Ed eccole lì, ora, queste costruzioni con le finestre come
occhiaie
desolate, con gli ingressi violabili, con gli interni
fatiscenti. Luoghi della memoria
per tanti di noi,
ancora oggi. |
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Sono i luoghi dei nostri ricordi, dei ricordi di tutti: quelli
che ci fanno ancora battere il cuore, perché assomigliano
agli amori più tenaci. Sono i luoghi che – è
stato scritto – con il trascorrere delle stagioni, con il
volgere degli anni, possono mutare pelle, come i rettili dell’illusione,
ma commuovono sempre in modo eguale: evocano, con un brivido dolce-amaro,
il sapore e l’ombra del tempo, ma simultaneamente rassicurano,
perché là dove ha abitato la nostra memoria non ci
sentiremo mai stranieri a noi stessi, mai alieni alle nostre radici.
L’elenco di questi affetti disegna una sorta di “geografia
dell’anima”: l’Italia del paesaggio e dell’arte,
che non deve essere necessariamente la più eccelsa, ma che
comunque maggiormente ci affascina e ci coinvolge. E’ l’Italia
che vorremmo vedere migliorata perché, spesso, certi luoghi
cari sono stremati o vinti dall’abbandono e dall’incuria.
Il Fai, (Fondo per l’ambiente italiano), possiede le cifre
di un censimento che registra i siti più amati dalla gente,
ma che troppo spesso sono stati dimenticati dalle istituzioni. Il
censimento è il risultato di segnalazioni fatte da oltre
novantamila persone per altrettante aree, al novanta per cento luoghi
d’arte, per il restante dieci per cento riferite ad angoli,
scorci, recinti di natura. Da sottolineare un dato di fatto: questo
straordinario censimento ha riguardato zone in cui erano presenti
agenzie di una banca di interesse nazionale; e sebbene le cifre
siano quadruplicate rispetto alle rilevazioni precedenti, si comprende
bene che le segnalazioni potrebbero essere di gran lunga superiori
alle novantamila, se fossero contattati anche cittadini di città
e centri abitati in cui quell’istituto bancario non è
presente. Il che vuol dire che ben altre cifre emergerebbero, se
le consultazioni potessero riguardare gli oltre ottomila comuni
italiani, invece del migliaio, o poco più, in cui sono attive
le duemila agenzie dell’istituto finanziario in questione.
Il lungo registro nato dall’iniziativa vede al primo posto
per numero di segnalazioni Villa Arconati di Castellazzo di Bollate.
Le origini di questa splendida dimora lombarda risalgono al Seicento:
il suo primo nucleo si deve al marchese Guido Cusani, esattore delle
tasse per conto del governo spagnolo. Galeazzo Arconati la ampliò
e la abbellì, riunendovi anche importanti opere d’arte,
fra le quali diversi “fogli” di Leonardo. I suoi giardini,
un giorno conosciuti da tutto il mondo, erano animati da ingegnosi
giochi d’acqua. Questo grandissimo edificio, che risulta essere
la più imponente dimora gentilizia dello Stato di Milano
fino alla costruzione di Villa Reale di Monza, venne messo all’asta
una decina d’anni fa e acquistato da una società. Oggi
è completamente in rovina con i suoi decori e lo straordinario
salone da ballo affrescato dai fratelli Galliari, scenografi del
Teatro alla Scala. Si è soliti definire questa magnifica
residenza un “miracolo seicentesco”, che sfavilla ad
appena un quarto d’ora dal capoluogo della più ricca
regione italiana.
Segue, per numero di segnalazioni, la Masseria Rossi di Volla, in
provincia di Napoli, la cui struttura primitiva risale con ogni
probabilità alla fine del XVI secolo. Del tutto ristrutturata
e nobilitata, offriva magnifiche prospettive di cortili e un complesso
arricchito da una cappella settecentesca. Non per nulla, nata, appunto,
come masseria, era stata poi residenza per lo svago e il prestigio
della nobiltà partenopea: gli ambienti, distribuiti su ben
quattro piani, erano ornati con finiture in cotto, con maioliche
e con preziosi marmi. Abbandonata dopo il “passaggio”
dei garibaldini che entravano in Napoli, completando la conquista
del Sud, questa residenza fu saccheggiata a più riprese.
Attualmente è in piena, ma recuperabile, decadenza.
E il pensiero non può non andare al grande reticolo di masserie
che costellano non poche regioni meridionali, dalla Basilicata alla
Puglia, dall’Abruzzo e dal Molise fino alla Campania e alla
Calabria. Furono centri di economia curtense, garantirono lavoro
e prodotti agricoli non solo per l’autoconsumo, furono vitali
centri di rotazione delle colture e, in ultima analisi, nel bene
e nel male, emblemi della civiltà contadina meridionale,
i punti più alti dell’organizzazione economica rurale
del Sud. Fino a quando il boom economico che caratterizzò
l’Italia degli anni Sessanta aprì le cataratte delle
migrazioni, che spopolarono le campagne, o quanto meno ne alleggerirono
cospicuamente il peso demografico. Pian piano, allora, le masserie
vennero abbandonate, anche perché non avevano saputo, o potuto,
tenere il passo con i tempi per la penuria d’acqua da irrigazione,
di elettrificazione rurale, di macchine agricole, di strade di collegamento,
insomma delle reti di beni e di servizi senza le quali il settore
primario era comunque destinato a imboccare la via del tramonto.

Sono state adottate, facendole tornare centri pulsanti di vita,
quelle che sono contigue al mare, e che pertanto si animano solo
per pochi mesi, quelli estivi, e per qualche week-end. Le altre,
quelle – numerosissime – dell’entroterra, sono
in rovina, non apprezzate da chi si è costruita una delle
pretenziose “ville” con recinti (innaturali) di abeti
che con i loro stili promiscui ed estranei alla cultura mediterranea
del Sud maculano le periferie dei centri abitati meridionali. Crollano
irrimediabilmente le antiche masserie, sparsi e dispersi i loro
arredi, perduti gli strumenti di lavoro, saccheggiate le pietre
lavorate per le esigenze della famiglia, per le stalle, per il decoro
dei diversi ambienti. Un immenso patrimonio litico, ma anche di
mobili d’arte povera, e di attrezzi metallici, o di pelle,
o di legno, è stato distrutto, oppure è finito in
mano a mercanti privi di scrupoli. Ed eccole lì, ora, queste
costruzioni con le finestre come occhiaie desolate, con gli ingressi
violabili, con gli interni fatiscenti. Luoghi del cuore anch’esse,
luoghi della memoria per tanti di noi, ancora oggi.
Santa Maria del Soccorso, in provincia di Latina. E meglio ancora,
quel che rimane di essa, dopo che i tedeschi (i quali, durante la
seconda guerra, avevano collocato nelle vicinanze un cannone a lunga
gittata per bloccare l’avanzata delle truppe alleate) l’avevano
rasa al suolo. Richieste che innescano una speranza: che questi
monumenti, dove ha abitato la storia e dove, ai nostri giorni, abitano
l’affetto e il ricordo di tanta gente, possano ritrovare la
strada dell’originale bellezza. Come è accaduto, ad
esempio, al Molino Baresi, in provincia di Bergamo, segnalato nel
censimento del 2003, e adesso adottato e in fase di restauro. Come
auspichiamo che accada al Molino ad acqua di Nove, il più
antico opificio europeo per la preparazione degli impasti e delle
vernici per ceramica: questo vero e proprio monumento di archeologia
industriale non ha eguali in tutto il Continente anche per la complessità
dei meccanismi – tuttora funzionanti – e per l’articolazione
della struttura.
Come dovrebbe accadere per la casa di Giovanni Verga, nel territorio
di Catania, passata a un erede unico dei beni dello scrittore che
poi, oberato dai debiti, fu costretto a venderla insieme con tutto
il resto, e oggi in stato di completo abbandono, al punto che non
se ne conosce nemmeno l’ultimo titolare della proprietà.
O come dovrebbe accadere per tante chiese abbandonate in tutto il
Mezzogiorno, depredate prima di essere murate. Quasi al modo del
celeberrimo Oratorio di San Sebastiano di Voltaggio, in quel di
Alessandria, databile tra il 1730 e il 1770, da anni in stato di
abbandono, attualmente di proprietà del Comune, con arredi
e suppellettili sacre disperse in depositi presso chiese locali.
La portata di questo originale censimento, nel quale si intrecciano
amore e denuncia, presenta spigolature che avallano l’osservazione
secondo la quale la cultura è il movimento di massa dei nostri
giorni, come ieri lo era la politica. Decine di migliaia di persone
pronte a battersi per ridare dignità ai loro “luoghi
da non dimenticare” sono un vero e proprio esercito che racconta
un Paese vivo, ricco di fantasia e cosciente dell’utilità
del “bello”.

Nel lungo rosario con i nomi dei beni, oltre ventiseimila chiese,
ottomila ville, seimila e cinquecento masserie, e, via via, migliaia
di case gentilizie, di oratori, di scuole, di cappelle, di antiche
strade di collegamento, comprese molte “vie delle erbe”,
quelle delle transumanze dall’Italia centrale verso la Puglia,
la Basilicata e la Calabria, di antichi casali di villeggiatura,
di grotte e spelonche, alcune delle quali furono certamente stazioni
abitative in epoche albali...
Dietro ogni segnalazione, un cuore solitario, o, più spesso,
una mobilitazione, magari capitanata da personaggi particolari:
come l’arcivescovo di Manfredonia che si è speso per
l’Abbazia di Santa Maria di Kalena; il sindaco, il vescovo
e il rettore di Brescia, che sono scesi in campo per la chiesa del
Carmine; o un’impresa produttiva che ha adottato il Lago della
Burida, una vera e propria oasi vicinissima a Pordenone: si tratta
di un bacino artificiale realizzato alla fine dell’Ottocento
per produrre energia elettrica e poi dimenticato e abbandonato;
mentre il parroco di Averara, un centro con meno di duecento abitanti,
è riuscito a raccogliere un numero di richieste dodici volte
superiore a quello dei suoi fedeli.
Fra gli angoli d’Italia bisognosi di soccorso, anche un’isola,
quella sul fiume a Cimadolmo, in provincia di Treviso; le cascatelle
di Saturnia; lo scalo nautico del Circolo della Pesca, di Imperia;
l’Oratorio di San Sebastiano a Voltaggio, in provincia di
Alessandria; la casa di Pinot Gallizio, nell’ex monastero
di San Bernardino, ad Alba; i trulli di pietra viva, alcuni persino
con vestibolo, che contrassegnano la campagna salentina amata dal
Ciardo; la casa-rifugio di Federico II in pieno subappennino dauno;
decine di torri costiere abbandonate a se stesse; e decine di “paesi
doppi”, come ormai vengono comunemente chiamati gli antichi
borghi di regioni montuose meridionali, abbandonati da tutti gli
abitanti per fame, per emigrazione, per effetto di alluvioni e di
terremoti, com’è accaduto per le terre care a Corrado
Alvaro e a Leonida Répaci, per i costoni a calanchi descritti
da Sinisgalli, da Gatto e dal sindaco-poeta di Tricarico, e amico
di Vittore Fiore, il lucano Rocco Scotellaro. Cantavano, o recitavano,
gli abitanti dell’area grecanica di Calabria, in “Echàsame
ticandì” (“Abbiamo perso qualcosa”):
Afìcame ta spìtia ejennìthicame,
addhismonìame te strate pu epèsciame,
echàsame to afùndima, ti ffilìa
sti ccharà, stin pethammìa.
O vorèa escòrpis ena ssìnofo mavro,
mas èspisce macrìa
sce anannòriste merìe.
O ìgghio mas ecùmbiae;
arte ma ccèi to derma
fuscomèno stin oscìa.
Echàsame ticandì
asc’emmàse: mas èppe
ce den to thorùme pleo.
(Abbiamo lasciato le case dove siamo nati, / dimenticato le strade
dove abbiamo giocato, / abbiamo perso la solidarietà, l’amicizia
/ nella felicità, nella disgrazia. / Il vento ha disteso
una nuvola nera, / ci ha spinti lontani / in luoghi sconosciuti.
/ Il sole ci ha ingannati; / ora ci scotta le carni / cresciute
nella frescura. / Abbiamo perso qualcosa / di noi: ci è sfuggita
/ e non la ritroveremo più).
Vien da riflettere sulla vicenda di una cittadina laziale, Calcata:
era stata abbandonata dagli abitanti, preoccupati anche dal pericolo
di smottamento a valle delle abitazioni periferiche fatte di sassi
e pietre crude. Ebbene, pian piano è stata riabitata da artisti,
da persone in cerca di silenzio e di serenità di vita, da
piccoli importatori di prodotti esotici (dall’India al Tibet),
abbigliamento compreso, da produttori di piccole quantità
di olii, di vini, di marmellate, e via dicendo, e si è dotata
di un centro-conferenze che vende anche libri di nicchia. Il paese
è tornato a vivere, è meta di turisti non soltanto
italiani, è punto di approdo di persone che scelgono di sottrarsi
alle alienazioni delle metropoli.
Può accadere qualcosa del genere in qualche paese abbandonato
del Sud? Era successo per la Vecchia Caserta (Casa Irta), tanti
anni fa. Potrebbe verificarsi per alcuni centri nei quali è
transitata la storia, ed è passata anche la poesia, a lato
della narrativa, della pittura, della scultura. E non si dica che
il mare attrae più di questi luoghi dell’anima: perché
il problema è semmai quello di scovare un’oasi con
antiche emozioni, non quello di passare da un’alienazione
ad un’altra alienazione.
Casa Irta, Calcata, Erice splendido centro siciliano... Forse occorre
educare la gente al culto della bellezza, e all’apprezzamento
delle brevi e intense solitudini che richiedono gli ozi-negozi creativi.
Siamo convinti che prima o poi si rianimeranno, questi centri che
furono “nuclei di espulsione demografica”, aree dalle
quali fuggire per andare in pianura, sugli orli costieri, a creare
doppioni di paesi cui era sufficiente aggiungere l’aggettivo
“nuovo” per indicarne l’artificialità,
la non-identità urbanistica realizzata da ex contadini e
artigiani che non sarebbero mai diventati pescatori, né marinai.
Forse i nuovi abitanti non saranno tutti “emigrati di ritorno”,
e sarà bene che sia così. Avranno un’anima nuova
per davvero, i centri che saranno adottati, riconquistati, rimessi
in un diverso circuito vitale, in moderne ragioni esistenziali.
Vogliamo credere a questa “legge del pendolo”, al richiamo
della nostalgia, al desiderio di ritorno, alla ricerca di luoghi
a misura d’uomo. Perché vinca la voce del cuore.
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