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Ho avuto modo di conoscere (e di parlare con) persone nate alla
fine del secolo XIX, quelle che allo scoppio della Grande Guerra
avevano ventanni o poco più, e che avevano visto morire
sugli altopiani del Nord-Est italiano decine di migliaia di coetanei,
in armi per redimere le terre e le città dominate
dagli austro-ungarici. E poiché queste decine (alla fine
centinaia) di migliaia di gioventù bruciate erano in buona
parte originarie del Centro e del Sud dItalia, a quella sulle
basi storiografiche si aggiungeva unaltra mia domanda:
Comè stato possibile che si sia entrati quasi freneticamente
in quel mattatoio spalancato, quando da Vienna giungevano segnali
di trattative per risolvere pacificamente, in cambio della neutralità
italiana, le nostre rivendicazioni territoriali? .

Sarajevo 1914: lattentato del 28 giugno di Gavrilo Princip,
i funerali a Trieste dellArciduca e della moglie, gli strappi
cardiaci del luglio successivo, la corsa affannosa di mezza Europa
alla mobilitazione... Quei giorni e quegli avvenimenti restano un
enigma. Le vere, profonde, cause sono ancora oggi immerse in un
cono dombra. Qualcuno ha paradossalmente ipotizzato: forse
cera un eccesso di cultura della pace, e cerano
troppa letteratura, troppa arte, troppa scienza, troppo cosmopolitismo,
troppe meravigliose Esposizioni Universali. Questa saturazione da
bellezza, prosperità, eleganza (le donne della Belle Epoque:
funeree, sublimi, freudiane, di cui sarebbe valsa la pena occuparsi)
può aver marcato su tutto il ben noto ai Greci oltrepassamento
della misura, colmato lEuropa di peccato di Hybris imperdonabile,
e costretto Nemesis a mettere la pistola nelle mani dellattentatore
serbo, il quale non avrebbe mai immaginato, spegnendo due vite simboliche,
che cosa stava per far succedere, lincendio del mondo?
Quando labisso chiama, con voci misteriose che trovano echi
e interpreti nella parola, nellimmagine e nei suoni, lobbedienza
è inevitabile? Certo, il suicidio dellEuropa fu esemplare.
E fu agevolato dai Trattati. La Russia proteggeva la Serbia. Nel
1912 la Francia aveva stretto un patto segreto con Mosca-San Pietroburgo
per riprendersi Alsazia e Lorena perdute nel 1870. Il kaiser Guglielmo
smaniava di arrivare a Parigi sperimentando sulla pelle umana le
migliori artiglierie del mondo e portando al fronte le truppe grazie
a una rete ferroviaria che non aveva uguali in Europa. Guerra-lampo
(blitzkrieg) uguale vittoria certa. Bastava passare
attraverso il Belgio, piombando sulla Marna. Ma alle spalle del
Belgio cera lInghilterra di Giorgio V al suo apogeo:
era il caso di sfidarla, per poi dissiparsi nelle ignobili trincee
delle Fiandre? Era il caso di far macellare la meglio gioventù
continentale? Ed era il caso che lEuropa attirasse nella pania
delle sue turpitudini unAmerica refrattaria, che poi non sarebbe
più riuscita a togliersi dai suoi tentacoli?

Nel 1914 cominciò il secolo breve. Un anno dopo, a guerra
mondiale dispiegata, Reiner Maria Rilke scriveva alla principessa
Marie von Thurn Taxis-Hohenlohe: «Era questo, mi chiedo cento
volte, era questo il peso che premeva orribile su di noi negli ultimi
anni, questo futuro spaventoso che è ora il nostro crudele
presente? Qualsiasi cosa succeda, il peggio è che quellinnocenza
di vita in cui siamo cresciuti non tornerà mai più
per nessuno di noi».
Lillusione inquieta della Belle Epoque si prolungava allora
nei folli anni Venti, lungo i quali sembrava che molti
smottassero incauti e volontariamente ciechi per un mutamento senza
ritorno e foriero di nuove catastrofi. Sedi geografiche di questo
clima culturale, politico e psicologico tanto complesso, Parigi
libertina, la Vienna della finis Austriae, la Germania
di Weimar. A Montmartre ancora oggi cè il Lapin
agile, locale degli anni Dieci celebre per essere stato anche
raffigurato da Utrillo: era un ritrovo di artisti, uno dei luoghi
tipici della Belle Epoque di stile francese, taverna e luogo dincontro
di pittori, scrittori, intellettuali, da Modigliani a Francis Carco,
dallo stesso Utrillo a sua madre Suzanne Valadon.
Era il periodo, prima della guerra del 14, in cui trionfavano
nellarte e nella vita mondana le prime donne del
palcoscenico, la cantante Lina Cavalieri, lattrice Sarah Bernhardt
che Proust immortalerà nella Recherche col nome
la Berma, Eleonora Duse interprete del teatro di Cechov,
di Shaw, di DAnnunzio. Le Esposizioni Universali avevano già
creato il mito del progresso tecnico senza soste e senza confini:
nelle metropoli circolavano le prime auto, le vetrine dei primi
Magazzini Generali erano lesempio tattile di una distribuzione
commerciale che realizzava il salto di qualità verso una
più ampia società di consumatori già bombardata
dalla pubblicità.
Anni 30. Il musicista-scrittore Bruno Barilli, che a Parigi
visse a lungo negli anni finali del secondo decennio del secolo
scorso, come molti intellettuali di quellepoca, offre memorie
vivaci della Belle Epoque, del suo tramonto e della crisi dopo il
primo dopoguerra, descrivendo la trasformazione subita dalla sala
del Moulin Rouge: «La storia di questo stabilimento è
scritta da un pittore umorista sui muri... La sala che venne rinnovata
pochi anni fa era più ristretta a quei tempi... la spavalderia
francese simpegnava, come in una mischia, nei lancieri
che allora eran di moda. Ai comandi di un direttore di quadriglia
gli ampi mantelli scarlatti degli spahis fluttuavano, e gli zuavi
dai lunghi baffi a punta e dal pizzo alla Napoleone III avanzavano
a scaglioni tenendo per la mano le loro belle dai cappelli di paglia.
Sciami di brillanti ufficiali dal petto coperto di medaglie portavano
là dentro un soffio di gloria coloniale. Irresistibili megere,
tra uno sfolgorio di guerrieri, tiravan su le gonne e si abbandonavano
ai parossismi del cancan
Fu dopo larmistizio che capitai
per la prima volta in questo luogo. Cera passata la guerra,
la febbre spagnuola, poi sera abbattuto il fuoco bianco, la
nevicata leggera degli stupefacenti
Unangoscia solenne
regnava nella casa. Colavano tutti con una acquiescenza collettiva
verso lorlo di un mondo che finisce, quei danzatori, e sembravano
poeti condannati a morte, spoglie di preti che vanno alla deriva
Oggi la mise en scène è la stessa
ma la clientela
è cambiata
Il dopoguerra è finito
con tutte le sue prodigalità e i suoi vizi
La grandezza,
lo stoicismo pauroso di quella folla che un impeto di distruzione
trasfigurava, tutto è scomparso. Adesso si vivacchia là
dentro. Il piccolo ceto trionfa... Un ordine borghese e una rigorosa
economia presiedono quei festini... Il cancan è finito».
Una nostalgia analogamente disincantata nelle pagine che Joseph
Roth dedica alla Vienna della Belle Epoque: «Regnava allora
sul mondo una pace profonda e insolente. Sui giornali della monarchia
si leggevano notizie della corte e notizie mondane...». Il
valzer, le operette, la musica degli Strauss inducevano a pensare
che il vecchio imperatore Francesco Giuseppe regnasse su dei sudditi
impegnati solo nelle danze. Ma basta leggere i libri di Musil e
le poesie di Rilke per rendersi conto dellinquietudine generale;
e tuttavia nessun centro internazionale indicava meglio di Vienna
la vera sociologia del primo quindicennio del secolo:
fu allora che si realizzò il passaggio da una società
aristocratica a una società capitalistica, con ladozione
da parte della seconda delle abitudini della prima. Ciò fu
possibile in un clima di euforia dovuto a una vasta circolazione
di denaro, alla sensazione generale di aver trovato un equilibrio
durevole nei rapporti internazionali. La facilità dei trasporti,
i grandi alberghi, lo sport, la passione per il teatro e per le
feste avvicinavano gruppi sociali assai diversi per educazione e
origine. Si creò per la prima volta su scala planetaria una
sorta di internazionale dei gusti e del piacere facilitata
dalla diffusione dei settimanali illustrati con fotografie: linaccessibilità
della vita di corte lasciò il posto alla vita del grande
albergo internazionale, della metropoli o della stazione di villeggiatura,
dove si sfoggiavano automobili e abiti di grande sartoria: i creatori
di moda, soprattutto parigini, divennero personaggi del bel mondo,
e, come il celebre Paul Poiret, davano feste da mille e una notte.

Ovunque, ormai, a Parigi, a Vienna, a Berlino, come a Londra e
a New York, «piaceva il superuomo e la natura bruta, si adorava
la salute e il sole, ma anche la delicatezza delle fanciulle minate
dal mal sottile; ci si entusiasmava per il credo eroico e per il
credo sociale della piccola gente; si era credenti, scettici, naturalisti,
ricercati, forti e malaticci; si sognavano i viali di un vecchio
castello, giardini autunnali, stagni vitrei, pietre preziose, hascisc,
malattie, nature demoniache, ma anche praterie, orizzonti grandiosi,
officine di fabbro e di fabbrica, lottatori nudi, rivolte di schiavi,
coppie umane primigenie e la distruzione della società».
Secondo queste parole di Musil (da Luomo senza qualità),
cè dunque ununità nella molteplicità
contraddittoria, una febbre comune piena di impulsi
confliggenti.
La Belle Epoque venne prima della Grande Guerra, prima della Rivoluzione
Russa, prima del periodo doro del cinema e del boom dei mass
media: in seguito, con lesplosione di questi eventi, le attese
e le contraddizioni si polarizzarono. Non mutò totalmente
il clima: gli anni Venti folli e nostalgici somigliavano
alletà che li aveva preceduti, con questa differenza:
mentre prima nessuno sapeva veramente che cosa stesse per succedere,
dopo lindirizzo del futuro era segnato. Si leggano le pagine
con le quali Svevo conclude La coscienza di Zeno, scritto
dopo il primo conflitto mondiale, tenendo presente che il tempo
della narrazione apparteneva al 1916: «La vita attuale è
inquinata alle radici. Luomo sè messo al posto
degli alberi e delle bestie ed ha inquinata laria e impedito
il libero spazio. Può avvenire il peggio. Il triste e attivo
animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre
forze. Vè una minaccia di questo genere nellaria.
Ne seguirà una grande ricchezza nel numero degli uomini...
Chi ci seguirà dalla mancanza di aria e di spazio?... Locchialuto
uomo inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se cè
stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre
manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano
e luomo diventa sempre più furbo e più debole...
La legge del più forte sparì e predomina la selezione
salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del
possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie
e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli
ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno
più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una
stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile,
in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno
considerati quasi innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche
lui come tutti gli altri, ma degli altri un po più
ammalato, ruberà tale esplosivo e sarrampicherà
al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà
essere massimo. Ci sarà unesplosione enorme che nessuno
udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà
nei cieli priva di parassiti e di malattie». Questa, leredità
che gli anni Venti lasciarono al secolo XX e, per echi non spenti,
ai nostri giorni.
Era un universo che moriva. Nel passaggio fra 800 e 900
la fotografia si trasformava in cinematografo: simultaneamente,
cambiava la percezione visiva e conoscitiva degli uomini. Per usare
le parole di Bergson, il filosofo preferito da Proust, «dinanzi
allo spettacolo di questa mobilità universale, alcuni di
noi saranno presi da vertigini. Il fatto è che sono abituati
alla terra ferma; non possono abituarsi al rollio e al beccheggio.
Hanno bisogno di punti fissi ai quali appendere il pensiero e lesistenza».
Non era più possibile il riferimento a un oggetto statico
della conoscenza nel senso positivistico del termine. Si scopriva
allora che il dato e il documento non erano loggetto, ma il
frutto di una determinata procedura di osservazione che poteva distruggere
il conforto della certezza e dellevidenza immediata. Di conseguenza,
le scienze matematiche, la geometria in particolare, attraversarono
la più grave crisi di identità della loro storia.
La negazione del quinto postulato di Euclide (nel piano, per un
punto esterno ad una retta r si può condurre
una e una sola parallela a r) aprì la possibilità
di ammettere molte geometrie non euclidee, tutte perfettamente
funzionanti purché si rinunciasse alla intuizione sensibile
normale.
Ma, come nel Rinascimento, era la sconvolgente immagine del
mondo offerta dalla fisica a trasmettere ai non addetti ai
lavori (ora diventati masse, non più gruppi ristretti e acculturati)
il sentimento dellinstabilità, della problematicità
del reale. Era capovolta lidea di un universo, pur copernicano,
ma sempre uguale a se stesso, indipendente dal sistema di riferimento
scelto per guardarlo e dallintervento dellosservatore.
Nel novembre 1911, Ernest Solvay, lindustriale belga produttore
della famosa soda, su suggerimento del fisico tedesco Walther Hermann
Nernst, organizzò un consiglio di 21 eminenti fisici europei
che si riunì a Bruxelles per dibattere sulla nuova fisica
quantistica: si trattava di registrare una rivoluzione avvenuta.
Nel 1878, anno in cui il tedesco Max Planck aveva scelto come argomento
della sua tesi di laurea alluniversità di Monaco la
termodinamica, (dottrina della conservazione, trasformazione
e dissipazione dellenergia), il docente relatore poteva ancora
sconsigliargli lattività di fisico perché la
scoperta dei principii termodinamici compiuta da Rudolf Casius e
William Thompson nel 1850-70 «aveva posto la parola conclusiva
alledificio della fisica teorica». Erano bastati meno
di trentanni perché proprio Plank, dapprima deciso
antiatomista, dimostrasse che non solo la materia era atomica, ma
anche la luce. La natura, dunque, fa salti: lirradiazione
della luce non avviene in maniera continua, ma come a gocce, in
singoli quanti, che si muovono con la velocità
della luce e sono misurabili nella loro quantità di energia,
nel peso e nelle dimensioni. La differenza qualitativa
fra etere e materia lasciava il posto a
una differenza quantitativa. Daltronde, a fare
in modo che il nuovo universo fisico fosse sempre meno concepibile
in immagini comuni, nel 1905 era comparsa la prima formulazione
della teoria einsteiniana della relatività. E poco tempo
prima, nel 1903, i coniugi Pierre Curie e Marie Sklodowska avevano
isolato dalla pechblenda un nuovo elemento, il radio, e una misteriosa
energia, la radioattività, che avrebbe colorato il secolo
maturo con i suoi bagliori apocalittici.
Era ormai al tramonto definitivo anche la fede nellesistenza
di norme fisse, naturali, a cui, come la conoscenza, anche i comportamenti
umani dovessero far capo: nel passato, la nascita di nuovi
mondi e nuovi sensi comuni dalla crisi dei vecchi era stata
il prodotto di uno sforzo di risistemazione lento nel tempo, tale
da apparire quasi immobile a chi non avesse una diretta e specifica
pratica intellettuale. Nei primi ventanni del 900, invece,
i cambiamenti, sempre più veloci e macroscopici, erano sotto
gli occhi di tutti: la scienza era ancora unavanguardia del
senso comune, ma la sua distanza dal volgo era pressoché
cancellata dallinformazione di massa.
Qualche testimonianza diretta. Stephan Zweig sottolineava in Il
mondo di ieri letà doro della sicurezza
borghese-aristocratica nella Vienna Belle Epoque: «Tutto sembrava
destinato a durare in eterno nella nostra monarchia austriaca quasi
millenaria... La nostra valuta, la corona austriaca, circolava sotto
forma di lucenti monete doro, e appariva così assolutamente
inalterabile. Ognuno conosceva lammontare del proprio patrimonio,
sapeva quanto gli spettasse, che cosa era permesso e che cosa proibito.
Ogni cosa aveva norma, misura e peso ben definiti
Tutto era
saldo e inamovibile, al posto giusto in quel vasto regno, e al posto
più alto cera il vegliardo imperatore
Nessuno
pensava a guerre, rivoluzioni e sovvertimenti. Radicalismo e violenza
sembravano ormai impossibili nellera della ragione».
Ma dietro la facciata borghese di quella che poi sarà definita
finis Austriae, Musil vedeva qualcosa di più:
«Nessuno sapeva veramente che cosa stesse per succedere; doveva
nascere forse unarte nuova, un uomo nuovo, o sarebbe avvenuto
un capovolgimento dellordine sociale?... Dovunque insorgevano
gli uomini per lottare contro ciò che era antiquato... Fiorivano
ingegni che in altri tempi soffocavano sul nascere, e individui
che in altri tempi non avrebbero partecipato alla vita pubblica».
E se il ministro francese dellindustria, inaugurando lEsposizione
del 900, poteva affermare: «Le forze della natura furono
domate e disciplinate; il vapore e lelettricità diventarono
servi docili; la macchina divenne regina del mondo; lorganismo
di ferro e dacciaio ha scacciato il lavoratore di carne e
dossa facendolo suo ausiliare... La scienza moltiplica i suoi
servigi e trionfa dellignoranza e della miseria»; era
anche ben fondato quanto diceva ancora Musil: «Attraverso
il groviglio delle fedi alitava, come un solo vento che piega tanti
alberi, uno spirito di setta e di riformazione, la coscienza felice
di una rottura e di un nuovo inizio...». Uno spirito diffuso,
alla ricerca di un nucleo intorno al quale aggregarsi, prima che
si delineasse laspetto più vistoso del «risveglio
del mondo dallincantesimo» di cui avrebbe parlato Max
Weber, il quale, lucidamente scettico, avrebbe tentato di limitare
la crisi dellegemonia borghese. Non a caso la sua ricerca
rigorosa di un fondamento scientifico per la sociologia è
stata spesso paragonata al pensiero e alla filosofia negativa di
Nietzsche, mentre lipotesi freudiana dellinconscio era
certamente il punto focale di una più vasta e articolata
riflessione di ordine psicologico.

In analogia con lindagine scientifica della più intima
dimensione delluomo, anche la letteratura e larte si
interessavano sempre più di settori psichici fino ad allora
trascurati anche dal filone tradizionale del romanzo psicologico:
sogni, desideri, ansie, ricordi dinfanzia sepolti, conflitti
e disagi interiori, nevrosi, fobie, psicosi divennero argomento
privilegiato di una letteratura che abbandonava i grandi affreschi
ottocenteschi (Manzoni, Hugo, Tolstoj di Guerra e pace,
ecc.), per dedicarsi allanalisi di un individuo che non sapeva
più di esistere come unità e forma continua nel tempo.
Al sorgere del secolo e lungo gli anni che avrebbero condotto alla
Grande Guerra, i romanzi di Gide, e poi, con taglio molto diverso,
di Proust, in Francia; il teatro di Joyce e La coscienza di
Zeno di Svevo sconvolsero le coordinate psicologiche e larchitettura
razionale della narrativa naturalista e verista. Il personaggio-uomo
si deforma ed esplode, è il pirandelliano Uno, nessuno
e centomila; la sua memoria è scissa in ricordo convenzionale
e inutile, diventando illuminazione involontaria di una nuova durata
psicologico-sensibile, un proustiano tempo ritrovato e perennemente
reversibile. Egli è inetto (Svevo), incapace
di scelte attive, malato di indecisione, e non comunica se non la
coscienza di non poter comunicare.
Già nel 1902 Hugo von Hofmannsthal, scrivendo limmaginaria
Lettera di Lord Chandos allanziano Francis Bacon, coglieva
poeticamente il senso di una crisi definitiva del linguaggio: «Le
parole astratte, di cui la mia lingua deve necessariamente servirsi
per esprimere un giudizio, si sciolgono nella bocca come funghi
marci... Tutto si rompe in frammenti, sempre più piccoli,
e non posso afferrare più nulla con un solo termine. Le parole
mi vagano attorno, si materializzano in occhi che mi guardano
».
Del resto, linsufficiente comunicabilità e limpotenza
conoscitiva e poetica della parola erano state dichiarate in anticipo
sui tempi dal simbolismo francese dopo Baudelaire, soprattutto,
negli anni Novanta del XIX secolo, da Valéry.
Se i cultori della parola letteraria erano sempre più consapevoli
della inadeguatezza dello strumento, non meno profonda si rivelava
la crisi espressiva degli altri linguaggi artistici, dalla musica
alla pittura. Già Wagner, con il Tristano e Isotta,
dopo aver frantumato lo schema dellopera lirica, trasformando
le sue creazioni in Wort-Ton-Drama, (dramma di musica
e parole), cioè in rappresentazioni di teatro totale in cui
lelemento poetico fosse generatore della dimensione musicale
e scenografica, aveva iniziato la deformazione del sistema tonale
mediante luso del cromatismo e dellenarmonia. Wagner
moriva a Venezia nel 1883, mentre era di nuovo Vienna ad assumere
il primato della tradizione e insieme della più ardita innovazione
nella cultura musicale europea, anche se non va dimenticata, in
Ungheria e fra Pietroburgo e Parigi, la presenza simultanea di altri
due giganti del modernismo musicale, Bartók e Stravinskij.
Nel giro degli anni fra i due secoli, ma soprattutto dal 1906, si
disegnarono i contorni della Scuola di Vienna. Animato da Schonberg,
teorico dapprima della atonalità e poi della tecnica dodecafonica,
e costituito da Berg e Webern, il cenacolo musicale austriaco impostò
una rivoluzione proprio rileggendo la tradizione, di cui le grandi
architetture sinfonico-corali di Mahler parvero portare allestremo
limite i tratti. Aleggiavano, alle spalle di questi nuovi protagonisti,
i profili di Nietzsche e di Schopenhauer. La lezione mahleriana
sulla funzione fondamentale del silenzio nella struttura
della composizione sembra molto vicina alla concezione schopenhaueriana
della morte dellarte.
Unanaloga crisi di linguaggio attraversarono, nello scorcio
tra i due secoli, le arti figurative, particolarmente la pittura.
I centri dellinnovazione su scala europea saranno ancora la
grande Vienna e la vulcanica Parigi. Nella capitale dell800
e dellimpressionismo era stato fondato nel 1903 il Salon dAutomne,
nel quale, due anni dopo, si registrò la nascita del termine
fauves, con uno dei primi scandali dellavanguardia
figurativa parigina. Nella sala in cui esponevano Matisse e Derain
si trovava una piccola scultura accademica, davanti alla quale un
critico tradizionalista esclamò: «Donatello parmi les
fauves!». Il termine spregiativo venne accolto come una bandiera
dai componenti del gruppo, che in realtà trovavano un terreno
comune più nelluso acceso e dissonante del colore che
non in precise dichiarazioni programmatiche. E interessante
notare che una fase fauve si manifestò anche nei maggiori
cubisti, e che daltra parte molti fauves finirono per approdare
nel cubismo. Ma anche a proposito del più noto movimento
rivoluzionario della pittura del 900 non è facile parlare
di un preciso programma-manifesto. Picasso, infatti, amava ripetere:
«Quando abbiamo fatto del cubismo, non avevamo alcuna intenzione
di fare del cubismo, ma solo di esprimere ciò che era in
noi».
La visione impressionistica del grande ciclo franco-belga nelle
sue vibrazioni luminose aveva colto appunto morbide
impressioni sulle cose che apparivano al lampo balenante della luce:
rendeva con grazia leffimero, limmediatezza passeggera
delle emozioni, la frantumazione minuta delle cose lungo gli attimi
dellilluminazione. Ma già Cézanne, stanco dei
fremiti istantanei di quella luce, ne aveva bloccato gli eccessi
con una solidificazione geometrica, o per meglio dire, con una ricostruzione
della forma per piani geometrici. Questa operazione mentale stava
allorigine della scomposizione/ricomposizione cubista: così
come lintensa ricerca finale di Monet rivelava una tendenza
allastrattismo, che sarà guardata attentamente dal
polo viennese di Kandinskij e del Cavaliere Azzurro (Der Blaue Reiter).
Monet, infatti, con un progressivo distacco dagli elementi più
naturalistici del paesaggio, giunse a una dissoluzione pressoché
totale delle forme oggettuali e dei profili umani; il magma di colore
fu una via lirica ed emotiva verso la distruzione delloggetto,
una risposta di origine tardo-ottocentesca al problema che inquietava
cubisti, astrattisti, avanguardie dogni tipo: come combattere
la convenzionale, massificata e consumistica civiltà
dellimmagine che la Belle Epoque fotografica, tecnologica,
rotocalchistica, e poi cinematografica, aveva costruito
come una gigantesca ragnatela di condizionamento culturale, impalpabile
e inavvertito.
Furono tuttavia Picasso e Braque a dar vita alla più radicale
mutazione del linguaggio pittorico. Gli anni fatidici per i cubisti,
come del resto per lastrattismo, furono quelli tra il 1907
(data delle Demoiselles dAvignon picassiane, scandaloso
e già cubista ritratto di un gruppo di prostitute) e il 1910/12.
La visione pittorica si solidificò intorno ai volumi barbari
e primordiali da idolo africano: il clima si fece rituale, la deformazione
dei tratti naturalistici divenne unaspra ma grandiosa visione
della vita. Anche in Braque loggetto, preso dal reale quotidiano,
aperto dallinterno per scoprirne tutte le sfaccettature, venne
vivisezionato, rischiò la totale frantumazione, ma resistette
e rinacque come emblema di un modo inaudito di sperimentare la realtà.
Come lartista amava ripetere: «La scienza rassicura.
Larte è fatta per turbare».
Sul finire del XIX secolo, nella maggior parte dei Paesi a sviluppo
avanzato, il campo teatrale sembrava, fra tutte le forme darte,
quella maggiormente dominata da un gusto medio borghese: non senza
le eccezioni, che finiscono per confermare la regola. La scena era
lo strumento ancora centrale nella formazione dellimmaginario
della middle class (sarà necessario giungere agli anni Venti/Trenta
del secolo successivo perché subentrasse il cinema) e nellorganizzazione
del divertimento serale. Palcoscenico e platea erano i due poli
dialettici di un rito, insieme mondano ed estetico, di un segno
di appartenenza a un ceto e a unideologia.
Non era più tempo di tragedie, ma di una commedia borghese
che aveva per temi fondamentali avventure e disavventure di patrimonio
o di cuore, espresse in un arco emozionale che oscillava fra il
melodramma patetico e il grottesco di quella forma di rappresentazione
tipicamente Belle Epoque che si usa definire vaudeville.
Era ancora Parigi, infatti, a fornire il repertorio vincente per
il gusto medio e convenzionale: mentre la critica dissacrante della
società, la malattia dello spirito e della carne,
il tramonto di unepoca, la deformazione di inquietanti personaggi
in cerca dautore, erano i temi che al palcoscenico giungevano
da Shaw, Ibsen, Cechov, Pirandello, solo per citare i maggiori.
La scossa più violenta venne dalle proposte-manifesto del
Futurismo. Lavanguardia iconoclasta, capeggiata da Marinetti,
aggredì i palcoscenici con le Grandi Serate Futuriste:
non più la riproduzione mimetica normale degli
intrecci quotidiani, ma un approccio senza mediazioni con
la modernità e la contemporaneità attraverso
nuovi generi di recita: «Le battute in libertà, la
simultaneità, la compenetrazione, il poemetto animato, la
sensazione sceneggiata, lilarità dialogata, latto
negativo, la battuta riecheggiata, la discussione extralogica, la
deformazione sintetica, lo spiraglio scientifico, la coincidenza».
La guerra, i regimi rivoluzionari e quelli totalitari ridaranno
alla quotidianità una dimensione spettacolare di masse in
movimento, epico-eroica, in alcuni casi autentica, in altri di pura
propaganda, contribuendo comunque alla maturazione di nuovi sperimentalismi,
con Gorkij, Majakovskij, Wedekind, Toller, Piscator, mentre
allorizzonte si profilavano la figura e lopera di Brecht.
In quarantanni era cambiato il colore del cielo e della terra.
La seconda rivoluzione industriale non aveva riguardato solo le
nazioni già industrializzate, ma anche Paesi come lItalia,
la Russia, lAustria, la Scandinavia, e soprattutto gli Stati
Uniti e il Giappone. Nuove fonti energetiche, come il petrolio e
lelettricità, prodotti come lacciaio e lalluminio,
invenzioni quali il telefono, il telegrafo e il motore a scoppio,
posero le basi del mondo moderno. Nuovi tipi di banche, aziende
gigantesche e alleanze monopolistiche sostituirono le più
tradizionali istituzioni economiche, di tipo familiare. I cicli
positivi o negativi delleconomia divennero di respiro planetario.
Le materie prime erano assicurate dai Paesi colonizzati. Il boom
demografico favorì migrazioni di massa e inurbamento. Nacquero
i conglomerati industriali e, per converso, i quartieri operai e
proletari. Cambiò il volto delle città: dapprima fu
liberty e déco, poi, per reazione, fu razionalismo architettonico
con Le Corbusier, Loos, Gropius e la scuola del Bauhaus. Walter
Benjamin parlò di «mutazione antropologica della nostra
età», con le abitudini, il pensiero e i costumi imposti
da treni più potenti e veloci, con la rete ferroviaria europea
quadruplicata, con navi sempre più grandi, che solcavano
tutti gli oceani, con giganteschi dirigibili, con biciclette, tramvie
e automobili, e con gli aerei che accorciavano tempi e distanze.
Fu questEuropa, ricca di pensiero e di scienza, a precipitare
nel baratro della Grande Guerra, quando i proiettili di Sarajevo
la colpirono alla testa. Al cuore sarebbe stata colpita con il secondo
sterminio mondiale, quando, fatte le prove generali di strategia
e di tecnologia nella guerra di Spagna, furono mobilitati 60 milioni
di uomini per fare del Vecchio Continente terra bruciata. Dopo il
18 erano caduti gli Imperi Ottomano, di Germania e dAustria-Ungheria.
Dopo il 45 si disgregarono quelli coloniali inglese e francese.
Quello sovietico, di stampo ottocentesco, si sarebbe avvitato da
sé nell89. Lasse della storia era inclinato a
occidente, con gli Stati Uniti gendarmi del mondo.
E venne il tempo dei revisionismi, cioè delle nuove (e più
veritiere) interpretazioni storiche. Se, tra gli anni Settanta e
Ottanta, negli Usa, cinema e letteratura hanno del tutto modificato
il giudizio generale sulla conquista del West, sulle sanguinose
campagne contro i nativi e sulla guerra ispano-americana, nel Regno
Unito sono emerse non poche feroci vicende che furono alla base
del dominio britannico in India e nelle colonie africane, e si è
attribuita a Londra la maggiore responsabilità dello scoppio
della Grande Guerra. In Israele alcuni storici hanno affermato che
la nascita dello Stato, nel 48, fu macchiata dalla violenza
contro i palestinesi, costretti con la forza ad abbandonare i loro
villaggi. In Germania sono stati ampiamente documentati i saccheggi
e gli stupri di massa perpetrati dai liberatori dellArmata
Rossa. In Francia gli studiosi hanno messo in rilievo il consenso
di una larga fascia della società al regime filonazista di
Vichy. Alcuni personaggi che erano stati onorati (Churchill, Pio
XII, e Stalin più di chiunque altro) ora sono visti in una
luce diversa...
E in Italia? Dopo gli anni Sessanta, alcuni storici hanno riscritto
la storia del Risorgimento e della nostra espansione coloniale in
nome della quale si fece ricorso ai primi bombardamenti aerei della
storia (in Libia, nel 1911), alluso del gas (in Etiopia, nel
1936) e alla strategia delle rappresaglie. Abbiamo saputo delle
insorgenze popolari nelle province italiane conquistate dalle armi
bonapartiste. I testi sul primo conflitto mondiale offrono oggi
versioni diverse e contraddittorie di uno stesso avvenimento. Si
è alzato il velo sulle vicende delle foibe, in unIstria
che il presidente americano volle consegnare a Tito in cambio di
una presa di distanza della Jugoslavia da Mosca.
Di più. Ci si è chiesti come mai solo da noi si sia
costantemente verificata unanomalia di alcuni fattori. Si
sono date varie risposte, alcune oggettivamente realistiche. In
primo luogo, lUnità fu realizzata con una serie di
annessioni e di ambigui plebisciti, e contro la volontà del
più antico potere della Penisola, quello della Chiesa cattolica.
In secondo luogo, il giovane Regno fu teatro, nelle province meridionali,
di una vera e propria guerra di secessione che fu troppo lunga e
accanita per essere definita semplicisticamente lotta al brigantaggio.
In terzo luogo, fummo lunico tra i Paesi vincitori a registrare,
negli anni 20, una guerra civile che Sergio Romano ha definito
di bassa intensità, che alla fine sfociò
nella Marcia su Roma. Da ultimo, fra il 43 e il 45 abbiamo
combattuto unaltra guerra civile, la terza in meno di cento
anni. Come mai? Istruttivo il confronto con quanto si verificò
negli Stati Uniti. Lì il Sud accettò la sconfitta,
ma continuò a coltivare la memoria della propria identità,
archiviando tuttavia i propri ricordi allorché capì
che la vittoria del Nord e limpetuosa crescita che ne seguì
stavano distribuendo straordinari benefici a tutto il Paese. Non
così da noi. La Grande Guerra aveva riacceso rancore sociale
e dissenso politico, e la Seconda aveva riaperto tutte le piaghe.
Sicché ancora oggi, Europa o non Europa, la guerra
continua: in centocinquantanni di Unità, generazione
dopo generazione, ci si trascina dietro il ricordo di partite non
ancora concluse e di conti non ancora regolati.
LEuropa che è venuta fuori dal secolo breve ha realizzato,
come ai giorni della Belle Epoque, un formidabile progresso scientifico
e tecnico, oltre che economico e sociale. Luomo occidentale
è sceso sulla Luna, ha accorciato il tempo aumentando la
velocità delle comunicazioni, ha raggiunto progressi fino
a poco fa impensabili nella medicina e nelle aspettative di vita,
nei diritti umani, nella protezione sociale, nel complesso ventaglio
delle libertà individuali e collettive. Disparità
ci sono, e forse non può essere diversamente. Ma si è
raggiunto un livello di benessere sconosciuto nel passato. Viaggiamo
infinitamente di più, godiamo di maggior tempo libero, studiamo
tutti quanti, spendiamo cifre consistenti in beni voluttuari, possediamo
prime e seconde case, frequentiamo spiagge esotiche palestre cinema
teatri stadi come mai nel passato, acquistiamo milioni di televisori,
telefonini e computer... Possediamo tanto (troppo?) di tutto, mentre
altri popoli (Giappone, Tigri asiatiche, Cina, India, Brasile, ecc.)
realizzano spinte innovatrici potenti, venendo alla ribalta della
storia contemporanea come protagonisti e comprimari, non più
come masse informi di categorie subalterne.
Le tappe di questa nuova Europa. 1951: nasce la Ceca, Comunità
del carbone e dellacciaio, fondata da sei Paesi, Belgio, Francia,
Germania Federale, Italia, Olanda e Lussemburgo. 1957: il Trattato
di Roma istituisce la Cee. 1973: ai Sei si aggiungono Danimarca
e Regno Unito, seguiti dalla Grecia. 1986: entrano Spagna e Portogallo.
1995: è la volta di Austria, Finlandia e Svezia. 1992: il
Trattato di Maastricht introduce nuove forme di cooperazione e severe
regole finanziarie. 1994: libera circolazione di persone, merci,
servizi e capitali; con Schengen cadranno anche le frontiere. 2002:
inizia lera dellEuro (restano fuori Inghilterra, Danimarca
e Svezia). 2004: Ue a 25, con lingresso di Cipro, Malta, Repubblica
Ceca, Estonia, Lettonia, Ungheria, Slovenia, Lituania, Slovacchia
e Polonia. Future candidate, Romania, Bulgaria e (più problematica)
Turchia. Sotto osservazione speciale la Croazia.
Ma, partita dagli ideali dei Fondatori, che Europa è, questa,
a 25? In sintesi. Quando la Patarina, la campana del
Campidoglio, annunciò la nascita del Mercato Comune, gli
inglesi crearono un contraltare, lEfta, zona europea di libero
scambio, con Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e
Svizzera. Londra contava sul crollo del Mec, ma fu lEfta ad
avvitarsi. Allora gli inglesi chiesero di entrare nellaltra
Europa, riservandosi in seguito la facoltà di opt out,
cioè di restar fuori dallEurogruppo che aveva adottato
la moneta unica. Erano convinti di rappresentare un polo portante
dellasse privilegiato Inghilterra-Stati Uniti, una partnership
ostile a un futuro federale europeo. I francesi, dal canto loro,
avevano già fatto colare a picco la Ced, la Comunità
europea di difesa, poi erano usciti anche dalla Nato. Caduto nell89
il Muro di Berlino, lazione di Parigi volta a realizzare una
leadership francese sullEuropa si trasformò nel sogno
renano di un direttorio franco-tedesco, ma in perfetto stile
napoleonico.
Lideale europeo aveva radici antiche. Data almeno ai Piani
di pace perpetua dellAbbé de St. Pierre, e siamo nel
1700: lunificazione del Vecchio Continente era anche allora
la condizione per arrivarci. Ma lidea dEuropa è
ancora più antica della modernità. Comè
stato riconosciuto dalla ricerca storica, bisognerebbe ripartire
da certi fremiti che percorsero popoli e culture nel Medioevo, quando
lEuropa non era, come invece nel Seicento, una semplice indicazione
geografica, ma era indicata con il termine Christianitas.
Ma questa parola, Cristianità, che sembra così perentoria,
ha irritato la sensibilità pelosa di politici e intellettuali
continentali secolarizzati. E paradossale, ma storicamente
e culturalmente Cristianità equivale a pluralismo. Rispetto
allAsia e al dispotismo orientale si è sempre contrapposta
(mille volte contraddetta, ma sempre presente come aspirazione)
la way of life europea, proprio per la sua essenza di
libertà. E stato il pluralismo dei governi, a cominciare
dagli anni della lotta per le investiture e delle tensioni fra Chiesa
e Impero, a suscitare la nascita della libertà occidentale.
Essa è il prodotto involontario della limitazione delle sovranità,
che hanno sempre lasciato spazio ad altri attori.
I residui non secondari di quelle sovranità, tra i 25, sono
rimasti inalterati, grazie alla conservazione del diritto di veto,
che esalta lo spirito conservatore degli Stati-nazione. Coloro i
quali lo hanno voluto sono prigionieri degli aspetti più
fallimentari della storia europea, e non è facile ipotizzare
che non lo sapessero. Si richiamano alla storia americana, ma in
cuor loro sono convinti di imitare storie ben più nostrane,
storie molto europee di dissoluzioni statuali. La libera e indipendente
Polonia ci rimise libertà e spazio di manovra dal giorno
in cui introdusse nella Costituzione il liberum veto
e cominciò a farne, tra il 600 e il 700, un uso
dapprima sistematico e poi autodistruttivo. La clausola consentiva
ad ogni deputato di interrompere le sessioni parlamentari con la
frase Non permetto: precisamente come possono fare oggi
i Paesi dellUe. Ogni trattativa si interrompeva quando un
deputato accampava il veto, e fu questa clausola che portò
il Paese alla rovina, alla spartizione, infine alla scomparsa per
oltre centoventanni. Ed è significativo che le potenze
che intendevano controllare i destini polacchi (Russia e Prussia)
a tutto erano disposte, tranne che allabolizione di quel veto
immobilizzante. Il liberum veto aprì la strada
a quella che il patriota Tadeusz Kosciusko chiamò finis
Poloniae, la fine dellindipendenza e poi della stessa
nazione polacca.
Impressionante il silenzio di Varsavia, oggi, su questa norma che
rischia di suggellare allo stesso modo la finis Europae.
A conferma, questo, che vi sono potenze, dentro e fuori Europa,
che vogliono indebolirla proprio ora che ha vinto la sua battaglia
post-guerra fredda ed è cresciuta negli spazi. Non a caso
esulta Parigi, che persegue la sua stolta politica di grandeur.
Ed esulta Londra, sostenendo daver vinto la battaglia, come
esultano gli Usa, che su Londra e Varsavia puntano per dominare
su un continente nientaffatto marginale per loro, e tanto
più prezioso quanto più diviso. Un continente senza
visione politica, senza spada comune, senza moneta uguale per tutti.
Ma con inno, bandiera e obbligo di unanimità. LEuropa,
sebbene a 25, è ancora ferma qui.
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