Spiace registrare questi segnali
di malessere profondo in un Paese che ha
avuto illustri
precursori di
un umanesimo economico
di frontiera.
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«...Ciao, adesso devo andare. Dove vai? Da nessuna parte.
Ti dispiace se vengo anch’io?». Un messaggio graffitaro
estrapolato dal repertorio dei vuoti moraviani, plastico brand dell’Azienda
Italia. La transizione dal bipolarismo ingessato al bipartitismo
eclettico, novità assoluta dell’era repubblicana, poteva
essere una buona occasione per fare, dei problemi “di confino”,
altrettanti problemi “di sistema”. Dimostrando sensibilità
per la correzione delle spinte inerziali, coniugando solidarietà
con legalità, annullando l’equazione flessibilità-precariato,
approfondendo le tematiche delle crescenti diseguaglianze dell’economia
della conoscenza, dell’integrazione, della coabitazione con
le diversità. Coniugando democrazia con velocità e
disegnando un modello di sviluppo in linea con la grammatica delle
convenienze in era di globalizzazione.

Una nuova filigrana tematica richiede liturgie purificatrici, operazioni
audaci con significativa valorizzazione delle potenzialità
inespresse. Invece al cronista non resta che annotare altre esibizioni
“di cascina”. È difficile che un ibrido abbia un’anima
propria. Resta integro il fardello delle incrostazioni accumulate
e un volenteroso solista del cambiamento (se c’è) non
può vincere il ventre molle della conservazione, non può
liberarci dall’equivoco new minimal in cui siamo da tempo impantanati.
In tanti incontri febbrili non si è mai parlato di un chief
innovation officer, una figura manageriale che lavora a stretto
contatto con i “piani alti” per valorizzare il dialogo
con la società e ottimizzare l’impiego delle risorse
umane.
Il Paese resta diviso. Mancano i megaimprenditori unificanti, gli
straricchi pronti a finanziare attività filantropiche di
largo impatto sociale (ospedali, scuole, università, centri
di cultura, editoria). Molto è pubblico, affidato al monopolio
della gestione pubblica. Ma quando una squadra di governo adotta
la linea del rigore efficientista trova sul territorio due mezzi
Paesi: un Nord plaudente per l’attenzione alla sua vocazione
mercantile, un Sud contrario per paura di compromettere gli equilibri
concordati nella foresteria delle oligarchie dominanti. Così
anime inquiete, sospese tra speranza e rassegnazione, assistono
su versanti opposti ad atti di ragioneria privi di sorprese, mentre
l’iniziativa legislativa ristagna lungo tortuosi percorsi per
globetrotter. L’ingovernabilità è pratica di
sistema dovuta alla polverizzazione dei poteri, al labirinto delle
competenze, alla elefantiasi degli apparati, cioè ad una
serie di circostanze non occasionali che paralizzano la responsabilità
decisionale. Non ci sono i buoni e i cattivi, i capaci e gli inetti.
C’è un difetto di metodo avallato dalla politica per
creare controlli incrociati. Il resto è costume (o malcostume).
L’abitudine alla disciplina di cordata e ai rapporti di forza
non fa crescere la cultura del potere unificante, la consapevolezza
di un primato dell’interesse generale che crei la sensibilità
e la flessibilità necessarie per “fare governo”
con ogni risultato elettorale. Mancano i pre-requisiti per tracciare
rotte con destinazione prospettica guidata da un unico “codice”
di riferimento.
Perduta la forza attrattiva delle ideologie, il re nudo continua
a fare esercizio di fantasie imperiali dando ordine ciclico alla
mappa del potere. Le forme nuove di comunicazione, partecipazione,
rappresentanza continuano ad occupare le liste d’attesa, quando
non vanno nel cestino delle caste. Con 1’incubo di restare
sempre prigionieri delle divisioni e delle nicchie in cui ci siamo
rifugiati. Condannati a vivere il futuro nella sola dimensione che
ci viene assegnata, l’incasellamento nelle sfide sociali e
nelle battaglie politiche legittimato da un frazionismo virile e
collaudato che permane dentro e fuori i tentativi unificanti.
Per creare modelli alternativi bisogna eliminare gli automatismi
che producono divisione e anarchia. Partendo dalla necessità
di capire come saremo domani, come sarà la futura identità
italiana. Mettendo a frutto la mappa aggiornata delle presenze etniche,
i frammenti umorali delle nuove generazioni, gli orientamenti delle
imprese impegnate nell’innovazione, le opinioni di economisti
ed esperti di scienze sociali (Sarkozy ha istituito in Francia il
ministero dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale,
avendo consapevolezza di dover sperimentare nuove vie di contaminazione
culturale).
Senza motivazioni etiche è difficile spegnere il brusio protezionista
e ragionare di rinnovamento. Il nuovo implica novità di analisi
incompatibili con la strategia del “turbare senza disturbare”.
Nelle condizioni attuali si lascia spazio solo agli investigatori
del passato mentre le aspettative sociali hanno subìto grandi
mutamenti. Per dissodare il campo si deve lavorare sull’humus
sociale, iniziando a rimuovere i sentimenti stratificati della cultura
rural-chic, che con gli storici dualismi (pubblico-privato, laici-cattolici,
Nord-Sud) rende difficile l’approdo a scelte univoche e ad
ipotesi di continuità e stabilità istituzionali.
Esempi di divisione lasciati correre con indifferenza ne troviamo
a iosa. È anacronistico che scuola e università debbano
offrire ancora saperi di destra e di sinistra. Rafforzano la Siberia
dell’adolescenza e predispongono agli eccessi del rigore e
del garantismo con cui gli adulti devono convivere ogni giorno (una
bolla dell’irrazionalità). Chi ha responsabilità
specifiche – genitori, insegnanti, accademici – dovrebbe
denunciare questo battesimo laico in fase di formazione. C’è
scarsa attitudine a ragionare con i giovani di crescita civile,
dei loro problemi, dei loro bisogni (organizzazione del lavoro,
accesso al mercato e alle professioni), a responsabilizzarli verso
l’istruzione di “eccellenza” in funzione selettiva,
rendendo esplicita la differenza tra valore-sapere e valore-denaro.
È come entrare in enoteca e confondere il Brunello con il
Tavernello.
Per l’alta dirigenza il passaggio dal pubblico al privato
e viceversa è fisiologico nelle democrazie mature, è
una costante delle logiche di sistema in Gran Bretagna, nel Nord
Europa, negli Stati Uniti. Da noi restano mondi separati, in perenne
contrapposizione. Come lontani e separati restano i mondi degli
affari e della ricerca. C’è un forte senso di competizione
intra moenia che non permette di fare squadra nel sistema.
Tutto ciò non è casuale, è il risultato di
un carrierismo programmato con logiche spartitorie che non consentono
la reductio ad unum, la dissolvenza verso idee e interessi di pubblica
utilità. E mentre si attendono nuove ordinanze per colonnelli
e legionari, con moti sussultori per poltrone e poltroncine, la
società operosa scopre che dietro gli old talents c’è
un problema vistoso di talent shortage, di carenza di talenti lungo
tutta la filiera delle medie e alte responsabilità. È
il prezzo di una governabilità gestita a lungo con le dinastie,
il nepotismo, la cooptazione (si pensi alla lobby degli enti locali
– Regioni, Province, Comuni – e alla gestione “politica”
del cospicuo capitale impegnato in circa 3.000 aziende controllate
o partecipate). Criteri egemoni di selezione che hanno mortificato
il fattore leadership nel pubblico e nel privato, compromettendo
il normale dinamismo della crescita, del mercato del lavoro, dello
sviluppo di moderne relazioni industriali (prevalgono ancora quelle
di tipo conflittuale).

Se utilizziamo gli standard valutativi della comunità internazionale
basati sulla comparazione dei risultati viene subito in evidenza
un risk management dovuto alla rete di paletti che esalta le logiche
di apparato e impedisce di coniugare la capacità creativa
con la dignità del lavoro illuminato dalla conoscenza, dal
merito, dalla professionalità (vige ancora la doppia morale,
con il merito considerato tema di eleganti conversazioni da salotto
mentre occupazione e carriera appartengono alla catena delle “solidarietà”
– famiglia, partito, sindacato). Abbiamo il dovere di registrare
un acuto malessere che indebolisce l’identità aziendale
e la credibilità dei corpi dello Stato (si leggano i risultati
di un’indagine Censis e di una poderosa ricerca – “Generare
classe dirigente” – curata da Università Luiss
e Il Sole 24 Ore).
Per migliorare la qualità del management non chiediamo pupilli
di Oxford ma semplici istruzioni per superare il conformismo che
divide, restituendo dignità alle mansioni, alle funzioni,
alle professioni, alla formazione, ai risultati di gestione. Una
raccomandazione che vale doppio in un sistema tenuto sotto rigida
tutela politica e sindacale. Una raccomandazione che nel concreto
sollecita reali sanzioni e reali incentivi per recuperare il senso
dei ruoli, superando l’egalitarismo massificato sessantottino,
la fabbrica della mediocrità e dell’orgoglio impoverito.
Dando un senso alla vita prosciugata dal lavoro.
La gente rimuove le cattive notizie e le cattive abitudini. Cresce
il distacco dalle politiche conventuali e dalla sindacalizzazione
minuta e invasiva («la voglia di rappresentanza usura la scelta
di verticalizzazione», dice Giuseppe De Rita). La comunicazione
verticale è sostituita da quella orizzontale. Cresce la “cyberdemocrazia”,
che dà voce via computer a volontà inespresse o inascoltate
(s’innestano così le tentazioni dell’antipolitica).
Le regole sulla concorrenza e la libera circolazione di persone
e capitali sono due pilastri dell’economia di mercato. Ma il
primo pilastro può funzionare se non è condizionato
dal secondo, da un clima insalubre di interferenze trasversali.
Tutti i meccanismi di divisione e di confusione sono da tempo sotto
scrutinio pubblico, essendosi affinato l’interesse collettivo
verso una valutazione strategica dei bisogni durante i periodi di
stress prolungato. Alimentano nutriti cahiers de doléances
che non sono all’ordine del giorno in nessuna agenda della
politica strutturata.
Temi di strada per svolte annunciate. La tutela del potere d’acquisto
dev’essere affidata alla difesa dei sindacati o agli automatismi
della concorrenza? Le nomine di governo (centro e periferia) devono
seguire logiche di convenienza o regole e procedure istituzionali?
Il decentramento deve dare funzionalità al sistema o serve
solo per tirare a campare? Incentivando la permanenza nel limbo
che corre tra le sponde dell’indulgenza e dell’emergenza,
di istituzioni svogliate e controlli smagliati. Acqua sporca non
fa specchio.
Mentre si fa un gran parlare di liberalizzazioni registriamo rigurgiti
di economia pubblica e mista (un po’ di memoria storica non
guasta: si legga lo scambio di opinioni Sturzo-Vanoni sulla nascita
di Iri ed Eni: è salutare per chi cerca di usare, in un mercato
già ampiamente protetto, vecchi ammortizzatori energizzanti).
I riformisti restano confinati nelle soffitte dei Palazzi. Cenerentole
con facce scure e sorriso raro, alle cui orecchie giungono di tanto
in tanto ovattate espressioni di pelosa solidarietà. Come
portatori di opinioni irrituali si rendono conto per primi della
differenza siderale tra ciò che si fa e ciò che si
dovrebbe fare. Tutti sanno tutto, ma continuano a pestare acqua
nel mortaio.
Per uscire dall’immobilismo, cioè dall’area del
disagio e dell’insoddisfazione, noi immaginiamo circostanze
straordinarie, la metamorfosi del capitalismo bipolare in un capitalismo
culturale autonomo, discretamente smarcato dalle stanze del potere,
unificante e commestibile, capace di creare un nuovo lessico per
la democrazia, immettendo nei circuiti d’opinione uno stock
elevato di capitale sociale (coesione, legami orizzontali, dialogo
con le istituzioni). Un’attività propedeutica di grande
valenza formativa per allevare una classe dirigente affrancata dai
pedigrée di apparato, per aprire una fase post-dinastica
e promuovere generazioni e istituzioni post-ideologiche.
Un’operazione che dovrebbe avere nell’editoria il primo
polo di riferimento. Resa necessaria dalla lunga fase di stallo
politico e vuoto programmatico, dalle forti turbolenze di sistema
aggravate da carenze formative combinate con l’alto tasso di
invecchiamento della popolazione. Spiace registrare questi segnali
di malessere profondo in un Paese che ha avuto in Olivetti, Senigallia,
Mattei, Mattioli, Menichella, Saraceno illustri precursori di un
umanesimo economico di frontiera, con marcati riflessi sistemici.
Se adesso compri un grattino all’edicola di Montecitorio non
hai sorprese. Se gratti un riformista trovi un eretico, se gratti
un immobilista trovi un nostalgico. Eloquente rappresentazione di
radicate divisioni, di un opportunismo di trincea che vede l’istinto
di sopravvivenza prevalere sulla volontà rigeneratrice (patologia
dell’indifferenza). Restano in piedi tutti i grandi interrogativi
del Paese. Come si disbosca una foresta pietrificata? Come si recupera
lo spirito di frontiera in una società anoressica nell’anima?
Come fa a liberarsi dal fatalismo lassista una società priva
di pensiero alternativo? Come si aggancia il convoglio della globalizzazione
custodendo i santini della conservazione?
Questione di leadership, ovviamente, di sano decisionismo à
la carte, che si materializza nella capacità di comunicare
convinzioni autonome e professionali lungo tutta la filiera delle
responsabilità (cosa diversa dal dirigismo contrattato e
bilanciato, compromissorio e pasticcione). Dunque uno “stil
novo” nel pubblico e nel privato, un bisogno impellente di
fly to quality, come nei periodi di maggiore tensione dei mercati.
Ambizioni per intelligenze celesti o risvolti possibili di un marchio
di qualità?
Siamo in crisi d’identità e di fiducia. Ma se il realismo
non è una colpa da espiare, se non si confonde il nuovo con
il nuovismo di bottega, se il quotidiano politico non esalta i poteri
d’interdizione, se si esce dalla contrapposizione redistribuzione-sviluppo,
se il riformismo ciarliero cede il passo alla grazia illuminante...
Si può ancora sperare in una seconda stagione neorealista,
in sussulti d’orgoglio, oltre le “cose” nuove, i
convegni della domenica, le promesse del lunedì.
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