voglio imparare dalle prostitute sacre i segreti
della Mano Sinistra. Voglio tentare di diventare un Bodhisattva».
Alle poche donne che conoscevano bene Ernesto, «tenendole
la mano, molto sotto voce, flirt continuo», egli diede questa
risposta: «Vado in Tibet per cambiare. Bella mia ti prometto
che sarò un altro quando tornerò».
Una versione tutta speciale la dette anche a sua figlia: «Anindita,
sullHimalaya cresce un fiore che fa diventare i bambini buoni.
Speriamo chio riesca a trovarlo e la finirai dessere
così tremenda».
Ernesto scrisse anche di aver avuto «cura di non dire la verità
vera, cioè che il Tibet era magico e che (avrebbe) vissuto
lesperienza delluomo tantrico: lincontro col Noumenico
e lInvisibile, il tête à tête collArchetipo».
La sua è stata una Lhasa «piena di nomadi e di pellegrini,
profumata del ginebro delle offerte votive». Raggiunta a metà
autunno, «dopo aver passato unestate in Puglia: Frisa
frisella / che estate bella / passai con te / donna Teresa mia /
mia Teresella. Unestate passata tra una festa patronale
e laltra a contatto con i Santi di Puglia che sono grandi
amici, tutti venuti dallaltra parte dello Jonio come gli amici
greci di Kolonnaki e Pireo, del Kerkira e del Fanar, gli amici ela
pedakimu sempre con un bouzouki a portata di mano per cantare
quella summa teologica che è la canzone dei fumatori dhashish
o quellaltra del ragazzo ricco ora colle pezze nei pantaloni
per colpa duna femmina... gineka tako assi... che poi scoprii
non è altro che un inno allAnicca, che in sanskrito
è limpermanenza, una delle tre caratteristiche dellesistenza
umana».
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