I dati statistici
dimostrano che tra il 2001 e il 2005, più che cambiare pelle,
molte
imprese lhanno
lasciata sul campo, con parecchia
soddisfazione
da parte dei
sostenitori della selezione
darwiniana.
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Tema del momento, la ripresa: una specie di ritorno di fiamma,
o, come è stato definito, un nuovo innamoramento, nei confronti
di soggetti che per una lunga epoca nel dibattito politico, economico
e sociale sono stati considerati perdenti, come le piccole e medie
imprese, i distretti industriali e i settori considerati maturi
del made in Italy. Anche molti declinisti sembrano essersi
ravveduti, folgorati al modo di San Paolo sulla via di Damasco.
Anche se alcuni non ci vogliono stare, e puntualizzano, esaltando
quella che ritengono una selezione darwiniana, che si
sarebbe verificata con luscita di scena delle aziende più
deboli e con la ripresa agganciata dallemersione delle imprese
migliori, cioè quelle che hanno cambiato pelle.
In altre e più concrete parole: abbiamo fatto bene a non
porre barriere doganali contro la Cina, perché è stato
proprio questo Paese a costringerci a diventare migliori; per di
più, non avendo contrastato il dumping, ce lo siamo mantenuto
amico, e questo fatto costituirebbe un cospicuo investimento per
quel futuro in cui le nostre piccole e medie imprese troveranno
finalmente il coraggio di puntare su quel mercato, che è
un vero e proprio Eldorado.

È un discorso che mette a nudo una gran confusione di idee,
non solo perché si continua a credere che la Cina costituirà
uno sbocco straordinario per le nostre aziende esportatrici, se
queste diventeranno virtuose come, ad esempio, quelle tedesche.
Con ciò sopravvalutando la Cina (mentre il nostro vero Eldorado
è lEst europeo) senza sapere, fra laltro, che
anche la Germania oggi esporta in Cina la metà di quel che
esporta in Austria (così come noi esportiamo a Pechino la
metà di quello che vendiamo alla Svizzera). Ma anche perché
ci sembra che pochi avevano capito prima perché leconomia
italiana non cresceva (e la concorrenza della Cina centrava
parecchio) e pochi hanno compreso ora perché dallautunno
del 2005 il nostro Paese abbia ricominciato a crescere.
Nella confusione in cui sembra essere precipitato il dibattito,
la fioritura di luoghi comuni è stata straordinaria. Lultima
campagna elettorale, per esempio, è stata giocata in tutto
e per tutto sul tema dellItalia allo sfascio, grazie anche
al contributo di organi di stampa stranieri considerati (ma questa
volta a torto) autorevoli, e sullesaltazione dei
modelli di sviluppo di altri Paesi. Ora che cè in atto
una ripresa, non proprio recentissima, e che i conti pubblici non
sembrano poi così drammatici (sebbene lo stock del debito
resti un fardello insopportabile), la preoccupazione di molti commentatori
sembra essere quella di adattarsi al nuovo clima euforico, magari
con un po di contorsionismo. Tanto, che qualche noto economista
è riuscito persino a smentire se stesso nello spazio di un
mattino.
Come coloro i quali sostenevano tre anni fa che la colpa della bassa
crescita dellItalia era la sua specializzazione nei settori
maturi, e ha invece poco fa affermato che la sua forza è
proprio in quei settori. Oppure chi solo pochi mesi addietro sosteneva
che le imprese italiane erano troppo manifatturiere e che lItalia
avrebbe dovuto disfarsi di una forte quota di industrie marginali,
abbandonandole ai Paesi emergenti, mentre ora attribuisce il merito
della ripresa proprio alle aziende manifatturiere, incluse quelle
che operano nei settori maturi.

Noi non abbiamo mai creduto a un vero e proprio declino dellItalia
industriale. Abbiamo messo in evidenza più volte che i settori
tipici del made in Italy (le cosiddette 4A), anche dopo
lo tsunami di una concorrenza cinese che non ha precedenti, generano
uno straordinario surplus commerciale con lestero di oltre
100 miliardi di dollari. Segno che, nonostante la forza delleuro
che non facilita lexport, questi settori sono rimasti in piedi
e che probabilmente fra dieci anni saranno ancora vivi, quando la
Cina avrà spostato il baricentro della pressione competitiva
verso altre produzioni manifatturiere, come lauto, la chimica-farmaceutica
e lelettronica di consumo.
A quellepoca, quando il gigante asiatico sfiderà le
multinazionali americane, giapponesi e tedesche in quei settori,
si vedrà se anche lhi-tech che ci manca e che altri
hanno (quello che è stato mitizzato dai declinisti) saprà
dimostrare la stessa capacità di assorbimento dello shock
cinese che i nostri settori maturi hanno dovuto subire per primi.
I 100 miliardi di dollari di surplus del made in Italy dimostrano
anche che la ricetta della delocalizzazione, che molti ci vorrebbero
propinare in dosi da cavallo seguendo il modello tedesco, fortunatamente
è stata seguita solo in minima parte dalle nostre imprese.
E speriamo che continuino su questa linea, andando allestero
soltanto ove realmente sia utile per sopravvivere o per conquistare
nuovi mercati. Anche in questa materia i luoghi comuni e gli slogan
più o meno interessati si sono sprecati, anche perché
alcune aziende quasi decotte sono state costrette a giustificare
la scelta di chiudere gli stabilimenti italiani e andare allestero,
presentando questa decisione come modernismo anziché come
ultima spiaggia.
Così, abbiamo sentito sostenere che «bisogna mantenere
la testa in Italia e produrre fuori», oppure che «occorre
puntare sul designed in Italy e non più sul made in Italy».
Discorsi poco assennati, dal momento che la logica imporrebbe che
un Paese capace di produrre nei confini nazionali 100 miliardi di
dollari di surplus commerciale manifatturiero dovrebbe avere come
interesse primario la tutela e promuovere il made in Italy (ciò
che non solo è disegnato, ma viene anche prevalentemente
prodotto in Italia, generando Pil e occupazione), e non il semplice
designed in Italy di pochi delocalizzatori, per quanto potenti e
persino influenti.
Siamo poi anche convinti che le nostre imprese non abbiano cambiato
pelle più di tanto. Erano capaci di competere prima dello
tsunami cinese e sono capaci di farlo anche ora. Certamente, hanno
adottato qualche contromossa per adattarsi alla globalizzazione
selvaggia. Ma se ora cè la ripresa, non è perché
disponiamo di battaglioni di imprese totalmente diverse da quelle
che avevamo prima. È semplicemente perché, dopo aver
subìto per lungo tempo unemorragia di fatturati e posti
di lavoro, era evidente che prima o poi si sarebbe toccato il fondo,
per poi rimbalzare. Il fondo è stato raggiunto precisamente
nella prima metà del 2005, e da allora lindustria ha
ricominciato a crescere. Certo, sarebbe stato preferibile raggiungere
questo traguardo facendo risparmiare un po di sofferenze alle
nostre imprese (che pure ripetevano, inascoltate, che la Cina era
il loro principale problema), ed evitando di perdere in quattro
anni decine di migliaia di occupati e 10 miliardi di attivo commerciale
nella moda e nellarredo-casa per la concorrenza asiatica.
Perché, secondo gli organi responsabili del settore, le aziende
italiane sono state lasciate in balia degli eventi. Non le ha aiutate
unUnione europea più disposta ad ascoltare le lobbies
degli importatori dalla Cina. Non le hanno aiutate nemmeno i nostri
governi, ad eccezione forse degli ultimi due ministri per il Commercio
estero. Né hanno contribuito a fare chiarezza gli opinionisti
italiani, che in questi anni hanno negato levidenza dei dumping
cinesi e sono arrivati a stigmatizzare lintroduzione di modesti
dazi sulle calzature provenienti da Pechino, a fronte di un concreto
e clamoroso caso di dumping accertato dalla stessa Commissione europea.
Le voci preoccupate sul tema Cina, infine, sono state isolate e
criticate perché non politically correct.
Dunque: bentornata ripresa! Ma è bene ricordare quanto è
stato duro per le nostre imprese affrontare il periodo 2001-2005.
I Sistemi locali di lavoro (SLL) più colpiti, in quella fase,
sono stati quelli calzaturieri, del tessile e dellabbigliamento,
dellocchialeria, delle pietre ornamentali e dei casalinghi.
Molti SLL, come Biella, Fermo, Trifase, Castrano, Verona, Lumezzano,
Santa Croce, secondo lIstat nel periodo critico hanno perso
oltre il 10 per cento degli addetti.
Altri, come Prato, Arezzo, Barletta, Busto Arsizio, Belluno, Sassuolo,
Carpi, Gorizia, Civitanova Marche, Vicenza, Montebelluna, nello
stesso periodo hanno visto diminuire gli addetti nellindustria
tra il 5 e il 10 per cento, esattamente come lSll di Torino,
prima della cura Marchionne in Fiat.
Gli SLL meno concentrati su produzioni esposte allaggressività
asiatica o più diversificati hanno invece contenuto le perdite
nelloccupazione industriale al di sotto del 5 per cento, o
lhanno addirittura accresciuta, sia pure di poco: Borgomanero,
Pesaro, Chiari, Pordenone, Viareggio, Parma, Langhirano, Forlì,
Altamura e Matera (questi ultimi due Sll hanno tuttavia avuto una
crisi nel 2005-2006). Nel 2001-2004 in totale si sono persi 250
mila posti di lavoro nellindustria. Loccupazione ha
poi subìto flessioni significative in molti Sll della moda
e dei divani, mentre già si sono cominciati a manifestare
i primi sintomi di ripresa in alcuni Sll della meccanica, delle
piastrelle, dei mobili, dei prodotti in metallo e degli articoli
in gomma e plastica.
In definitiva, i dati statistici dimostrano che tra il 2001 e il
2005, più che cambiare pelle, molte imprese lhanno
lasciata sul campo. Con parecchia soddisfazione da parte dei sostenitori
della selezione darwiniana, che tuttavia è bene
che si annotino un dato: a fine recessione, dopo le perdite di addetti,
loccupazione manifatturiera in molti Sll è ancora più
del 40 per cento (se non più del 50-60 per cento) di quella
totale. Segno che il modello di sviluppo italiano è più
difficile da annichilire di quanto non pensino gli ammiratori dei
modelli di altri Paesi.
Gli stessi che oggi inneggiano alla ripresa. Ma non ci meraviglieremmo
affatto se, ai primi sintomi di rallentamento, tornassero a dare
la colpa di tutto ciò che non va in Italia, come da copione,
alle piccole e medie imprese e ai settori maturi.
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