Liborio Romano non tradì per soldi, ma
in nome del motto «Ccà
nisciuno è fesso», che decenni dopo Longanesi avrebbe
tradotto in unaltra espressione tipica dellopportunismo
italico
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Il sasso nello stagno lo aveva gettato per primo Ruggero Guarini,
in un commento al film del regista Di Lillo, Il resto di niente,
che ha per protagonista, o comunque tra i protagonisti, Eleonora
Fonseca Pimentel, icona della Rivoluzione Napoletana del 1799, secondo
la vulgata «che vuole i collaborazionisti napoletani un manipolo
di eletti patrioti e il popolo che resisteva al francese invasore
una manica di farabutti», come ha avuto modo di ricordarci
Paolo Granzotto.
La Pimentel fu, diciamo così, in diretta concorrenza con
unaltra icona coeva, che poi dovette soccombere nella competizione
per il titolo di eroina numero uno della Repubblica Partenopea,
in quanto concorrente inconsapevole, vale a dire rivoluzionaria
involontaria, trascinata nella mischia dagli eventi (e dagli ardenti
spiriti dei suoi giovani anni): parliamo della Luisa Sanfelice,
che ricordiamo per qualche biografia romanzata (quella inventata
dalla fantasia di Victor Hugo sarebbe la meno attendibile, ma anche
la più intrigante), e soprattutto per il bel dipinto del
galatinese Gioacchino Toma, che la ritrasse realmente incarcerata
e fintamente incinta in una delle più significative espressioni
artistiche dellOttocento italiano.

Dunque: come tutti coloro i quali sono pronti ad andare in soccorso
dei vincitori, la Fonseca Pimentel divenne antiborbonica subito
dopo lingresso a Napoli del generale Championnet, che è
come dire appena un minuto dopo lallontanamento dalla capitale
di re Ferdinando delle Due Sicilie. Fino a qualche istante prima,
infatti, linclita damigella era stata non una sostenitrice,
ma addirittura lo zerbino del monarca, di Maria Carolina,
della Corona. Della regina, in particolare, aveva intessuto elogi
spropositati, prima di definirla, mentre era allombra delle
baionette transalpine, «rediviva Poppea» e «tribade
impura dimbecille tiranno empia consorte»: tanto per
capire fino a che punto può giungere una voltagabbana priva
del comune senso del pudore.
Ruggero Guarini ebbe a ricordare la sconcia ballata che la Fonseca
Pimentel dedicò a Maria Carolina, senza alcuno scrupolo o
riguardo definita baldracca, lesbica, consorte di un tiranno ebete,
alla quale augurava di far la fine della sorella, Maria Antonietta,
decapitata con sentenza sommaria e con tripudio di piazza.
Ma prima dellingresso delle truppe francesi, ben altri sentimenti
costei aveva manifestato. Separata dal marito, il tenente Pasquale
Tria, per sbarcare il lunario aveva invocato durgenza laiuto
di Ferdinando, il quale laveva soccorsa, affidandole lincarico
di bibliotecaria nella ricchissima biblioteca reale voluta da Carlo
di Borbone, in seguito Biblioteca Nazionale. E tra quei preziosi
volumi, a volte con il vezzoso nome di Altidora Esperetusa, liberamente
verseggiava, coinvolgendo il tiranno imbelle e la di
lui poco commendevole consorte in panegirici che si leggono con
palese disagio «per il servilismo, ladulazione e la
piaggeria che vi dominano». Tantè che finì
per meritarsi la spilla a forma di giglio borbonico che, appuntata
sulla scollatura dellabito di gala, distingueva le dame in
rapporto di intimità con Ferdinando e con Maria Carolina.
La quale ultima veniva dipinta dalla Fonseca Pimentel pre-sanculottiana
quale «tempio di saggezza e di virtù», mentre
per il re era certa che «letà di Ferdinando /
ogni altra avanzerà che lalme illustri / dai regi sguardi
accese / ardite moveranno a nuove imprese». Sicché
«Ddio nce lo guarde tenga» il «prode Ferdinando
/ dalla superba fronte / marito e condottier». E sarebbero
sacrosantamente finiti nel più abissale degli oblii, versi
di tale ispirazione e tanta levatura espressiva, se non servissero
ancora oggi a testimoniare e a mettere in luce la statura morale
(?!) e lantropologia umana di questa eroina nana.
Che tuttavia non fu sola nellesercitare lignobile arte
del tradimento. Ebbe, anzi, illustri emuli negli infelici tempi
che seguirono. Come, ad esempio, il cosiddetto Nibbio dei
mari, il principe e ammiraglio Francesco Caracciolo, passato
alla storia come patriota e martire per via dellimpiccagione
con disonore al pennone della nave di Nelson.
Caracciolo non si imboscò, e meno che mai disertò,
nei tristissimi giorni dellesilio borbonico. Semplicemente
e irrimediabilmente tradì. Ed è noto che la marineria
puniva il tradimento col capestro. Questo, il principe e ammiraglio
Caracciolo lo sapeva benissimo, tanto che per cancellare dal proprio
cadavere una macchia così ingombrante, chiese di non essere
appeso al pennone dellalbero maestro, ma di venire fucilato.
Dimenticava, laristocratico voltagabbana, che si trovava al
cospetto dellammiraglio della marineria inglese, quella di
Abukir (dove Nelson diede una terribile randellata alla squadra
navale napoleonica), o quella di Trafalgar, oppure, se si preferisce,
quella di Jack Lucky Aubrey, Master and Commander dellH.M.S.
Surprise.

Era il 23 dicembre 1798, antivigilia di un drammatico Natale di
guerra: con i francesi del generale Championnet alle porte della
sua capitale, Ferdinando IV di Borbone si vide costretto ad abbandonare
Napoli e a rifugiarsi nella più sicura Palermo. E lo accompagnava,
in qualità di ammiraglio della flotta napoletana, appunto,
il principe Caracciolo. Il quale, appena instauratasi leffimera
repubblica giacobina (23 gennaio 1799), chiese al re il permesso
di far ritorno a Napoli per prendersi cura dei propri averi, che
in assenza del proprietario correvano il rischio di essere confiscati.
Ferdinando diede il consenso, consigliando al suo ammiraglio di
tenersi lontano dalla politica, di curare esclusivamente i propri
affari e di non mettersi in testa idee strane. Al che il Nibbio
dei mari, quasi cadendo dalle nuvole, assicurò: «Che
dite mai, Maestà! Io, il vostro più fedele servitore!
Io che sono pronto a dare la vita per la Corona, mettermi in testa
cattive idee? Accunfarse co i giaccubbini? Mai!».
E invece, appena toccata terra dalle parti di Mergellina, si accunfiò,
altroché se si accunfiò, nel senso che se la intese
subito con lo spretato Carlo Laubert, con Antonio Ajello, con la
Fonseca Pimentel e con gli altri giaccubbini sostenuti
dalle baionette dellesercito francese.
Il nodo venne al pettine cinque mesi dopo, quando cessò di
esistere la repubblica giacobina: ricercato per alto tradimento,
il Caracciolo venne a sua volta tradito da un servo, il quale indicò
agli sbirri il pozzo in fondo al quale era nascosto il Nibbio
dei mari. Che così fu catturato, trasbordato e impiccato,
secondo le regole universalmente osservate dalle marinerie.
Una breve digressione, per significare il valore del termine tradimento.
È stato scritto che latto del tradire porta allottundimento
della propria coscienza e fa straripare le energie negative.
In genere, il traditore è un individuo prossimo al tradito:
in effetti, esso tradisce soltanto se stesso. Gli archetipi universali
in materia ce lo spiegano molto bene. Adamo venne tradito da se
stesso, per superbia e per ignoranza. Osiride trovò la morte
per il tradimento del proprio fratello, Set. Gesù venne tradito
da un suo discepolo. Il veneziano Giovanni Mocenigo attrasse Giordano
Bruno per consegnarlo ai suoi aguzzini. La storia è lastricata
di questi esempi.
Lambizione, il fanatismo, la sete di potere, lambiguità,
il narcisismo che rende prigionieri delle proprie ragioni e chiude
in una limacciosità statica e in una rigidità funesta:
queste, e altre ancora, (la paura del futuro, la fragilità
culturale, e via dicendo), sono le scaturigini del tradimento. Che
a volte emergono in ritardo, proprio come nel caso del Caracciolo,
al quale i piemontesi, sessantanni dopo, intitolarono unimportante
via dellantica capitale del Sud. La storia, infatti, non la
fanno i vincitori?

Sessantanni dopo, appunto. Quando il tradimento fu decisivo
per le sorti del Reame e per la nascita del Regno sabaudo. Anche
se si trattò di tradimenti (per certi personaggi, almeno)
sporcati dal legittimo sospetto della compravendita, con imbroglio
incorporato nella promessa di premio con vile denaro.
La vicenda del generale Francesco Landi, in proposito, è
illuminante. Fu lui che, a sbarco dei Mille appena avvenuto, con
Garibaldi chiuso nella sacca di Calatafimi, con le sue camicie rosse
stremate e ormai prive di munizioni, decise sorprendentemente di
far suonare la ritirata. Avesse impegnato un semplice battaglione,
ordinandogli di attaccare, lepopea dei Mille sarebbe miseramente
naufragata lì, in una località dal nome emblematico:
Pianto di Romano. Le cose, invece, andarono diversamente, per via
di una strategia preventivamente perdente, cioè con inclusione
del ricorso al tradimento.
A cose fatte, e ad annessione del Reame avvenuta, il Landi si recò
al Banco di Napoli per riscuotere la polizza di quattordicimila
ducati che rappresentavano il prezzo di quel tradimento. Ma quando
il cassiere gli disse che il documento era stato falsificato e che
la cifra reale che poteva essere riscossa era limitata a soli quattordici
ducati, al generale venne un colpo e morì imprecando ad alta
voce contro «quel ladro di Garibaldi».
Altro eroico traditore, Giuseppe Ghio. Era stato colui il quale
aveva sventato a Sapri, città di spigolatrici, il colpo di
mano di Carlo Pisacane. Tre anni dopo, nel territorio di Soveria
Mannelli, sebbene fosse al comando di un esercito di diecimila uomini,
si arrese a un migliaio di camicie rosse garibaldine male in arnese.
Una volta entrato in Napoli, un riconoscente Garibaldi lo designò
comandante della piazza. Problemi di coscienza? Zero. Con grande
naturalezza, il Ghio ripose la divisa borbonica e indossò
quella piemontese. Anche se non godette a lungo dei benefici ottenuti
al prezzo di Giuda: una sera fu trovato morto ammazzato nella località
Ponti Rossi, sotto unarcata dellAcquedotto Romano. E
di costui non rimase altra memoria, se non quella del prezzolato.
Nei giorni del tramonto del Regno di Napoli le diserzioni non si
contarono, sia in terra sia in mare, dove, per fare un esempio indicativo,
issata la bandiera bianca il comandante di fregata Amilcare Anguissola
si consegnò con la sua nave, la Veloce, allammiraglio
piemontese Persano (quello che sarebbe stato poi battuto a Lissa
da una flotta austriaca numericamente inferiore). Per riscattare
il nome della famiglia, i fratelli dellAnguissola chiesero
e ottennero dal re il privilegio di combattere in prima linea.
Liborio Romano, invece, non tradì per soldi, ma in nome del
motto «Ccà nisciuno è fesso», che decenni
dopo Longanesi avrebbe tradotto in quellaltra espressione
tipica dellopportunismo italico, «Tengo famiglia»,
che avrebbe fatto la sua bella figura stampata nel bianco del tricolore.
Sostiene Granzotto: quando Francesco II partì per Gaeta (dove
il suo esercito, quello di Franceschiello, diede, come
lo diede a Civitella, filo da torcere ai soldati piemontesi del
generale Cialdini, lo stesso che nel suo proclama aveva liquidato
i borbonici quale «masnada di briachi»), chiamò
Romano, suo ministro che conosceva funambolo nel doppiogioco, e
gli disse: «Don Libo, guardateve o cuollo!».
E Romano, di rimando: «Starò accorto che rimanga al
suo posto il più a lungo possibile».
Appena mezzora dopo, Don Liborio telegrafava all«invittissimo
generale», sollecitandolo «a giungere in fretta, ché
la popolazione tutta attende il Salvatore con la maggior impazienza,
per salutarlo redentore dItalia».
La città natale di Liborio Romano è la stessa nella
quale riposano le sue spoglie, Patù. La tomba è spoglia,
una pietra bianca sulla quale è scritto soltanto il suo nome.
Sulla facciata del palazzo che appartenne alla famiglia, invece,
si legge questa lapide: «Nella dolorosa maturazione degli
italici destini / Liborio Romano / persecuzione carcere esilio /
serenamente accettò / lanima affisa alla futura patria
grande / nella attesa ora della riscossa / ad altissime responsabilità
assurto / seppe / sprezzando lusinghe ambizioni calunnie / preservare
la sua terra da cruente lotte fratricide. / Nel centenario dellUnità
/ la sua Patù orgogliosa ricorda / qui ove nacque e morì».
Si potrebbe sorridere amaro, ricordando chi fu lo sprezzatore.
Non fosse per i tanti voltagabbana venuti in seguito, ben peggiori
del modello originale, al punto che se ne sono persi la fisionomia
e soprattutto il conto. E, fosse possibile, ci sarebbe da spedire
sullaltra riva, quella della pace eterna, una lettera con
uno scritto brevissimo, ridotto a una sola domanda: «Don Liborio,
ora che dalle parti crasse della Penisola sbraitano i secessionisti
della Lega, ci dici chi te lha fatto fare?».
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