Il canto di Lia
presagisce
il risveglio dal sonno ed è preludio dell’imminente
incontro del poeta con Beatrice.
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Un’esperienza didattica
Ero ancora in servizio nel “Palmieri” di Lecce, quando,
un anno, mi capitò di avere in prima liceale un’allieva
che studiava arpa nel Conservatorio musicale “Tito Schipa”
della città: Giulia Celeste, che ora fa parte dell’Orchestra
della Provincia. Si sa che nel primo trimestre l’opera minore
di Dante è fondamentale per poi accostarsi alla lettura della
Divina Commedia. La lezione, un giorno, riguardava la poesia del
dolce stilnovo, nella specifica versione dantesca: «Io mi
son un che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’ei
ditta dentro vo significando». Fra gli altri testi, nei giorni
successivi, mi trovai a spiegare un sonetto delle Rime, che riporto
qui appresso, anche a probabile godimento, non solo estetico, degli
eventuali miei lettori:
Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vascel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio,
sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse il disio.
E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buon incantatore.
e quivi ragionar sempre d’amore:
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì com’io credo che saremmo noi.
[ed.
Contini]
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Il destinatario era Guido Cavalcanti, che nella Vita nuova Dante
saluta «primo de li miei amici»; Lapo Gianni è
uno della ristretta cerchia de «i fedeli d’Amore»;
le tre monne (madonne) sono, rispettivamente, le donne di Guido,
Lapo e Dante.
Lascio immaginare l’impressione suscitata da quel sonetto nell’animo
di quegli adolescenti; sicché, quando io proposi che lo si
rileggesse con l’accompagnamento dell’arpa, unanime esplose
l’entusiastico consenso. Qualche giorno dopo era tutto pronto
per il singolare evento, al quale, incuriositi, vollero assistere
anche i compagni delle altre due classi del triennio. Era un esperimento
didattico inedito: le vibrazioni al tocco dell’arpa, sintonizzate
con l’armonia metrica degli straordinari endecasillabi danteschi,
li coinvolgeva, con il padre della nostra lingua, nel suo «poetico
sogno d’amore».
Cenni bio-bibliografici dell’autore
Ebbene, questo lontano episodio mi è subito venuto a mente
nel leggere il penetrante saggio di Alessandro Cosi, Poesia come
musica nella commedia di Dante (Lecce, Ed. del Grifo, 1996). L’amico
e collega è venuto a mancare, non solo agli affetti, nell’aprile
del 2005; era nato nel dicembre del 1922. Ha insegnato per alcuni
anni nel biennio ginnasiale del “Palmieri” e, trasferitosi
poi, per opzione, al liceo scientifico “De Giorgi”, ha
tenuto la cattedra di italiano e latino. Laureato a Napoli con una
tesi su Fogazzaro, al rientro dalla guerra, cui aveva partecipato
fra le truppe di riserva, passò anch’egli attraverso
le forche caudine dei primi concorsi ordinari del dopoguerra (anni
Cinquanta), ancora attestati sul rigoroso modello gentiliano.
In giovane età aveva anche conseguito il diploma in violino,
così da potere svolgere una lunga attività concertistica
con orchestre da camera e lirico-sinfoniche nei maggiori teatri
della Puglia. Mai, tuttavia, questa seconda professione ha intaccato
la irreprensibilità del suo insegnamento. I citati concorsi
ordinari imponevano, fra l’altro, una conoscenza minuziosa
dell’opera di Dante e il possesso dei cento canti della Divina
Commedia era la conditio sine qua non per il superamento del traguardo.
Il nostro amico disponeva dunque di tutte le armi, del violinista
e del docente scaltrito, per affrontare l’improbo cimento dell’esegesi
comparativa di musica e poesia dei 14.296 endecasillabi del Poema
sacro. Sì, perché nella sua indagine li attraversa
tutti, direttamente o tangenzialmente, con un massiccio apparato
integrativo di note erudite o esplicative, di pertinenza musicale
o letteraria. Un lavoro sui generis, che avvicina il lettore alla
Commedia di Dante con un surplus di interesse, anche rispetto ai
più autorevoli commenti di dantisti acclamati: dai contemporanei
del poeta ai Pietrobono, Momigliano, Sapegno, ecc.

Ma va segnalato anche, a conferma della passione di Cosi per nostra
maggior musa, un altro suo studio: Pascoli poeta-critico di Dante
(Ed. del Grifo, 1992); in qualche modo singolare anche questo, perché,
nell’analisi degli studi danteschi del poeta delle Myricae,
è implicito il controverso problema, non della legittimità
ma della obiettività ermeneutica, di un poeta che legge un
altro poeta; e il caso del Pascoli nei riguardi di Dante è
tra i più clamorosi nella storia della critica, come vedremo.
Prospettiva metodologica
Torniamo al libro Poesia come musica nella commedia di Dante, per
avvertire subito che il nesso sintattico tra poesia e musica, istituito
dalla particella come, designa non soltanto la peculiarità
dell’angolazione investigativa dell’autore, ma anche il
suo differenziarsi da studi precedenti di argomento analogo: Dante
e la musica di A. Bonaventura (1904, rist. 1978), Suono e pensiero
nella poesia dantesca di S. Frascino (1928), La musicalità
di E. Pistelli Rinaldi (1967).
Così l’autore motiva il suo distacco: i su citati avevano
rivalutato globalmente il ritmo poetico dantesco, come virtualmente
musicale, indipendentemente dai luoghi del poema in cui «campeggiano
figure e motivi propri dell’arte dei suoni», egli invece,
nel rapporto poesia e musica in Dante, non espunge i passi musicali
dal contesto in evoluzione del poema, ma li coglie e ricalca nella
loro specificità continuativa, senza privilegiare, a seconda
dei casi, ora il tema letterario ed ora il tema musicale.
Ne consegue che il ricorso frequente della musica in Dante non è
un aspetto accessorio, «d’integrazione metaforico-descrittiva»,
bensì fattore determinante dell’atto creativo e dunque
coefficiente di poesia con effetti, inoltre, di natura psicologica:
di godimento spirituale e di placamento dell’animo dell’exul
immeritus. L’episodio dell’incontro di Dante, appena giunto
nel Purgatorio, con Casella, suo amico e musicista ne è la
testimonianza più diretta. Il pellegrino gli chiede:
[…] Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!
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E Casella intona la canzone che apre il libro III del Convivio:
“Amor che ne la mente mi ragiona”
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
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E l’amoroso canto suscita anche in Virgilio e in tutti gli
altri spiriti, appena sbarcati anch’essi dall’Angelo nocchiero,
le stesse risonanze interiori:
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
(Pg. II,
106-117)
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La musica, la più elevata delle arti secondo il filosofo
del dolore umano, Schopenhauer, si rivela qui, nel regno della purgazione,
più potente, nel suo fascino, dello stesso bisogno naturale
di “correre al monte” a purificarsi delle scorie terrene
e ascendere sino alla visione di Dio.
Non è mancato in altri poeti il connubio intimo tra le due
arti sorelle, ma in funzione puramente semantica o espressiva, come
in Petrarca, Tasso, Leopardi, D’Annunzio (citati da Cosi),
nel senso che la poesia tende a dissolversi più che a sublimarsi
in musica. In Dante, invece, anche quando la musica non interviene
formalmente nella poesia, con i ben noti riferimenti analogici,
– scrive Cosi – rivolti alle abilità tecniche della
voce umana ora all’uso di strumenti tipici del tempo, siano
essi aulici quali l’arpa, il liuto, la giga e la viola, siano
comunemente fruibili come l’organo; anche allora è spesso
virtualmente presente:
essa vive nel topos di un quadro descrittivo e nell’atmosfera
fantastico-sentimentale che vi si crea, nonché nel
ritmo poetico che a volte si ispira ai caratteri della monodia,
a volte e più spesso a quelli della coralità,
tanto che poesia e musica si fondono in una sintesi artistica
variamente raffigurata, a seconda del momento lirico che concorrono
a rilevare.
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La visione dell’aldilà, nella immaginazione del poeta,
rappresenta motivo di esaltazione della musicalità, in un
crescendo sempre più intensivo ed estensivo, a mano a mano
che il pellegrino, col recupero dei caratteri propri della natura
umana dopo la rappresentazione espressionistica dell’Inferno,
con le «rime aspre e chiocce», ascende dalle balze del
sacro Monte alle sfere celesti. Giova questo passo esegetico del
nostro studioso:
Nell’Inferno, certe angosce, patite dai dannati senza
tregua e fuori del tempo, sembrano trovare un’eco nel
sinfonismo drammatico di Beethoven, segnatamente nella Marcia
funebre e nell’ultimo tempo dell’Eroica; talune
dolcezze del Purgatorio sono come riproposte in Haendel; alla
coralità polifonica, spettacolarmente trionfante del
Paradiso pare essersi ispirato il Palestrina.
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Convergenze tecniche delle due arti
Indipendentemente dal carattere di perpetuità simbiotica
del linguaggio poetico e musicale (e in Appendice II, si allegano
stralci della versione musicale di figure e passi danteschi: dal
Pater Noster e dalla Preghiera alla Vergine del Verdi alla Francesca
da Rimini del Morlacchi e al Conte Ugolino del Donizetti), Cosi
avverte l’esigenza metodologica della ricostruzione del tempo
storico e culturale, in cui matura la poetica dantesca e la vocazione
alla musicalità nella poesia, e lo fa, ovviamente, sulla
base delle opinioni, valutazioni e giudizi che Dante dissemina nei
suoi scritti. Si risale pertanto alla poesia trobadorica di Giraldo
di Borneille e di Arnaldo Daniello, additato, quest’ultimo,
«miglior fabbro del parlar materno» (Pg. XXVI, 117):
vero maestro per Dante nell’arte di armonizzare le canzoni,
che è come dire, nel predisporre ritmicamente la poesia per
il suo rivestimento melodico. Di qui la particolare attenzione descrittiva
nel libro II del De vulgari eloquentia: la felice accoppiata dell’endecasillabo
(superbissimum carmen) e del settenario produce straordinari effetti
melodici, in quanto la solennità del primo è bilanciata
dalla dolcezza cantabile del secondo. Tra i contemporanei del poeta
il Boccaccio, nel Trattatello in laude di Dante, e Benvenuto da
Imola, nel Comentun super Dantem, gli attribuiscono un’«esperienza
di pratica strumentale», perfezionata nel periodo dell’esilio
e connessa all’acquisita musicalità trobadorica. Nel
Convivio, II, XIII, 23, si legge, infatti,
la musica è tutta relativa, sì come si vede
ne le parole armonizzate e ne li canti, dei quali tanto più
dolce armonia resulta, quanto più la relazione è
bella: la quale in essa scienza massimamente è bella,
perché massimamente in essa s’intende. Ancora
la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono
principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano
da ogni operazione.
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La musica era una scienza del Quadrivio, che Dante aveva certamente
studiato.
Infine, quale il veicolo linguistico per la armonizzazione dei versi
da rivestire poi di melodia? Così si rifa, ovviamente, alla
soluzione della questione della lingua, quale risulta dalle pagine
del De vulgari eloquentia (Libro I). È il volgare illustre,
che emerge dalla mediazione dei dialetti parlati nel “bel Paese”
e ripuliti delle scorie municipali (di fatto però identificantesi
con il toscano), la cui potenza comunicativa ed espressiva è
tale da «rivoltare il cuore degli uomini, al punto da rendere
volente chi non vuole e non volente chi vuole» («quid
maioris potestatis est quam quod humana corda versare potest, ita
ut nolentem volentem et volentem nolentem faciat?», De vulg.
el., I, XVI, 6).

Ma è lo stesso Dante a rivendicare, nel suo poema, l’intrinseco
rapporto tecnico di poesia e musica, nel definirlo, senza rischio
di equivoci, «nihil aliud est quam fictio rethorica musicaque
posita» (ivi, II, IV, 2: «non è altro che una
finzione retorica e posta in musica»). Definizione, peraltro,
come riconosce Cosi, che affonda la sua radice teorica e culturale
nella tradizione classica, per la quale la musica non era un elemento
accessorio della poesia, ma essenziale, unitario e inscindibile.
Quintiliano, infatti, nella Institutio oratoria (IX, IV, 14), riflettendo
sulle leggi naturali che intercorrono tra poesia e musica, asserisce
che ritmo e suono costituiscono valori comuni alle due arti. Tant’è
che la battuta musicale corrisponde al piede del verso greco e latino,
poiché entrambi sono costruiti sulla quantità (di
una breve, di una lunga, di una ancipite), cioè sulla durata
dei suoni, e dunque, nel poema, il ritmo si è formato, prima,
sulla durata naturale del tempo (aurium mensura), fenomeno squisitamente
musicale, e, poi, lo si è applicato alla poesia, con la scansione
dei piedi (mox in eo repertos pedes): fosse il dattilo o l’anapesto,
fosse il trocheo o il giambo.
Inferno
Ora qualche esemplificazione, necessariamente cursoria, estrapolando
fior da di fiore, lungo l’esegesi comparativa che copre tutti
i canti, di volta in volta, delle tre cantiche. La materia dell’Inferno,
«che il mal de l’universo tutto insacca», non è
certo la più adatta a lasciarsi penetrare dalla espressività
musicale, come invece lo sono il Purgatorio e, in misura maggiore,
il Paradiso; e tuttavia, essendo la musica soprattutto armonia d’idee
e poggiando la poetica della Commedia su una articolata robusta
struttura concettuale, essa può riaffiorare tra le pieghe
della straordinaria fantasia dantesca e dar vita, come conclude
Cosi, ad un lirismo appassionato che, energicamente scandito, si
nutre in ragione e in misura di un ambiente particolare, quale è
il luogo «d’ogni luce muto», e di uno scenario
sconosciuto e inconsueto. Esso lirismo allora serve a preparare
la base armonica donde emergeranno le varie tenebrose figure di
un dramma senza soluzione ed eterno.
È dunque una musica non bisognosa di analogie terrene bensì
di analogie che operino autonomamente in situazioni imprevedibili,
tali da dare risalto o alle monodie dolenti di singoli personaggi
di particolare connotazione psicologica: da Francesca a Ciacco,
da Farinata a Pier delle Vigne, da Brunetto Latini a Vanni Fucci,
da Ulisse a Ugolino; oppure alle corali voci di mediazione delle
anonime masse di dannati: Bestemmiavano Dio e lor parenti, / l’umana
spezie e il loco e il tempo e il seme / di lor semenza e di lor
nascimenti (III, 103-105); Quando giungon davanti a la ruina, /
quivi le strida, il compianto, il lamento; / bestemmian quivi la
virtù divina (V, 34-36); Fitti nel limbo dicon: “Tristi
fummo / ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, / portando
dentro accidioso fummo: / or ci attristiam ne la belletta negra
(VII, 121-124); Uomini fummo, e or siam fatti sterpi: / ben dovrebb’esser
la tua man più pia, / se state fossimo anime di serpi (XIII;
37-39).
È opportuno ribadire che l’interesse esegetico di Alessandro
Cosi, nel ripercorrere l’intera area delle tre cantiche, non
verte soltanto, pur se preminentemente, sull’aspetto musicale
del tessuto narrativo, bensì anche, con pari acume, sull’aspetto
estetico letterario, con maggiore evidenza nella delineazione dei
personaggi, che si accampano centrali nella fantasia del poeta.
Ecco Francesca, con il suo a solo, che, specialmente nell’età
romantica, ha tanto stimolato l’attenzione ri-creativa dei
musicisti; e Cosi, in una nota, ne dà notizia al lettore.
Per conto suo, fa valere la fine sensibilità del violinista,
nel rimemorare il racconto della infelice eroina dell’amore:
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove il Po discende
per aver pace coi seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e il modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense.
(V, 97-106)
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Postilla il nostro esegeta: esauritosi il recitativo di Virgilio
che ha indicato a Dante «le donne antiche e i cavalieri»,
la sinfonia tragica registra una lunga pausa, quasi un tempo d’attesa
che predispone al commosso a solo della donna, riempiendo da protagonista
tutta la scena. Di fatto, però, Francesca interloquisce,
come in un duetto, con Paolo, in apparenza muto, ma specie di spalla
da teatro, che rivive da sé la dolente storia d’amore,
nel suo crescendo drammatico: «quello dell’Amore gentile,
dell’amore padrone inesorabile, dell’Amore dannazione
eterna». Né la rievocazione di Francesca lascia il
pellegrino dell’aldilà spettatore distaccato, ma anzi
lo coinvolge da comprimario, «pronto ad intervenire secondo
copione suggeriva»:
Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.
(V, 139-142)
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Saltando, con rammarico, tutti gli altri canti successivi, che il
nostro critico illustra col metodo che conosciamo, ci limitiamo
a scendere nel fondo del baratro infernale, insieme con lui che
così ci introduce:
Dante si sente per la prima volta incapace di descrivere
il male che vi domina sovrano, perché non ha le “rime
aspre e chiocce”, idonee cioè all’ambiente
che ospita i traditori: un’impotenza, questa, che comporta
la caduta di ogni valore musicale e che è perciò
sostanzialmente diversa da quella che il poeta confesserà
di fronte a certe ineffabili bellezze celestiali nel suo Paradiso,
quando il lirismo poetico e quello musicale costituiranno
un’unità inscindibile e l’armonia delle voci
terrene si sublimerà nel canto dei cori angelici.
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Per i lettori di tutti i tempi, il conte Ugolino ha sempre rappresentato
il richiamo più sensazionale tra i personaggi del cerchio
infernale dei traditori; ed è automatico il riferimento a
Francesca, per l’analogia archetipica dei sentimenti contrapposti
di amore e odio, che restano temi eterni della grande drammaturgia,
da Euripide a Shakespeare. Così commenta il nostro studioso:
L’a solo rievocativo di Ugolino comporta anch’esso,
come già quello di Francesca, la presenza di una spalla
muta, lì impersonata da Paolo, qui da Ruggeri, l’una
e l’altra apparentemente inerti, in effetti legate al
proprio partner con un nodo indissolubile […] E se il
pianto di Paolo costituisce una ripresa musicale, quasi un’eco
del dramma di Francesca, il silenzio di Ruggeri non è
meno eloquente.
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Canti paralleli, dunque, ambivalenti entrambi: Ma dimmi: al tempo
dei dolci sospiri, / a che e come concedette amore / che conosceste
i dubbiosi disiri? (V, 118-120); «O tu che mostri per sì
bestial segno / odio sovra colui che tu ti mangi / dimmi il perché»,
diss’io (XXXII, 133-135). Da una dettagliata nota in calce,
apprendiamo che, come per Francesca, pari è stato l’interesse
dei musicisti per Ugolino: da Vincenzo Galilei (il padre dello scienziato)
a Rossini, a Morlacchi, a Donizetti.
Purgatorio
Se l’individualità disperata domina nella dimora eterna
dei dannati e ad essa corrisponde la più funzionale musicalità
monodica, nel regno della espiazione si ricompone e si celebra il
monito cristiano della fratellanza e il principio evangelico della
solidarietà fra le anime redimende e ad esse fa dunque riscontro,
correlativamente, il coinvolgente ritmo melodico, preludio alla
susseguente scansione polifonica dei vari canti. Riportiamo subito
qualche scampolo in chiave meramente descrittiva:
Questa isoletta intorno ad imo ad imo
là giù colà dove la batte l’onda,
porta dei giunchi sovra il molle limo:
null’altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.
(I, 100-105)
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E poco più avanti, per introdurre alla preghiera serotina
delle anime nella valletta dei principi negligenti, con una trasposizione
esistenziale terrena, sintomatica di una residuale vena di nostalgia:
Era già l’ora che volge il disio
ai naviganti e intenerisce il core
lo dì ch’han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more.
(VIII,
1-6)
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«Musicus fuit», dice Benvenuto da Imola del poeta; convincimento
ripetuto nei secoli e ribadito, in età romantica, con maggiore
autorevolezza, da Thomas Carlyle, che include Dante insieme con
Shakespeare nella categoria degli «eroi della poesia»:
Il suo poema, scrive, è, sotto ogni aspetto, essenzialmente
un canto […] Si legge tutto di seguito, come una specie
di salmodia […] L’essenza e la materia dell’opera
sono esse stesse ritmiche […] Dante incarna musicalmente
la religione del Medio Evo, la religione della nostra Europa
moderna e la sua vita interiore [...] Pur che approfondiate
abbastanza, c’è musica da per tutto. Regna in
essa una vera intima simmetria, un’armonia architettonica,
che partecipa pure del carattere musicale.
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È appunto la traccia che il nostro esegeta persegue, nella
rilettura della seconda cantica, con una verifica testuale della
simbiosi poesia-musica, più particolareggiata rispetto all’Inferno;
e il canto solistico e corale, già presente nell’Antipurgatorio,
tende ad allargarsi
sino a dominare coinvolgendo unità di spiriti sempre
più numerosi, via via che si sale, di cornice in cornice,
sino alla vetta del sacro Monte, e diventare sinfonia totale
nel Paradiso Terrestre, dove la presenza musicale registra
toni e colori sempre più tipici, eloquente preludio
alla musica dell’ineffabile che ascolteremo nei cieli
empirei.
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Considerazioni, queste, che si giovano del supporto critico del
De Sanctis, per il quale le anime del purgatorio sono «esseri
musicali, che escono dalla loro coscienza individuale, assorte in
una stesso spirito di carità».
Ad apertura, il lettore è colpito dalla musicale ondulazione
di due terzine che schiudono un profilo paesaggistico, esteticamente
giocato su una sinestesia visiva e uditiva:
L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
com’om che torna a la perduta strada,
che infino ad essa li pare ire invano.
(I, 115-120)
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E la chiosa del nostro Cosi vi coglie aspetti artistici che normalmente
sfuggono al commentatore che si appaga della pura letterarietà
del testo.
In chiave musicale, il mormorio del mare che si annuncia
da lontano fa pensare ad un tremolio d’archi che si leva
piano e sottovoce e poi cresce, quasi fisicamente visibile,
sino a creare una sensazione unica, una volta che s’è
confusa con il quadro delle acque increspate della brezza
mattutina.
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Il Purgatorio, si sa, è la cantica degli artisti; Dante
ne ha incontrati tanti, tra i vari gironi; e, fra l’altro,
immagina di essersi imbattuto con Virgilio, tra i negligenti dell’Antipurgatorio,
nel liutaio fiorentino Belacqua, col quale intrattiene un colloquio
tra confidenziale e umoristico, come tra vecchi amici. Come racconta
l’Anonimo (nel suo Commento alla Divina Commedia, citato da
Cosi), Dante era solito recarsi a trovare Belacqua nella sua bottega
e intrattenervisi sino all’ora del pranzo,
e molto il riprendea di questa sua negligenza; onde un dì
riprendendolo, Belacqua rispose colle parole di Aristotele
“sedendo et quiescendo anima efficitur sapiens”.
Di che l’Autore [Dante] rispose “per certo, se per
sedere si diventa savio, niuno fu mai più savio di
te”.
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A sua volta, così intende il nostro studioso, da esperto
di musica e di musicologia:
Ma codesta saggezza di Belacqua – a parte l’affettuosa
canzonatura dell’amico Dante – non rivela forse
il suo vero carattere, quello che si manifesta nell’amorevole
pazienza con cui costruisce i suoi strumenti? E quella sua
pigrizia non è anche in armonia con il ritmo lento
e monotono, proprio del lavoro di liuteria?
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Alessandro Cosi si muove a suo agio nel mondo poetico-musicale del
Purgatorio, lungo le cui balze dell’Antipurgatorio e le sette
cornici seguenti, echeggiano, cantati in coro dai penitenti, nei
loro specifici ambienti di redenzione, gli inni della liturgia della
Chiesa: dall’approssimarsi degli spiriti imbarcati dall’Angelo
(In exitu Israel de Aegypto / cantavan lutti insieme ad una voce
/ con quanto di quel salmo è poscia scritto: II, 46-48) alla
coscienza della colpa e la domanda del perdono dei “morti per
violenza” (E intanto per la costa di traverso / venivan gente
innanzi a noi un poco / cantando Miserere a verso a verso: V, 21-24);
dal desiderio di accelerare il cammino della espiazione con l’invocazione
alla Vergine nella valletta dei principi negligenti (Salve, Regina
in sul verde e in su i fiori / quindi veder cantando anime vidi,
/ che per la valle non parean di fuori: VII, 81-84), alla preghiera
della sera, col calare delle ombre nella valletta e nell’imminenza
della discesa di due angeli in difesa degli spiriti dall’assalto
della “mala striscia” (“Te lucis ante” sì
devotamente / le uscio di bocca e con sì dolci note, / che
fece me a me uscir di mente; / e l’altre poi dolcemente e devote
/ seguitar lei per tutto l’inno intero, / avendo li occhi a
le superne rote: VII, 13-18).
L’avvio monodico di una delle anime, per la legge della solidarietà
nella sofferenza redentrice, si scioglie e sublima nella partecipazione
corale delle altre. È reso poi liturgicamente più
solenne il passaggio dall’Antipurgatorio alla prima cornice
col canto all’unisono dell’inno di lode per antonomasia
(Io mi rivolsi attento al primo tuono, / e “Te Deum laudamus”
mi parea / udire in voce mista al dolce suon. / Tale imagine a punto
mi rendea / ciò ch’io udiva, qual prender si suole /
quando a cantar con organi si stea; / ch’or sì or no
s’intendon le parole (IX, 139-145).
Sorvolo anche qui, necessariamente, sui puntuali richiami dotti
che ulteriormente accreditano la precisione critico-musicale di
Cosi: da Verlaine, che identifica la poesia nella musica, all’Auerbach,
con la sua interpretazione figurale, ai D’Ovidio, Parodi, Pagliaro,
Chimens, Vallone, Marti, Mila, con le pagine dedicate a “Verdi
e Dante”. E l’elenco potrebbe continuare a dimostrazione
della vasta area culturale, che penetra il suo discorso epidittico,
sia nell’ambito delle figure simbolicamente più pregnanti,
da Manfredi (c. III) a Buonconte da Montefeltro (c. V), a Sordello
(c. VI), a Currado Malaspina (c. VIII), a Marco Lombardo (c. XVI),
a Forese Donati (c. XXIII); da Pia dei Tolomei (c. V) alla femmina
balba, apparsagli in sogno (c. XIX), a Lia e Rachele, in sogno anche
queste, ma di tutt’altro segno (c. XXVII), a Matelda in vetta
alla montagna, nella divina foresta (c. XXVIII). Ma non meno in
relazione ai siti categoriali della topografia dell’aldilà,
dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa
degno; ossia, nella specifica dislocazione assegnata alle varie
anime dalla Giustizia suprema non disgiunta da la bontà infinita
[che] ha sì gran braccia, / che prende ciò che si
rivolge a lei.
Soffermiamoci per poco sulle figure femminili sopra evocate, per
riprendere poi il filo esegetico del nostro autore. Dante è
nel girone degli accidiosi e cade in un profondo sonno, in cui gli
appare una femmina balba / ne li occhi guercia, e sovra i piè
distorta, / con le man monche, e di colore scialba; il poeta la
guarda e, suo malgrado, la trasfigura in dolce sirena canora. Altra
apparizione attira poi l’attenzione del pellegrino smarrito:
una «donna santa e presta», che si affretta a smascherare
la seduttrice, «fendendo i drappi» e sprigionandone
un tal «puzzo» da svegliarlo.
L’ascesa per la montagna è naturalmente faticosa per
il nostro pellegrino, non ancora sgombro della «carne d’Adamo».
Perciò Dante ha immaginato d’essere stato colto dal
sonno per tre volte, l’ultima in prossimità della “foresta
spessa e viva” del Paradiso Terrestre, con un sogno, presago
anche questo (anzi che il fatto sia, sa le novelle):
Giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
«Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’io mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio,
qui m’addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell’è dei suoi belli occhi veder vaga
com’io de l’addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l’ovrare appaga».
(XXVII,
97-108)
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Tralasciamo la fin troppo evidente allegoria delle due figure,
per richiamare l’attenzione su una terza donna, Matelda, che
«appresterà il salutar lavacro», e a tal fine
rimane presenza decisiva dal XXVIII al XXXIII della cantica. La
poesia come musica raggiunge, in questi canti finali, l’apice
della potenza espressiva, non senza l’essenziale apporto del
paesaggio edenico (Un’aura dolce senza mutamento / avere in
sé, mi feria per la fronte / non di più colpo che
soave vento; / per cui le fronde, tremolando, pronte / tutte quante
piegavano a la parte / u’ la prim’ombra gitta il santo
monte; XXVIII, 7-12).
Giova inoltre un altro pur minuscolo scorcio del paesaggio, che
ora diventa paesaggio ideale, archetipico. Di là dal «fiumicello»
(il Letè), appare a Dante «una donna soletta che si
gìa / e cantando e scegliendo fior da fiore / ond’era
pinta tutta la sua via». Allo stupore per tal vista si unisce
il desiderio di «intendere» che cosa canta: e Matelda
acconsente, avvicinandoglisi:
Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;
e fece i prieghi miei esser contenti,
sì appressando sé, che il dolce suono
veniva a me coi suoi intendimenti.
Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.
(ivi, 52-63)
|
Stralciamo dal commento del nostro Cosi:
Lia, oltre che nel rapporto mistico di vita attiva e di vita
contemplativa, prefigura Matelda anche nel canto: l’una
canta nella visione che ha il poeta - come era già
avvenuto per la femmina balba -; dell’altra è
descritto il canto reale. Entrambi i canti, monodici, preludono
alle melodie del Paradiso. Tecnicamente parlando, il canto
di Lia, il quale ha la movenza di una ballata e il ritmo di
un madrigale, riecheggia un po’ la cosiddetta Ballata
della ghirlandetta, quella che, tra le Rime di Dante, fu probabilmente
rivestita da una melodia (vd. Rime, ed. Contini).
|

Anche se, lo ripetiamo con Cosi, la Ballata è d’intonazione
idillico-amorosa, mentre il canto di Lia presagisce il risveglio
dal sonno ed è preludio dell’imminente incontro del
poeta con Beatrice: incontro mediato da Matelda. Il canto XXVIII,
del quale, qui dietro non abbiamo potuto riportare che pochi versi
dell’ouverture, per Cosi rappresenta un quadro policromo che
rispecchia la natura primaverile della «foresta spessa e viva»,
le cui foglie con il loro tremolio accompagnano il canto intonato
dagli uccelli:
Come in una tessitura contrappuntistica che operi sulla melodia
principale, detta anche tenor e con l’apporto di modulazioni
variate che potrebbero costituire una sorta di discanto […];
tutta la visione della foresta attraversata dal mormorio di
foglie e di canti è virtualmente un interludio sinfonico
che si leva tra il canto di Lia e quello venturo di Matelda
[…]. Sinfonismo puro e di straordinario colore impressionistico,
diremmo debussiano, capace com’è di coinvolgere
chi ascolta in una rete di sensazioni auditive e visive insieme,
attraverso un sottile intreccio di colori e di suoni, percepibile
per una serie di assonanze ricavabili dalle rime interne ed
esterne e che si possono assommare in due gruppi […]
costituendo così una singolare geometria musicale (nel
testo segue il grafico dei due gruppi).
|
Compiuto il rito della duplice immersione nel Letè, che
ha il potere di far dimenticare il «mal vissuto», e
nell’Eunoè, che risveglia la memoria del bene compiuto
in vita, agente Matelda, il poeta pellegrino conclude la seconda
traversata del suo viaggio ultraterreno:
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinnovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.
(XXXIII,
142-145)
|
Paradiso
«Come cresce bellezza d’animo, così cresce bellezza
di melodia»: è un passo tratto dal commento denominato
Ottimo dell’età di Dante, che Alessandro Cosi appone
quale epigrafe alla sezione del suo volume, dedicata alla terza
cantica, costituendone quasi il sigillo. Prima della esplicitazione
esemplificativa, riportiamo qualche scorcio dalle pagine introduttive:
L’armonia strutturale della Commedia, che si presenta
come il risultato di una corrispondenza costante tra le componenti
ideologico-morali e le risultanze lirico-estetiche […]
non poteva sperimentare meglio la sua complessa identità
se non nella stessa armonia sovrannaturale, rappresentata
dalla sinfonia delle sfere celesti.
|
Né l’armonia dei cieli poteva esaurirsi in una esperienza
sensibile, visiva e auditiva, quale viene evocata dal poeta nel
canto primo (Quando la rota che tu sempiterni / desiderato, a sé
mi fece atteso / con l’armonia che temperi e discerni, / parvermi
tanto allor del cielo acceso / de la fiamma del sol, che piaggia
o fiume / lago non fece alcun tanto disteso: I, 76-81); esaurirsi
cioè in un rapporto intercorrente tra moto, luce e suono,
elementi poi sempre costanti lungo l’ascensione dello straordinario
pellegrino, bonaventurianamente mistica; bensì implicare,
di sfera in sfera, anche una tensione tomisticamente razionalistica,
in funzione percettiva di una Verità assoluta, di per sé
gratificante e da rivelare all’universo mondo. Lo investirà
di questo compito il trisavolo Cacciaguida, nel predirgli il futuro
di exul immeritus:
[…] Coscienza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogni menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
(XVII,
124-129)
|

L’epos della vita interiore si risolve espressamente in un
tema sinfonico: nel Paradiso, dunque, la poesia come musica si manifesta
in una molteplicità di occasioni, che non può avere
riscontri nelle altre due cantiche: rivelandosi la vita interiore,
nell’Inferno, come dramma irresolvibile, e nel Purgatorio,
come elegia dolente e fiduciosa. Il tratto peculiare è, invece,
tra i beati, la «dolce sinfonia di Paradiso», che si
dilata e si intensifica di cielo in cielo, in corrispondenza della
psicologia degli spiriti e del potere attrattivo da essi esercitato
nella categoria di appartenenza. Ne è solenne preludio programmatico
la eccezionalità del suono e della luce che il viator ultraterreno
avverte nel distaccarsi dal Paradiso Terrestre e salire sino alla
sfera del fuoco: la novità del suono e il grande lume / di
lor cagion m’accesero un disio / mai non sentito di cotanto
acume (I, 82-84). Citiamo un interessante passo del discorso di
Cosi:
Dante aveva presente la teoria pitagorica e platonica dell’armonia
prodotta dal movimento delle sfere celesti. Teoria che Aristotele
aveva rifiutato e l’aristotelismo scolastico di Alberto
Magno e di Tommaso d’Aquino continuò a respingere
come erronea. A Dante invero essa era arrivata indirettamente
come filtrata attraverso la Politeia di Platone, la Repubblica
di Cicerone e i Commentari di Macrobio, prima, dalla dottrina
popolare poi (relativi rimandi, in nota).
|
Il primo saggio di canto liturgico a una voce è quello di
Piccarda che, a suggello del suo colloquio con Dante, intona l’Ave
Maria, «la preghiera più dolce dell’innografia
cristiana»: preghiera che, per una delle non poche simmetrie
dantesche all’interno del Poema sacro, ricompare per bocca
di San Bernardo, nell’ultimo canto: «Vergine madre, figlia
del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine
fisso d’etterno consiglio» (XXXIII, 1-3). Tra i vari
musicisti, annota il musicologo, che si ispirano al passo dantesco,
il Verdi con l’Ave Maria (1879) ottenne il risultato migliore:
«il pezzo consiste in una dolce melodia solistica per Soprano,
sostenuta da armonie affidate a soli archi». E la genesi dell’armonia,
sottolinea ancora Cosi, torna nelle parole di Giustiniano: «Diverse
voci fanno dolci note; / così diversi scanni in nostra vita
/ rendon dolce armonia tra queste rote» (VI, 124-126): armonia
ripresa e ricalcata, a passo di danza, col canto di alcuni versetti
latini della Vulgata di San Girolamo: «Osanna, sanctus Deus
sabaòth, / superillustraus claritate tua / felices ignes
horum malacòth» (VII,1-3). Ricalco sintomatico che
segue alla esaltazione della figura di Romeo da Villanova, exul
immeritus anch’egli, vittima di calunnie cortigiane:
Indi partissi povero e vetusto;
e se il mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo loderebbe.
(VI, 139-142)
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Non potendo, in questa sede, seguire Cosi in tutto il suo itinerario
esegetico, ci limitiamo a qualche altro passaggio a conferma della
catturante singolarità della sua chiave di lettura. L’intreccio
di canto e danza, segnacolo estremo della «poesia come musica»,
è ormai un dato strutturale acquisito dalla fantasia del
poeta, nel regno dell’aldilà «che solo amore e
luce ha per confine». Nel cielo di Venere, nella prospettiva
ermeneutica di Cosi, si segnala il primo saggio di polifonia celeste
nella rappresentazione degli spiriti amanti, disposti in cerchio
come anelli di una mistica catena:
E come in fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand’una è ferma e altra va e riede,
vid’io in essa luce altre lucerne,
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di lor viste interne.
(VIII,
16-21)
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Riguardo al riferimento musicale contenuto nella prima terzina,
va precisato, con Cosi, che, se nella Commedia prevalgono i canti
all’unisono, la polifonia, al tempo di Dante, aveva già
fatto notevoli progressi, come si rileva dalle due voci che dialogano
«in forma di organum melismatico», cioè quando
«una è ferma [tenor] e l’altra va e riede [superius]».
Ed in proposito nel libro si forniscono utili cenni storico-tecnici,
sul canto gregoriano e sulla liturgia ecclesiale, nell’Appendice
I.
La polifonia è ancora più marcata nel cielo del Sole,
tra spiriti sapienti, che in numero di ventiquattro si presentano
a Dante e Beatrice disposti in corone: l’una guidata da Tommaso
d’Aquino e l’altra da Bonaventura da Bagnoregio:
Io vidi più folgòr vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti […]
Poi, si cantando, quelli ardenti soli
si fuor girati intorno a noi tre volte,
come stelle vicine ai fermi poli,
donne mi parver, non da ballo sciolte,
ma che s’arrestin tacite ascoltando
fin che le nove note hanno ricolte.
(X, 64-66
e 76-81)
|
La scena di danza figurata riproduce la canzone a ballo, o ballata
(che Dante illustra nel De vulgari eloquentia, II, VII, 6 e III,
5-6), sicché, nel successivo riprendere a girare intorno
ai due, l’immaginazione del poeta evoca la ruota di un orologio,
che chiama in chiesa a cantare il Mattutino in onore di Cristo:
Indi, come orologio che ne chiami
nell’ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l’ami,
che l’una parte e l’altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che il ben disposto spirto d’amor turge.
(X, 139-144)
|
Nel cielo di Marte, tra gli spiriti combattenti per la fede, una
raffinata analogia musicale descrive la dolcezza di una eccezionale
melodia celeste, nella quale non si distinguono le parole ma che
è perciò stesso più intensamente percepita
nel suo insieme sino al “rapimento”.
E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così dai lumi che lì m’apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l’inno.
(XIV, 118-123)
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Eccezionale, si diceva, perché allo sguardo del pellegrino
si offre una moltitudine di spiriti luminosi, che «scintillando
forte» si muovono dall’uno all’altro braccio di
una croce greca, lungo la lista radiale. Il poeta ci introduce così
nel trittico (canti XV, XVI e XVII), centrale nella cantica, perché
particolarmente inerente all’exul immeritus per il suo incontro
qui con Cacciaguida che gli predice l’esilio:
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia.
Qual si partio Ippolito d’Atene […]
(XVII,
43-46)
|
Questo è il momento clou della visione, scrive Cosi, e il
poeta ancora una volta ricorre alla musica: di nuovo l’organo
è protagonista dell’artistica rievocazione; uno strumento
che parla sottovoce e fa nostalgia con quei suoni smorzati che sembrano
venire da lontano, preludio misterioso dell’ultima e crudamente
esplicitata profezia dell’esilio.
Proseguiamo nell’analisi. Non meno prodigiosa, nel successivo
cielo di Giove, tra gli spiriti giusti, è la loro disposizione
progressiva in lettere («nostra favella»), che scandiscono
la sentenza biblica: diligite iustitiam qui iudicatis terram, e
il conseguente evolversi della lettera finale emme nella figura
di un’Aquila parlante:
E quel che mi convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse incostro,
né fu per fantasia già mai compreso;
ch’io vidi e anche udii parlar lo rostro,
e sonar ne la voce e “io” e “mio”,
quand’era nel concetto e “noi” e “nostro”.
(XIX, 7-12)
|
Quanto stesse a cuore a Dante il tema della giustizia anche terrena
è documentato da tante sue pagine, e perciò non stupisce
che al cielo dei giusti abbia dedicato tanto spazio quanto a quello
dei militanti per la fede. E dei tre canti relativi, il XX è
quello musicale per eccellenza, a giudizio di Cosi, per il quale
la poesia, quando tocca l’apice espressivo, diventa essa stessa
musica. Qui, quando il rostro dell’Aquila tace, gli spiriti
sempre più luminosi intonano canti, che, «labili e
caduci», svaniscono dalla memoria del poeta. Tra i giusti
rifulgono di particolare splendore due pagani, l’imperatore
Traiano, che per il suo alto senso di giustizia «la vedovella
consolò del figlio», ed uno dei compagni di Enea, di
nome Rifeo, «iustissimus unus qui fuit in Teucris et servantissimus
aequi» (Eneide, II, 426-427). Cediamo la parola a Cosi:
Alla fine dello steso canto XX, alle ultime parole dell’Aquila
fa riscontro lo scintillio delle fiamme che circondano le
anime di Rifeo e di Traiano; Dante paragona codesto assenso
dei due pagani all’atto di un esperto citaredo che accompagna
con una serie di accordi un bravo cantante: la scena ritrae
uno squarcio di musica pagana, eseguita da un duo abile e
affiatato; nella quale, se al cantore è riservata la
parte principale, è compito del citarista sostenere
la melodia, come se lo strumento, esso solo, sia capace di
dare il giusto rilievo a quella voce:
E come a buon cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,
sì, mentre ch’ei parlò, sì mi ricorda
ch’io vidi le due luci benedette,
pur come batter d’occhi si concorda.
(XX, 142-147)
|
Ancora, non più che qualche altro fugace riscontro del libro
anche per ribadire la corrispondenza tra le componenti ideologico-morali
e le risultanze lirico-estetiche, subordinate entrambe alla riaffermazione
dei valori umani universalmente riconosciuti, anche se storicamente
entrati in crisi con il mutare dei tempi.
Nel cielo delle stelle fisse, si assiste al trionfo di Cristo, di
Maria e dei Beati, e insieme al trionfo di parola e musica, entrambe
chiamate ad esprimere esperienze sovrannaturali. Leggiamo le terzine:
Qualunque melodia più dolce suona
qua giù e più a sé l’anima tira,
parrebbe nube che squarciata tona,
comparata al sonar di quella lira
onde si coronava il bel zaffiro
del quale il ciel più chiaro s’inzaffira.
(XXIII,
97-102)
|
e il nostro esegeta:
Il linguaggio stesso subisce una profonda trasformazione,
ridisegnato in funzione musicale, come dimostrano certe rime
che si prestano ad una suddivisione in almeno tre gruppi,
in ciascuno dei quali circolano assonanze diverse: rime in
ella e in ere; rime in ona, in ora, in oro, in ori; rime in
ira, in iro, in iva. Molti di codesti suoni, che liberamente
si trovano nella terza cantica, nel canto XXIII tornano come
consociati, perché chiamati a descrivere un momento
solenne e commovente della visione, l’incoronazione della
Vergine che segue al trionfo di Cristo.
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Ne era stato antesignano l’arcangelo Gabriele (XXIII, 103-111),
alla cui Ave Maria, intonata nell’Empireo (XXXII, 94-99), risponde
dialogando «omnis chorus angelorum et beatorum», con
il secondo versetto della preghiera stessa: Dominus Deus noster
est tecum, benedicta tu de mulieribus. Poi lo straordinario viator
ultraterreno assiste all’ultima sinfonia di Paradiso e di tutta
la visione, la cui ultima scena conclusiva racchiude in sé
luce, canto e letizia, «fuse in un’unica, circolare,
perenne armonia». La poesia come musica, che vibra nella preghiera
di San Bernardo, raggiunge l’acme del sublime nell’antifrasi
finale:
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e il velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
(XXXIII, 142-145)
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Osserva Cosi:
La preghiera di San Bernardo, anche se formalmente non ha
a che fare con la musica, è virtualmente pervasa da
un lirismo melodico, sostenuto da un ardore mistico intenso,
ma ritmicamente controllato. Lo provano le musicazioni, più
o meno riuscite, elaborate a partire dal secolo XVI […]
Ma la fama doveva premiare solo Verdi (M. MILA, Verdi e Dante,
in L’arte di Verdi, Torino, Einaudi, 1980).
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Pascoli poeta-critico di Dante
Il titolo del saggio di Alessandro Cosi è di per sé
indicativo del taglio ricognitivo, qui adottato, nella lettura degli
ardui studi pascoliani su Dante (quasi duemila pagine in ventidue
anni), in massima parte raccolti nei tre più noti volumi,
Minerva Oscura, che esce nel 1898, Sotto il velame, nel 1900, e
La mirabile visione, nel 1901, cui vanno aggiunti altri, a cura
della sorella Maria, nella edizione postuma, Conferenza e studi
danteschi (1914).
Poeta-critico che equivale a dire che Pascoli finisce per applicare
i dettami della sua poetica decadente nell’interpretazione
dell’opera di Dante, dalla Vita nuova alla Divina Commedia;
con la scontata conseguenza che gli scritti pascoliani giovano più
a conoscere i fondali della poetica del “fanciullino”
e assai meno l’opera di Dante, nella sua inconfondibile autenticità;
a risalire cioè alle sorgenti del gusto dell’autore
delle Myricae e assai meno alle radici misteriose della segreta
anima dantesca. Pur riconoscendo l’imponente dottrina, profusa
dal Pascoli nelle sue pagine e che spazia, con assoluta familiarità,
dal mondo classico a quello medievale, dalla Bibbia alla Patristica,
alla Scolastica, resta il fatto che la sua interpretazione è
in gran parte fuorviante dalla secolare consolidata tradizione dell’esegesi
dantesca. Non è irrilevante che la stesura di questi suoi
studi ermeneutici proceda pressoché parallela con la produzione
poetica pascoliana, dalle prime Myricae ai Carmina, dal 1891 al
1911, perché è comune, nei due percorsi, lo stato
d’animo ingenuo e incantato del “fanciullino”; con
la variante, però, che questo stato d’animo ha reso
possibile una radicale innovazione nel linguaggio della poesia italiana,
cui è debitore gran parte del Novecento, mentre labili e
incerte tracce ha lasciato nella storia della critica dantesca (cfr.
A. Vallone, Il pascolismo allegorico-morale, in La critica dantesca
contemporanea, Pisa, Nistri-Lischi, 1953).
Torniamo ad Alessandro Cosi, per il quale:
I saggi danteschi del Pascoli, se ai loro tempi non ebbero
– né in realtà potevano avere, dati gli
ambienti culturali in cui erano maturati – il riconoscimento
ufficiale che l’Autore si aspettava, hanno tuttavia costituito,
nell’arco di un secolo un punto di riferimento costante
e ineludibile, anche se talvolta inficiato da pregiudizi frettolosi
e malevoli, per le tappe percorse dalla critica militante
sino ai nostri giorni.
|

L’intento del nostro studioso è dunque quello di un
recupero del Dante pascoliano, per quel tanto che esso può
conservare di ancora fruibile, se non in senso strettamente esegetico,
almeno sul piano dell’erudizione; in linea, peraltro, con uno
dei suoi Maestri dell’Ateneo napoletano, Salvatore Battaglia,
il più impegnato e convinto – postilla l’allievo
– nella ricostruzione critica, non preconcetta dell’originale
interpretazione, data a suo tempo dal Pascoli all’opera di
Dante. Personalmente, però, non ritengo che si possa contestare
che detti studi pascoliani nascano condizionati da un fervore mistico,
che ignora le ragioni profondamente poetiche della Commedia, la
complessa humanitas dell’ispirazione dantesca, di qua dalle
implicazioni allegorico-morali. Leggiamo un passo della dedica di
Minerva Oscura:
Era da cinque anni il mio lavoro segreto e prediletto: lo
meditavo per giorni interi e ne sognavo (sorrida o rida chi
vuole; ma è vero) le notti. Era la mia compagnia, il
mio conforto, il mio vanto. Dai dispregi che mai non mi sono
mancati, io mi rifugiavo nell’oscuro tesoro delle mie
argomentazioni e divinazioni; le contavo e ripetevo, e ne
uscivo raggiante di solitario orgoglio. Aver visto nel pensiero
di Dante! Io ricordavo spesso quell’affermazione, che
si legge nel Convivio di lui e che è riportato nel
cap. II di questi Prolegomeni: La vera sentenza… per
alcuno vedere non si può, s’io non la conto; ed
estendevo alla Commedia ciò che egli dice delle canzoni
conviviali; e soggiungevo: E io, la vera sentenza, io la ho
veduta! Sì, io ero giunto al Polo del mondo dantesco,
di quel mondo che tutti i sapienti indagano come opera di
un altro Dio! Io avevo scoperto, in un certo modo, le leggi
di gravità di questa altra Natura, e questa altra natura,
la ragione dell’Universo Dantesco, stava per svelarsi
tutta!
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È chiaramente un approccio aprioristico, gratuitamente divinatorio,
che la critica dantesca, dei D’Ovidio, Ascoli, Carducci, Barbi,
Comparetti, D’Ancona, respingeva drasticamente; e la Minerva
Oscura fu subito battezzata “Minerva Oscurata”.
Né migliore accoglienza ottenne il successivo Sotto il velame,
che aveva il compito di chiarire o integrare oscurità e argomentazioni,
segnalategli da amici e sodali, dal Pietrobono (autore del notissimo
commento della Commedia) a Luigi Valli (che ai lavori pascoliani
dedicherà due amplissime ricerche: Le allegorie di Dante
secondo Giovanni Pascoli e Il segreto della Croce e dell’Aquila
nella Divina Commedia), a Ermenegildo Pistelli, filologo tra i più
agguerriti ed emerito dantista egli stesso (oltre che curatore dell’edizione
critica dei Carmina pascoliani).
Ebbene, proprio dal Pistelli furono espresse pesantemente riserve,
pur se in forma larvata, come ci riferisce il nostro Cosi:
Tornarono puntuali quando l’amico Pistelli non senza
impaccio recensiva Sotto il velame sul Bullettino della Società
Dantesca, per incarico dello stesso Barbi. Il Pistelli, sia
pure con toni sfumati, condannava lo stile involuto dell’opera;
ma l’attacco alla forma era solo una garbata metafora,
giacché le accuse erano in sostanza dirette al metodo,
nel senso che al Pascoli non veniva riconosciuto nessun metodo,
essendo egli andato avanti sotto la spinta di occasionali
intuizioni. Insomma, al massimo gli si concedeva […]
la pretesa di aver tentato il disegno mistico della Commedia,
la cui scoperta l’incauto critico rivendicava a sé
solo, con orgogliosa quanto ingenua sicurezza (rimando con
Cosi a Vallone, Dante e Pascoli nelle lettere inedite di Pistelli
e Pietrobono, nella raccolta Capitoli pascoliano-danteschi,
Ravenna, Longo, 1967).
|
Della recensione del Pistelli si dolse il Pascoli, al punto da definirlo
(ipersensibile e ombroso qual era), in una lettera a Pietrobono,
«amico di tutti i miei nemici», quasi «un traditore».
Ma anche per un altro motivo, il Pistelli, in virtù del vecchio
principio “magis amica veritas”, era intervenuto, e in
proposito fa luce il paragrafo I precursori del Pascoli. Questi
sono da individuare nel Foscolo, per certa concezione laica ed anticuriale
che Dante avrebbe simbolicamente esposto nella Commedia (la nota
tesi foscoliana del ghibellinismo dantesco di contro alla tommaseana
del guelfismo), ed in Gabriele Rossetti (il patriota napoletano
espatriato in Inghilterra, dopo il fallimento dei moti del 1820),
la cui interpretazione misteriosofica, prolissamente esplicitata
nel Commento analitico alla Divina Commedia, verteva sul duplice
concetto dell’allegoria unitaria, comprensiva, cioè,
di tutta l’opera dantesca, dalla giovanile Vita nuova, al Poema
sacro, e del poeta costitutivamente ispirato, avvezzo perciò
al linguaggio esoterico dei «fedeli d’amore».

Né mancava, nel discorso rossettiano il presupposto (del
tutto arbitrario ma condiviso dal Pascoli), secondo cui Dante aveva
posto mano al poema non prima del 1313, al tempo cioè del
definitivo rifugio a Ravenna dell’exul immeritus. Deluso per
il fallimento dell’impresa dell’imperatore Arrigo VII
(«l’alto Arrigo»), Dante avrebbe radicalizzato
il suo ghibellinismo ed esasperato la sua posizione antipapale,
trasferendo il tutto in una dimensione politica, che era, come rileva
giustamente Cosi, del tutto anacronistica rispetto alla realtà
storica del tempo. In Ravenna, dunque, conclude il Pascoli, ebbe
inizio e fine la composizione della Commedia, come nella pineta
di Classe va identificato il modello della selva oscura dell’Inferno
e della divina foresta del Purgatorio.
La città è antica – scrive esultante il
poeta-critico –. È piena di chiese e di santi.
Sono in quelle chiese teorie di santi estatici che hanno riflessi
di cieli […] per certo in quella errò meditabondo.
E da una selva comincia il poema. Il viatore cammina da una
selva selvaggia a una divina foresta; poi da viatore si fa
comprensore e ascende. Là dove ascende, udrà
parlare Giustiniano e gli apostoli, vedrà trionfare
il Redentore le cui immagini ammira già nei musaici
orientali di San Vitale. L’esultanza poi spinge il Pascoli
a pensare di dedicare La mirabile visione “a Ravenna,
patria della Divina Commedia”.
|
Evidente è, infatti, a suo giudizio, il rapporto tra le basiliche
di San Vitale e di Sant’Apollinare e la Divina Commedia. Insomma,
per dirla con Cosi, quello di Dante sarebbe stato un viaggio vissuto
a livello inconscio e di cui non restano che immagini misteriose,
sfumanti nella memoria che guarda ormai lontano: viaggio ripercorribile
da ogni lettore del poema.
Il grave limite di tale interpretazione serve, paradossalmente,
soltanto a spiegarci l’attrazione mistica del poeta-critico
per l’oggetto dei suoi studi danteschi, e la presunzione di
possedere in assoluto una chiave di lettura indefettibile. Questa,
fra l’altro, gli avrebbe assicurato una fama für ewig,
assai più della stessa opera poetica. Nella prefazione dei
Poemi conviviali (1904), scrive:
Non mi dorrebbe molto se questi poemi avessero la sorte di
quei volumi danteschi. Essi furono derisi e depressi, oltraggiati
e calunniati, ma vivranno. Io morrò e quelli no. Così
credo, così so: la mia tomba non sarà silenziosa.
Il Genio di nostra gente, Dante, la additerà ai suoi
figli.
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Tuttavia l’azzardo dell’allegoria totalizzante è
in qualche misura riscattabile dalla forte tensione ideale che attraversa
i detti scritti danteschi. L’insistenza unilaterale del Pascoli
sui simboli della Croce e dell’Aquila, in funzione di una renovatio
mundi, va ricondotta nel contesto storico di fine secolo, segnato
da violenti scontri sociali e da apocalittiche paure, cui il poeta
dava anche voce nel poemetto Gog e Magog. Sicché – e
ne è convinto Alessandro Cosi – nelle aspirazioni che
Dante aveva coltivato a Ravenna, dove questi si era rifugiato dopo
la morte di Arrigo VII, il Pascoli ravvisava una sempre più
appagante congenialità con le sue proprie convinzioni improntate
anch’esse all’avvento di una giustizia sociale, che solo
un programma d’impegno politico superpartitico avrebbe potuto
realizzare nel mondo senza pace.
Il socialismo umanitario, affrancatosi dal classismo marxistico,
riprendeva così, per la via di un altro poeta in veste di
critico irregolare, il messaggio dantesco di una pace sociale, che
non più un uomo solo, sia pure inviato da Dio, ma tutti i
popoli, affratellati dal comune dolore di secolari ingiustizie,
avrebbero finalmente conquistato.
Ma le sudate carte avrebbero riservato al poeta-critico l’ultima
più cocente delusione. Più che mai gli era pesato
il “silenzio” su di esse del Carducci, già suo
Maestro a Bologna, e sulla cui cattedra prestigiosa intendeva succedere
proprio in virtù dei suoi studi danteschi, nel 1905, con
la di lui collocazione a riposo, dopo quarantaquattro anni d’insegnamento
ormai leggendario. Intenzione, questa, che Vittorio Cian, suo collega
ed amico nell’Ateneo pisano, cercò di scongiurare: insostenibile
sarebbe stato il confronto tra le due metodiche esegetiche: il Dante
del Pascoli resta un Dante fuori tempo, sradicato dall’età
che era la sua, troppo personalizzato e perciò snaturato
della sua vera essenza poetica ed umana; il Dante del Carducci è
tutto immerso nel mondo umano; leggiamo un passo di una delle sue
memorande lezioni sullo Svolgimento della letteratura nazionale:
«Egli giunse a tempo a raccogliere in sé i riverberi
delle mille e mille visioni del medio evo e a rispecchiarli potentemente
uniti sul mondo; giunse a tempo a chiudere con un monumento gigantesco
l’età dell’allegoria».
Fu così che, una volta salito su quella cattedra, fra ansie
e trepidazioni, il Pascoli si avvide egli stesso della scarsa risonanza
del suo insegnamento nell’ambiente accademico, studentesco
e cittadino.
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