Ricercato per alto tradimento,
Caracciolo fu a sua volta tradito da un servo, che
indicò agli sbirri
il pozzo nel quale
il nibbio dei
mari si nascondeva.
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Non fu una novità la consuetudine a voltar gabbana: la si
praticò nellimpresa garibaldina, quando buona parte
della nobiltà e soprattutto buona parte degli ufficiali superiori
dellesercito borbonico voltarono le spalle al Borbone; la
si era praticata al tempo della Repubblica del 99, nei giorni
in cui Ferdinando IV, lasciata Napoli, si era trasferito nella più
sicura Palermo.
Partiamo da qui, e riscriviamo la storia che vide coinvolto Sir
Horatio Nelson, ammiraglio, amante di Emma Hamilton, e impiccatore
di Francesco Caracciolo, detto Il nibbio dei mari. Caracciolo
tradì il suo Re e la sua bandiera. Non si imboscò,
non disertò: tradì. E la marineria puniva il tradimento
col capestro. Caracciolo lo sapeva bene, tantè che
per togliere di dosso al proprio cadavere quella terribile macchia,
implorò che, invece di appenderlo al pennone dellalbero
di maestra, lo fucilassero.
Ma non ci fu niente da fare: figurarsi, la marina inglese, quella
di Abukir (dove Nelson diede la prima, sonora legnata alla squadra
navale napoleonica), quella di Trafalgar, o, se si preferisce, quella
di Jack Lucky Aubrey, comandante, Master and Commander
della H.M.S. Surprise.

Era il 23 dicembre 1798: con i francesi del generale Championnet
alle porte, il Borbone lasciò Napoli, diretto a Palermo.
Lo accompagnava, in qualità di ammiraglio della flotta, il
Caracciolo. Il quale, una volta instauratasi leffimera Repubblica
giacobina napoletana (23 gennaio 1799), chiese il permesso di tornare
a Napoli per prendersi cura dei suoi averi, a rischio di esproprio
in assenza del proprietario. Ferdinando diede il consenso, raccomandando
al suo ammiraglio di tenersi lontano dalla politica, di curare i
propri affari e di non mettersi in testa strane idee. Il nibbio
dei mari cadde, o meglio fece finta di cadere dalle nuvole:
«Ma che dite, Maestà! Io, il vostro più fedele
servitore, io che sono pronto a dare la vita per la Corona, mettermi
in testa cattive idee? Accunfarme co i giacubbini? Mai!».
E invece, appena messo piede a Mergellina, si accunfiò,
altroché se si accunfiò, intendendosela
con lo spretato Carlo Laubert, con Antonio Ajello detto Pagliucchella,
con la Fonseca Pimentel, insomma col governo repubblicano sostenuto
dalle baionette napoleoniche.
E che cosera questo, se non tradimento? Il nodo venne al pettine
cinque mesi più tardi (tanto durò la Repubblica giacubbina):
ricercato per alto tradimento, Caracciolo fu a sua volta tradito
da un servo, che indicò agli sbirri il pozzo nel quale il
nibbio dei mari si nascondeva. E finì con la
corda al collo.
Dopo la tragedia, il vaudeville: genere che quando lambisce la storia
garba a molti. Lamante di Nelson, lady Emma Lyon Hamilton,
era la trentasettenne moglie di Sir William Hamilton, settantaquattrenne
ambasciatore inglese a Napoli. Donna, a giudizio degli ammiratori
e dei detrattori, di straordinaria bellezza, fu data a Sir William
da un suo scapestrato nipote, Charles Grenville. Costui, incallito
giocatore, scialacquatore e sciupafemmine, si era coperto di debiti
e rischiava la galera, se non li avesse onorati di corsa. Si rivolse
così a zio William, che al termine di unappassionata
trattativa si dichiarò disposto a tirar fuori il pecunio,
qualora il nipote avesse pareggiato il conto passandogli lamante
in carica: Emma. Charles non ci pensò due volte, e due volte
non ci pensò Emma, che subito si trasferì presso lanziano,
lussurioso, ma ricchissimo zio, che per di più la impalmò,
facendone quel che si dice una donna onesta.

A Napoli Emma spopolò. Gli uomini (ma pare anche le donne,
e nella fattispecie la Regina Carolina, che non cessava di lamentarsi
di quel buzzurro del marito) le cadevano ai piedi a frotte. Anche
il fiero cuore di Nelson fu trafitto dalle grazie della bionda inglesina,
la quale non si fece pregare più di tanto, prima di addivenire.
La tresca fu presto di pubblico dominio, sebbene ciò non
infastidisse lambasciatore. «Ma come si può esser
così cornuto e così contento?», si chiese un
giorno, a Corte e ad alta voce, larcigna principessa Sofia
di San Marco. Le rispose, nella sua infinita saggezza, il Re: «U
gallo vicchiarello nun fa cchiù e cose, ma cuntinua
a cantà». Non cè bisogno di alcuna traduzione.
Eleonora Fonseca Pimentel, poi. Chi ha visto il film Il resto
di niente della regista Di Lillo si è lasciato convincere
a pagare il biglietto dalla sinopsi: Il film è il racconto
di unutopia, quella di un gruppo di giovani che nel 1799 diede
vita a una rivoluzione per regalare la felicità ai napoletani.
Versione caramellosa e callida (utopia, giovani, rivoluzione, felicità...)
della vulgata che vuole i collaborazionisti napoletani un manipolo
di eletti patrioti e il popolo che resisteva al francese invasore
una manica di farabutti.
Stabilito ciò, e con la benedizione di Benedetto Croce, granduomo
comunque non esente da abbagli (definì il primo Presidente
della Repubblica partenopea Carlo Lauberg, un mascalzone poi cacciato
da Napoli con laccusa di peculato e di estorsione, «il
primo cospiratore del Nuovo Risorgime italiano»), al termine
di un ballottaggio con Luisa Sanfelice che alla fine dovette
soccombere in quanto rivoluzionaria involontaria e inconsapevole
la vulgata acclamò eroina e icona della Rivoluzione
partenopea la Fonseca Pimentel. E non si poteva sceglier meglio.
Fosse vissuta in altra epoca, costei (nata da genitori portoghesi
a Roma, in via di Ripetta 22) avrebbe potuto essere unantifascista
a denominazione di origine controllata: al pari degli antifascisti,
che in massima parte si scoprirono tali solo dopo la caduta di Mussolini,
ella divenne infatti antiborbonica un minuto dopo lingresso
del generale Championnet a Napoli, ovvero un minuto dopo lallontanamento
di Ferdinando delle Due Sicilie. Fino a un minuto prima, di Ferdinando,
di Maria Carolina, della Corona fu non una semplice sostenitrice,
ma un vero e proprio zerbino.
Commentando il film, Ruggero Guarini ha ricordato la sconcia ballata
che la Pimentel dedicò alla regina, definita puttana, lesbica,
rediviva Poppea, «tribade impura / dimbecille tiranno
empia consorte» alla quale elegantemente augurava di far la
fine della sorella Maria Antonietta. Ma prima dellingresso
delle truppe francesi a Napoli, ben altri sentimenti la Pimentel
manifestava.
Separata dal marito, il tenente Pasquale Tria, per sbarcare il lunario
la futura sanculotta invocò laiuto di Ferdinando, che
le affidò lincarico di bibliotecaria. Tra una spolverata
e laltra dei volumi che costituivano la ricchissima Biblioteca
Reale voluta da Carlo di Borbone (e oggi Biblioteca Nazionale) la
Pimentel, talora col vezzoso nome darte di Altidora Esperetusa,
verseggiava sommergendo il «tiranno imbecille» di panegirici
che si leggono con disagio per il servilismo, ladulazione
e la piaggeria che vi dominano.
Alla lunga, si meritò di potersi fregiare, appuntata sulla
scollatura dellabito di gala, della spilla a forma di giglio
borbonico che distingueva le dame in rapporto di intimità
con Ferdinando e con Maria Carolina. La quale era dipinta dalla
Pimentel pre-sanculotta quale «Tempio di saggezza e di virtù»
(dicesi virtù!). In quanto al tiranno, costei era certa che
«Letà di Ferdinando / ogni altra avanzerà
che lalme illustri / dai regi sguardi accese / ardite moveranno
a nuove imprese». E pertanto «Ddio nce lo guarde
tenga» il «prode Ferdinando / dalla superba fronte /
marito e condottier».
Non sapremmo che dire della poetessa. Probabilmente non valeva granché.
Ma non ci piove che, come voltagabbana, ebbe ben poche rivali.
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