Una parte almeno dell’Europa
continua dunque
a procedere
con successo:
non possiamo ignorarlo, mentre prendiamo atto, con amarezza,
del tramonto del sogno dell’Europa politica.
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«Lo tsunami è stato evitato ma il ciclone – anzi
una serie di cicloni – purtroppo no». Le parole (nostre)
riportate qui sopra tra virgolette e apparse su questa Rivista sembrano
un appropriato commento a un fatto recente: il Consiglio europeo
svoltosi a Bruxelles il 22 e il 23 giugno di quest’anno. Lo
sembrano, ma non lo sono. Sono state pubblicate su Apulia due anni
fa a proposito di fatti avvenuti tra il maggio e il giugno del 2005,
quando lo tsunami dei risultati negativi dei referendum francese
e olandese si abbatté sul progetto di Costituzione dell’Unione
e un Consiglio europeo, prendendone atto, decise di aprire una pausa
di riflessione auspicando che essa servisse prima a curare le ferite
e poi a far rimarginare le cicatrici che si erano create nel fino
ad allora complessivamente sano e robusto organismo dell’Europa
integrata.
Trascorsi due anni, conclusa la pausa di riflessione, proprio nel
momento culminante delle festose celebrazioni del primo mezzo secolo
di vita dell’Unione europea, e proprio mentre un Eurobarometro
annunciava il sì al progetto costituzionale di due su tre
dei 483 milioni di cittadini dell’Europa comunitaria, lo tsunami
è tornato improvvisamente a colpire. Lo ha fatto con i disastrosi
risultati del vertice svoltosi a Bruxelles lo scorso giugno. Ecco
perché il nostro commento del 2005 torna ad essere pienamente
valido due anni dopo. Un ritocco è semmai opportuno solo
per il titolo. Quello del 2005 fu “Danni seri ma non irreparabili”.
Quello del 2007, con un pizzico di pessimismo in più, diventa
invece, come avete visto, “Danni ancora più seri ma
forse riparabili”.

E speriamo di non sbagliare: dato che non si può, davanti
al giugno di Bruxelles e ai suoi immediati sviluppi, evitare di
chiedersi se i danni che ci troviamo a registrare siano davvero
ancora riparabili dopo che il Consiglio europeo, cedendo, nonostante
le resistenze di alcuni Paesi (tra cui l’Italia), al fuoco
anticomunitario della Gran Bretagna e della Polonia, ha seppellito
il progetto di Costituzione, sostituendolo con un progetto di trattato
in cui si rinuncia alla bandiera con le dodici stelle, all’Inno
alla Gioia, a un motto che era una sintesi di uno dei più
esaltanti impegni politici dell’Unione (“Unità
nella diversità”) e in cui, inoltre, si rinvia al 2014
(e per la Polonia addirittura al 2017) l’adozione del sistema
della doppia maggioranza (55% degli Stati membri e 65% dei cittadini
rappresentati) ideato per liberare le decisioni legislative del
Consiglio dei Ministri dal cappio paralizzante del possibile ricorso
al diritto di veto anche da parte di un solo Paese.
C’è chi crede, o almeno spera, che i danni siano ancora
riparabili. E chi invece vede un nero totale nel futuro di un’Europa
comunitaria che, come tante imprese e avventure politiche del passato,
potrebbe essere entrata in un processo di autodistruzione dovuto
sia a un’eccessiva crescita delle sue dimensioni (è
passata in cinquant’anni da sei a ventisette Stati membri)
sia alle contraddizioni e ai contrasti tra Paesi che sono entrati
nell’Unione partendo da esperienze politiche e condizioni economiche
molto diverse le une dalle altre.
I mesi che ci dividono dalla fine dell’anno, dunque dagli esiti
della conferenza intergovernativa incaricata di preparare la bozza
del nuovo trattato, daranno più forza all’una o all’altra
posizione. È un fatto che – come ha sottolineato il
nostro Presidente della Repubblica a Vienna, all’indomani del
Consiglio europeo del 22-23 giugno – ormai sono scontati un
«impoverimento e una frammentazione» del testo solennemente
approvato il 29 ottobre 2004 dai capi di Stato e di governo dell’Unione
riuniti a Roma nella sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio,
nella stessa sede in cui, nel 1957, furono firmati i trattati che
istituirono la Comunità europea.
Resta da vedere se le perdite di forma e di contenuto subite a Bruxelles
in giugno si aggraveranno ulteriormente. La Polonia dei gemelli
Lech e Jaroslav Kaczynski ha già preannunciato nuove richieste.
Di fronte a queste e ad altre uscite Prodi ha sostenuto che molti,
in seno allo stesso vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione,
«hanno perduto lo spirito europeo». Neppure nella versione
molto riveduta e ancor più corretta proposta dal vertice
di giugno a Bruxelles il nuovo trattato dell’Unione promette
dunque di avere vita facile. Con la conseguenza che altre brutte
sorprese non possono essere escluse a priori.
In attesa di vedere come andrà a finire, cresce la convinzione
in una buona parte sia della classe politica sia degli stessi cittadini
che si stiano creando, anzi siano in parte già operanti,
le premesse per una svolta radicale nel processo d’integrazione
europea.
A nostro parere la svolta alla quale da Bruxelles è stato
dato l’avvio sta ricacciando inesorabilmente verso l’utopia
delle lontane origini il sogno degli Stati Uniti d’Europa,
cioè di un’Unione federale, che con il Mercato Unico,
la partenza dell’euro, alcuni traguardi raggiunti dal processo
di allargamento (forse il più importante fu l’Europa
dei quindici) era sembrata realizzabile, anzi a portata di mano.
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni si rivolteranno
nella tomba e i milioni di uomini e donne che hanno fatto proprie
le idee di questi e altri padri fondatori del progetto di Europa
Unita si sentiranno parte di un esercito di sconfitti e saranno
esposti alla tentazione di gettare la spugna, anche se in una parte
almeno di loro potrà sopravvivere la speranza di un miracoloso
rilancio dei progetti federali.
Alla fine di giugno, a Roma, abbiamo avuto occasione di partecipare
a una riunione del Consiglio Italiano del Movimento Europeo (all’organizzazione
aderiscono in Italia e negli altri Paesi dell’Unione tutte
le maggiori associazioni che partecipano alla battaglia europeistica)
e siamo stati testimoni della nascita di un impegno corale per salvare
prima e rilanciare poi la prospettiva dell’Europa federale.
E manifestazioni di questo genere durante l’estate si sono
moltiplicate su tutto il territorio dell’Unione gettando tra
l’altro le basi per un coinvolgimento dell’opinione pubblica
attraverso referendum, raccolta di firme, manifesti.
L’europeismo è dunque seriamente ferito, ma non sottoscrive
ancora l’atto di resa. E tuttavia è impressione nostra
– e purtroppo anche di molti altri – che esso non disponga
di forze sufficienti per impedire il successo della svolta di cui
i referendum del 2005 hanno creato le premesse seguite, con il Consiglio
europeo di questa estate, dalla partenza di un’operazione che
giorno dopo giorno si fa sempre più inarrestabile.
Questa svolta ora, dopo il vertice di giugno, procede a viso aperto,
senza più nascondere, o solo mimetizzare, le sue intenzioni
e i suoi obiettivi. Accantona il progetto degli Stati Uniti d’Europa,
vale a dire di un’Europa federale, ma punta a realizzare la
più grande area di collaborazione economica, sociale e culturale
esistente al mondo e a stabilire, parallelamente, con le cooperazioni
rafforzate, una più piccola alleanza politica che potrà,
se funzionerà, avere peso e influenza sul piano internazionale,
contribuendo tra l’altro alla salvaguardia mondiale della pace.
La prospettiva che ne esce è diversa, diversissima da quella
disegnata dal “Manifesto di Ventotene”, dai progetti di
Jean Monnet, dai confronti tra Adenauer e Schuman. Si capisce dunque
che essa, a primo impatto, possa far inorridire e soffrire molti
europeisti. Ma è davvero tutta da buttare nel cestino o presenta
aspetti degni di attenzione, di riflessione e, specie se interverrà
la collaborazione degli europeisti, anche di approvazione?
Noi crediamo che la risposta a questo interrogativo richieda una
spassionata riflessione in cui si mettano a confronto i vari aspetti,
negativi e positivi, del problema. Crediamo anche che le scelte
e i giudizi che saranno la conseguenza di tale risposta non potranno
prescindere da una realistica valutazione di quanto tutti noi, 483
milioni di cittadini dell’Unione europea, abbiamo ottenuto
dal processo d’integrazione e salvo forme di cataclisma politico,
economico, naturale oggi assolutamente imprevedibili, dovremmo riuscire
a mantenere. Ovunque ci porti la svolta, comunque funzionino quelle
che, con il tempo, potranno diventare due Europe, la più
grande, quella economica e la più piccola, quella politica,
è inimmaginabile che il territorio occupato dall’Unione
dei 27 Paesi possa cessare di essere la più grande area di
pace e di democrazia esistente al mondo, la sede della maggiore
potenza commerciale internazionale e delle più generose donazioni
ai Paesi sottosviluppati, un luogo dove la salute, l’alimentazione,
l’ambiente godono di protezioni non esistenti in altri continenti,
un laboratorio di iniziative per favorire la crescita economica
e l’inclusione sociale delle classi più povere, dei
disabili, dei giovani, degli anziani.
Riteniamo che a questo punto sia facilmente prevedibile il punto
d’arrivo del giudizio nostro e, speriamo, di molti altri. Abbiamo
molte ragioni per sentirci delusi dal tramonto, ormai quasi certamente
inevitabile, dei progetti di Spinelli, Schuman, De Gasperi, Adenauer,
Monnet e anche dei giovani tedeschi e francesi che nel 1945 insieme
abbatterono i paletti di frontiera dei ponti del Reno e insieme
applaudirono alla nascita di una fratellanza europea. L’Europa
politicamente unita in una federazione non è nata e ha poche
possibilità di nascere nel vicino e forse anche lontano futuro.
I prossimi allargamenti ai Paesi dell’area balcanica, forse
anche alla Turchia, non faciliteranno una maggiore coesione politica.
Potrebbero addirittura renderla impossibile. Tutto questo però
non impedirà il progresso e il rafforzamento di quella che
Altiero Spinelli aveva definito “l’Europa dei mercanti”
e che sempre di più si sta però caratterizzando, per
il suo lavoro, come “l’Europa dei cittadini”, cioè
una collaborazione di Stati (oggi 27, domani forse 30, anche di
più) volta a migliorare le condizioni di esistenza delle
centinaia di milioni di uomini e donne che la popolano. I prevedibili
nuovi insuccessi politici cioè non basteranno a oscurare
o solo offuscare il successo di quella che noi da sempre, su questa
Rivista, abbiamo chiamato l’Europa utile, forse, anzi, le daranno
addirittura la possibilità di agire finalmente sotto la luce
dei riflettori, di diventare protagonista delle prime pagine dei
giornali.
La svolta ci sta in definitiva imponendo una doppia Europa: quella
più grande, e probabilmente destinata a ingrandirsi ulteriormente,
dei vantaggi per tutti i cittadini; e quella politicamente impegnata
e influente cui darà un concorso attivo solo un gruppo di
Paesi. Non c’è dubbio che, rispetto agli anni della
partenza, il processo d’integrazione ha già subìto
e continua a subire, nella forma, perdite rilevanti. In compenso,
ci ha già dato e continua a dare una crescente quantità
di benefici. E altri li promette per il futuro.
Pochi giorni prima del disastroso vertice di giugno, la Commissione
europea ha annunciato una direttiva che potrebbe dare un notevole
contributo alla soluzione del problema dell’immigrazione clandestina,
un fenomeno che ogni anno coinvolge, nell’Unione, poco meno
di mezzo milione di disperati provenienti dalle zone più
povere del mondo. Per frenare questo flusso – che annualmente
è causa di 3-4.000 morti e rende possibili forme di vero
e proprio sfruttamento schiavistico (ci sono immigrati irregolari
che lavorano per 12-16 al giorno per un salario di trenta euro e
senza le più elementari garanzie nel campo della sicurezza)
– la Direttiva sta predisponendo norme che renderanno obbligatorie
severe forme di controllo sulle imprese che traggono profitto da
questa vera e propria tratta di esseri umani. Secondo il Vicepresidente
della Commissione europea, Frattini, se l’iniziativa darà
buoni risultati, come si hanno serie ragioni per sperare, si otterrà
anche di favorire un incremento dell’immigrazione regolare,
di cui l’Europa, per la sua crisi demografica, cioè
il notevole aumento delle persone anziane, ha urgente bisogno.
Ecco un’importante, bella novità sui benefici che l’Europa
utile continua a dare ai suoi cittadini. E altre l’hanno seguita
proprio mentre stavamo prendendo atto, con rammarico, della catastrofe
politica di Bruxelles. “Erasmus”, il programma per soggiorni
di studio in tutti i Paesi dell’Unione di universitari e docenti,
ha festeggiato il ventesimo anno di esistenza e lo ha fatto mettendo
sulla torta di compleanno un numero di tutto rispetto: 1 milione
e mezzo di partecipanti solo tra gli studenti. E ad essi, come a
tutti coloro che, per studio, lavoro, anche turismo, hanno necessità
di soggiornare per periodi più o meno lunghi in un Paese
dell’Unione diverso da quello di normale residenza, l’Europa
utile ha fatto un regalo: l’istituzione della tariffa europea
per le telefonate da cellulari, con la conseguenza di una sensibile
riduzione dei costi, contenuti in un massimo di 0,49 euro al minuto
(più Iva) per le chiamate verso un altro Paese europeo e
di 0,24 euro al minuto (più Iva) per chi riceve le telefonate.
Tanto altro è contemporaneamente annunciato o è già
in arrivo con le iniziative previste nel quadro dell’Anno europeo
delle pari opportunità (che è il 2007), con le nuove
misure a garanzia della qualità dei cibi, con la “lista
nera” che, a tutela della sicurezza dei viaggiatori, vieta
a una serie di compagnie aeree di varie parti del mondo (tra cui
tutte quelle indonesiane, che sono ben 51) di operare nell’Unione
europea. Eccetera.
Una parte almeno dell’Europa, quella che direttamente favorisce
gli interessi dei cittadini, continua dunque a procedere con successo.
Non possiamo ignorarlo mentre prendiamo atto, con amarezza, del
tramonto (o addirittura crepuscolo?) del sogno dell’Europa
politica. Quel sogno non si è realizzato, probabilmente mai
si realizzerà, ma ha favorito e continua a favorire il miglioramento
della condizione di vita di centinaia di milioni di persone. Si
può perciò affermare che non è stato inutile;
e che lascia, comunque la si pensi, risultati importanti.
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