Qui Jovine narrò lepopea delle Terre
del
Sacramento, e qui fame e rivolta, amore e morte, diedero un
nome
a una letteratura oggi rottamata senza una ragione.
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In quella che non a torto molti considerano una delle sue più
belle poesie, DAnnunzio mette a frutto lesperienza personale.
Il volubile comandamento della transumanza trasferisce sul piano
della memoria innumerevoli escursioni, compiute fin dalladolescenza
nella terra nativa. Non cè palmo dAbruzzo che
non abbia perlustrato, anche a dorso di mulo, alla ricerca delle
proprie radici remote.
Cantore della modernità alle soglie del 900, il suo
formidabile balzo in avanti si compie in virtù di una lunga
rincorsa a ritroso. Il Poeta-Vate, del resto, non avrebbe saputo
riproporre il mito di Icaro se non accanto a quello pastorale: lesplorazione
dello spazio non è disgiunta da quella del tempo. Scrive:
Settembre, andiamo. È tempo di migrare. / Ora in terra dAbruzzi
i miei pastori / lasciano gli stazzi e vanno verso il mare: / scendono
allAdriatico selvaggio / che verde è come i pascoli
dei monti...
La transumanza, la ciclica mena delle pecore, fu drammatica
epopea di pastori e lunga storia di arretratezza economica e sociale
per le aree che ne furono teatro. Aree destinate fatalmente a trasformarsi
in nuclei di espulsione demografica, in bacini di emigrazione, in
inferni di vite erratiche, crudamente cantati, dapprima, e poi malinconicamente
trasfigurati in dolenti nostalgie dai versi di Eraldo Miscia.

Per antica tradizione molta poesia meridionale, e dunque anche
abruzzese, si abbandona a visioni romantiche. È il caso di
Giovanni Titta Rosa: Sotto pallidi olivi / sparse greggi sul margine
dei greti / brucano lerba rugginosa. // Sole / dinverno,
lievi erranti fumi azzurri / su chiuse ville e casolari. // Dolce
quiete di vita
Ma è pure consuetudine di scrittori
in transito, attratti dal paesaggio inconsueto, o coinvolti nellincanto
della vita semplice, e quasi primordiale, che sembra aver fermato
il tempo.
Così Biagia Marniti, pugliese delle calanche argillose del
Subappennino, celebra gli scenari cristallini di Francavilla al
Mare: Vie deserte, / acquamarina di onde / frangentisi in fascinosi
fiocchi / quasi di neve
/ Qui mi rallegra la terra / il treno
in corsa / Quella luce rosacobalto
Al modo di un altro delicato
poeta, Giovanni Francesco Romano, salentino, che sulle sponde del
lago di Barrea torna a ritrovare serenità e ispirazione:
Zoccoli allegri. / Lacqua ora canta / nelle brocche di rame;
e ancora: Un grillo canta. / Pullula melodiosa / acqua di luna;
e in un ultimo balenante haiku: Cantano donne, / lontano. Che tristezza
/ muove le foglie.
Specularmente, altri versi sembrano riecheggiare la rocciosa indole
ribelle dellanima abruzzese. Ottaviano Giannangeli: Quale
è il senso del mondo, / e la mia avventura avrà una
fine
/ Passava un vento furibondo / sulla terra che non ha
confine. // Vedevi la luna, ora lontana, / non più carezzevole,
svagato / il timbro di una campana, / il tutto disarticolato. //
E calmo, il tutto. Spettrale / un canto di funebri danze. / Bruciava
millenni, distanze / nella staticità astrale. E poi altri
poeti di forte impatto e di scoperto impegno sociale. Il coltissimo
Giusepe Rosato: Donne scotellariane anche a Lanciano / si stringono
alle otto del mattino / davanti alla serranda della chiusa / Camera
del lavoro. Il loro volto / buio è unombra nel sole
settembrino / e una guardia le assedia, come il cane / il suo gregge,
le difende dal mite / lupo che in loro finge la miseria. E lelegante
Giammario Sgattoni: Non raccontarmi più favole lunghe / di
lucerne, demòni e ripostigli / dentro stanze annerite da
millenni: / quando il giorno sarà precipitato / tra quei
colli e le frange dei ciliegi, / rapido guaderò, senza bagnarmi,
/ le foci del Tronto già gonfie di nevi.

Alla loro franca poesia fanno eco altri due scrittori di spessore.
Pasquale Scarpitti, il primo:
Sono con te, Pescara, / la terra
che si spacca per germogliare case / le gru possenti che dal cielo
gettano / mattoni e calcestruzzo sui fiori dei giardini / lombrello
dei pini recisi per gabbie umane / con te sono il mare ancora azzurro
vele gabbiani / e gli operai che tamano più della Svizzera
/ dove in francese tedesco italiano / e neppure in dialetto possono
capire / i pescatori che credono soltanto / in quel mare in burrasca
dove finiranno / in quel filo di cielo nascosto nella barca / tra
casupole rotte del porto canale
E poi laltro, laspro
e generoso cantore di Chieti, Silvio Catalano: Sette sassi ho trovato
per strada, / sette sassi a punta di chiodo / e capocchia di duro
mercante: / passo più passo meno, // quattro nellombra
e tre nel sole. / I miei passi andavano piano / come su un lastrico
di cimitero, / posando pensiero dopo pensiero, // quattro
nellombra, tre nel sole // ma con tal senso di natura
morta, / che una lucertola guardò quei passi / e il mezzogiorno
sirrigidì.
Fu terra gemella minore, il Molise, fino al giorno in cui volle
recidere il cordone ombelicale che lo legava allAbruzzo, e
si lasciò portare dalla risacca verso le morbide alture della
Capitanata, dellIrpinia e del Vulture. Sicché in Campobasso-Salerno
Carlo Betocchi poteva cantare: Il Sannio era ricco di querce / poi
cominciarono i noccioleti / dellIrpinia: e sempre tra i monti.
/ Ingiallivan le stoppie e le saggine // nei campi; le viti vendemmiate
/ festeggiavan la morte, con quel loro / cuore a pampini, sventolante
Qui Jovine narrò lepopea delle Terre del Sacramento,
e qui fame e rivolta, amore e morte, diedero un nome a una letteratura
oggi rottamata senza una ragione, che non sia pretesto di coloniali
conferme di dominio sul pensiero del Sud. E qui il più rappresentativo
dei poeti molisani, Sabino DAcunto, diede voce alla sua terra,
scrivendo tra storia ed elegia dalle insellature staffilate
dal vento: Sulla mia gente veglia la montagna, / assorta testimone
/ di primavere sacre e di memorie: / Per fame dorizzonti /
vennero gli avi dentro il bue mitico / alla ricerca duna patria.
E là, / ove il Matese la sua asprezza placa / nella pianura
emersa dai silenzi, / destini si compirono nel solco / di favolose
età. / In questa terra avara la mia gente / rinnova le sue
stirpi / come sui rami mutano le foglie. // Un antico destino è
la fatica / di solcare i maggesi e porvi seme / di grano e di speranza:
/ gli uomini hanno muscoli di pietra / e cuore di fanciullo. //
È buona la mia gente. / Nel suo penare cotidiano sogna /
un domani migliore
/ È una speranza questa
che si spezza / con il pane, ogni giorno, e come il pane / lascia
di sé insoddisfatta voglia. / Risonanze sommerse porta il
vento / quando salza negli orti a sera e mugghia, / ostile,
sulle case antiche e vuote / che immagini conservano remote / e
ricordi di morti senza tempo. / In queste mura intesse la sua vita
/ di rinunce e miseria la mia gente: / i vecchi non ricordano che
fame / e le mamme hanno il petto dissanguato / dalla fame dei figli:
nelle mani esse stringono la pena / e grani di rosario. // Come
vorrei lungo i tuoi tratturi, / terra mia dolce, unirmi ai tuoi
pastori / che lenti vanno e muti come numi / antichi nel silenzio
sopra lerbe; / o per le strade unirmi ai pellegrini / a ritrovar
la fede dei miei padri / dietro un ramo intarsiato fatto croce
//
Ma non odo che pianto nei crocicchi / e sulle soglie vedo solo addii.
// Non si piangono morti, qui, ma vivi! // Uomini vanno col fardello
carico / di stracci e di illusioni, chissà dove. / Partono!
// Parte tutta la mia gente / per approdi lontani. / Partono allalba,
come i condannati
//
Il nostro cuore / è pietra
di sepolcro. / Nella sua quiete alta la montagna / al dolore degli
uomini fa eco. // Le primavere sacre si rinnovano: tormentose, crudeli,
senza miti.
E mentre in Come da un alto sagrato Geri Morra incrocia
memoria e nuvole dira, (
Io ricordo i canti dalle vigne
/ e i tuoi piedi di creta, le mani / chiuse nel mio pugno giovane,
/ i brandelli di cielo sul mio capo / che sollevava il tenero querceto,
/ lurlo ostinato dei vetturali, / il gioco delle tue ciglia
/ sulla veste gonfia di vento, / il lamento dei pastori sulle prode,
/ locchio pavido e aperto / come il nero nel fiore della fava
,
Lino Angiuli in scorribanda dalle contrade della sua Peucezia
tra ironia rarefatta e richiamo alla riflessione invia
saluti da Rotello:
Forse / siamo soltanto le perdite del tempo
noi / se ci scordiamo le pietre normanne / o i tanti soprannomi
con cui / chiamiamo ancora il dio dei padri / perché ci faccia
compagnia lungo la via / che porta da una lettera allaltra
/ di quel minuscolo dolore animale / dal quale magari volendo volando
/ un pendaglio daglio potrebbe salvarci.
Compito ingrato bruciare le cartoline poetiche dedicate a Napoli
(e a tante altre città della Campania), tale è la
ridondanza delle mozioni damore per le meraviglie (ma sempre
più offese) del paesaggio, per la musicalità del dialetto,
per la notorietà delle canzoni, per i temi eterni che intridono
i componimenti di un numero impressionante di verseggiatori. Napoli
non è soltanto storia, arte, scienza, civiltà e creatività;
e non è soltanto miseria e nobiltà, karakorum di pattume
e struscio a Mergellina, quartieri di Carlo V e architettura maestosa
sui lungomari. È soprattutto metafora di un pianeta immaginario
unico, di un universo speciale che non si domina per altrui volontà,
e che ingloba tutto quanto cè nel bene e nel
male nel mestiere di vivere, e ne fa come per partenogenesi
una sorta di creatura sanguigna e prevaricatrice, lazzarona e imbellettata,
callida e fatua, servile e ferocemente reattiva, votata alla generosità
e allimpostura. Ed è questa, appunto, la città
che fu capolinea dei viaggi che completavano le escursioni lungo
i percorsi degli spiriti colti di tutta Europa, con qualche deviazione
solo verso la splendida Sicilia delle poleis greche e di Federico
di Svevia.
Confessa a muso duro Lino Curci: Città nativa, mio assurdo
rancore, / sento di detestarti, a volte, come / tutte le cose che
dovrei più amare. / Prigione del mio tempo e alla gelosa
/ mia libertà limite oscuro
// Approdo di navi e di
velieri, / odorano i limoni così dolci / sulla tua costa
e i pescherecci dormono / sullacqua verde delle baie con tanta
/ pace! Ma gridi nervosa, inquieta, / nelle tue strade e il sangue
mi sconvolgi / di umori e di tristezze, con la turgida / furia della
rivolta onde ti nego / per sempre gratitudine filiale
Eppure, per il paesaggio campano Curci aveva distillato splendidi
versi: il paesaggio, però, lontano dalla metropoli tentacolare,
quasi protetto dalla distanza, nella luce meridiana che rendeva
diafani gli orizzonti: Strade docra leggera, solitarie / in
quellaria dorata, dal timone / dei rossi carri luomo
silenzioso / guarda lontano, va la vigna bassa / fino alla proda:
come canta lora / dautunno prima del tramonto! Un fumo
/ di pienezza felice la rallegra, / evapora e rallenta / tutta la
vita. Contemplavo a valle / le crete digradanti, intorno i poggi
/ con i paesi
Destino dellurbe partenopea, forse, quello che intravide Giambattista
Marino, che ne scrisse con una sensualità panica elegante,
sì quasi sempre risolta nellintrecciarsi e sovrapporsi
di metafore iperbolicamente ampliate: Or che laria e la terra
arde e fiammeggia, / né sode euro che soffi, aura che
spiri, / ed emulo del ciel, dovunque io miri, / saettato dal sole,
il mar lampeggia; / le braccia aprendo in spaziosi giri, / e del
suo crin ne liquidi zaffiri / gli smeraldi vaghissimi vagheggia...
Farà poi eco Francesco Flora, con un Canto della vita
che vibra in tutte le corde del sentimento: Azzurro, dolce in bocca
a respirare / sapor di cielo e mare / sul colle di Camaldoli. La
vita / è più leggera in cima: / tutta la terra intorno
/ soave abisso agli occhi: / il colle che digrada aspro di selve
/ fulgido di ginestre
// Ma sulle acque incantate / ove le
barche a vela, / farfalle ad ali tese, / palpitano in silenzio,
/ le montagne de le isole respirano / come i seni nascenti: e il
vento e il sole / scintillano stridendo / di frantumi di stelle
e di comete
E Leopardi, che al cospetto delle falcature del
mare partenopeo visse gli ultimi, sofferenti giorni della sua vita,
così descrive lincombente Vesuvio, striato dal fiore
del deserto: Qui su larida schiena / del formidabil
monte / sterminator Vesevo, / la qual nullaltro allegra arbor
né fiore, / tuoi cespi solitari intorno spargi, / odorata
ginestra, / contenta dei deserti
Non solo Napoli. Fior di poeti esplorano altre Campanie: Raffaele
Carrieri, a Pompei, (Fossile il filo nella cruna / lo sguardo nellocchio.
/ Fossile la porta, fossile lorma / e il cane nellurna.
/ Fossile la lacrima / nel lacrimatoio. / Sola unape / controluce
unape / versa miele / e crepita); Montale verso Capua, (
Rotto
il colmo sullansa, con un salto, / il Volturno calò,
giallo, la sua / piena tra gli scopeti, la disperse / nelle crete...);
Alfonso Gatto dalle parti di Salerno (Primalba odora vuota.
/ Il silenzio dellaria / simperla gelido. // E in ogni
faglia tace / lulivo, la tristezza); Giorgio Caproni nellosso
della regione (Ahi treno lungo e lento / (nero) fino a Benevento.
/ Mio padre piangeva sgomento / dessere così vecchio.
// Piangeva in treno, solo, / davanti a me, suo figliolo. / Che
sole nello scompartimento / vuoto, fino a Benevento! // Io nulla
gli avevo detto, / standogli di rimpetto. / Per Bari proseguì
solo: / lo lasciai lì: io, suo figliolo).
Infine, i diari di bordo degli sppiriti nomadi, i taccuini di chi
si muove on the road e annota in versi non impressionistici le proprie
emozioni: Lorenzo Giusto primo fra tutti, a Ravello, (Capzioso sortilegio
dalchimista / fermò velieri e navi doltremare
/ e legni e spezie e stoffe e essenze varie / si sparsero sui flutti
dametista
// Dentro nicchie di pietra opalescenti /
bellezze furon chiuse. Nei tramonti / bruciarono in cospetto agli
orizzonti / i corpi di divini adolescenti), a Sorrento, (Rosei oleandri
allacciano lazzurro / come baccanti in floride catene, / e
oscillano nei porti le carene / dei canotti con gracile sussurro.
// Sulle rocce muscose un voluttuario / pino si genuflette a carezzare
/ i desideri scesi a naufragare / nellimmoto turchino millenario
),
e Capri, (Rocce giganti avvinte alle catene / di blocchi di compatta
malachite; / spiagge da molli ulivi impallidite, / rammemoranti
approdi di sirene; // vigne sognanti incensi di patère /
doro disperse fra cipressi e palme, / promontori dissueti
alle cui calme / meriggiano solinghe dèe costiere
).
E infine Elpidio Jenco, (Gàbberi, oh, i tuoi silenzi di macigno
/ precipitosi, i tuoi dirupi ardenti, / i covi duri allospite,
le forre / come nere varate nei pendii, / verso le gole dove il
tuon dagosto / deco in eco vanì nel temporale
/ con lululo dun affamato lupo!...).
La Calabria, terra grande e amara. Lantica Calabria di viaggiatori
avventurosi. La Calabria dellonore e del coltello, dellamicizia
e della vendetta. La Calabria del sanguigno Leonida Repaci:
Ti
amo Calabria / per gli assorti silenzi delle tue selve / che conciliano
i sogni dei pastori / e le estasi degli eremiti. / Ti amo per quel
fiume di alberi / che dalle timpe montane / arriva ai due mari /
a bere il vento del largo / frammisto allaroma del mirto.
/ Ti amo per le solitarie calanche / chiuse da strapiombi di rocce
/ che prendon colore dallalga / nata dallo spruzzo dellonda
// Ti amo per il rifugio che dai / al latitante, allevaso,
al brigante, / allorfano, al mendicante, alle bestie / affamate
e senza padrone. / Ti amo per il dolore che schianta / il cuore
dei giovani braccianti / quando lascian le terre dei padri / per
guadagnare un pane salato / in terre lontane e nemiche
//
E un giorno non troppo lontano / unito a te nella zolla / sarò
anchio Calabria, / sarò il fremito dei tuoi alberi,
/ il murmure della tua onda, / il sibilo dei tuoi uragani, / il
profumo delle tue siepi, / la luce del tuo cielo
La Calabria multiforme, roccia desolata, foresta vergine, mare cobalto,
e luminosità più abbagliante perché più
nere siano le ombre. La Calabria che si prende solo per amore. La
Calabria di Franco Costabile: Un pastore / un organetto / il tuo
cammino. / Calabria, / polvere e more. // Uova / di mattinata /
il tuo canestro. / Calabria, / galline / sotto il letto. // Scialli
neri / il tuo mattino / di emigranti. / Calabria, / pane e cipolla.
// Lettera / dallAmerica / il tuo postino. / Calabria, / dollari
nel bustino. // Luce / daccetta / lalba / dei tuoi boschi:
/ Calabria, / abbazia di abeti. // Una rissa / la tua fiera. / Calabria
/ duva rossa / e di coltelli. // Vendetta / il tuo onore.
/ Calabria, / in penombra / canne di fucili. // Vino / e quaglie,
/ la festa / ai tuoi padroni. / Calabria, / allegria di borboni.
// Carrette / alla marina / la tua estate. / Calabria, / capre sulla
spiaggia. // Alluvioni, / carabinieri, / i tuoi autunni. / Calabria,
/ bastione / di pazienza. // Un lamento / di lupi, / i tuoi inverni.
/ Calabria, / famiglia / al braciere. // Francesco di Paola / il
tuo sole. / Calabria, / casa sempre aperta. // Un arancio / il tuo
cuore, / succo daurora. / Calabria, / rosa nel bicchiere.
La Calabria sensuale, nella sua umanissima terrestrità, di
Giuseppe Selvaggi: Sulla scarpata del fiume / danzano i carpentieri
/ per il vino bevuto a mezzogiorno. / Essi non bastano al loro cuore
/ e nemmeno alla carne. / Per la tua salute, Dio, / non scendere
sulla riva. E quella degli spiriti erratici. Biagia Marniti, per
esempio: Scilla dorato mostro / limpida sei nella memoria, / vive
ancora il tuo silenzio / ed è sasso lanciato in mare. / Voci
arse, uomini neri come topi, / mani che creano cesti simili a fiori,
/ tempesta che brucia con la luce e il grido / vivi solo in un ceppo
/ che non si piega e mi divora. O Raffaele Carrieri, infine, con
il suo Piccolo bestiario calabrese: Covoni di sette
cupole, / rovine del grano. / E tu nella mia mano: / cicala a Seminara
/ rondine a Crotone. / Nel deserto delle biade / mulinelli di pula:
/ e tu sulla mia spalla / più leggera della paglia / coricata
sullaia. / Campi dAlbanella / campi di Terranova: /
e tu specchio, miraggio / mutevole in ogni occhio. / Nellalone
dellAve / per tratturi e mulattiere / dondolavano gli asini
/ coi castelli di fieno. / Caduta del sole a Sibari / notte nuziale
a Castrovillari: / nella stanza dellorzo / spiava Orione /
e tu sul mio cuore / sospesa come una quaglia.
La Lucania, ora. La Basilicata, se si preferisce: guardata a vista
dalle stupende colonne delle Tavole Palatine, a Metaponto, nome
di luogo che riassume e fonde una composita storia di imbarchi verso
approdi accoglienti, su rive di limpidi fiumi, in acrocori intatti,
per dispiegare una storia e unarte e una letteratura non esenti
da leggende. Fu Metaponto, al modo di Taranto, scuola di Pitagora?
Vi trovò, questuomo di scienza universale, la morte?
Le Tavole ne contengono i resti? Piace pensare che sia così,
perché se non cè mito non esiste la fantasia,
se inaridisce la leggenda muore limmaginazione.
Ne prende coscienza Leonardo Sinisgalli: Al pellegrino che saffaccia
ai suoi valichi, / a chi scende per la stretta degli Alburni / o
fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra, / al nibbio
che rompe il filo dellorizzonte / con un rettile negli artigli,
allemigrante, al soldato, / a chi torna dai santuari o dallesilio,
a chi dorme / negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante,
/ la Lucania apre le sue lande, / le sue valli dove i fiumi scorrono
lenti / come fiumi di polvere. // Lo spirito del silenzio sta nei
luoghi / della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto, / sofistico
e doro, problematico e sottile, / divora loblio nelle
chiese, mette il cappuccio / nelle case, fa il monaco nelle grotte,
cresce / con lerba alle soglie dei vecchi paesi franati. //
Il sole sbieco sui lauri, il sole buono / con le grandi corna, lodoroso
palato, / il sole avido di bambini, eccolo per le piazze! / Ha il
passo pigro del bue, e sullerba, / sulle selci lascia le grandi
chiazze / zeppe di larve. // Terra di mamme grasse, di padri scuri
/ e lustri come scheletri, piena di galli / e di cani, di boschi
e di calcare, terra / magra dove il grano cresce a stento / (carosella,
granoturco, granofino) / e il vino non è squillante (menta
/ dellAgri, basilico del Basento) / e luliva ha il gusto
delloblio, / il sapore del pianto. // In unaria vulcanica,
fortemente accensibile, / gli alberi respirano con un palpito inconsueto;
/ le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo. / Cumuli
di macerie restano intatti per secoli: / nessuno rivolta una pietra
per non inorridire. / Sotto ogni pietra, dico, ha linferno
il suo ombelico. / Solo un ragazzo può sporgersi agli orli
/ dellabisso per cogliere il nettare / tra i cespi brulicanti
di zanzare / e di tarantole. // Io tornerò vivo sotto le
tue piogge rosse / tornerò senza colpe a battere il tamburo,
/ a legare il mulo alla porta, / a raccogliere lumache negli orti.
/ Vedrò fumare le stoppie, le sterpaie, / le fosse, udrò
il merlo cantare / sotto i letti, udrò la gatta / cantare
sui sepolcri?
E ancora lui, Sinisgalli, e sempre con i suoi toni dolenti, in Pasqua
1952:
Le pendici del Serino sono ancora bianche di neve.
/ Ci siamo tappati nelle stanze, a stento / ci arrivano dalla piazza
i rintocchi dorologio. / Il fumo ci arrossa gli occhi, / è
umida di bosco la legna morticina. // Cristo risorgerà dal
sepolcro di iris: / i messaggeri ce lhanno comunicato / bussando
alle imposte. / I piccoli pastori ci portano i primi / asparagi
dalle pinete, lortolana / scalza è entrata con un cesto
di fiori / di rape. // Aspettano da trentanni una Pasqua /
tra i fossi, il muschio sopra i sassi, / le viole tra le tegole.
Ma i morti / dormono sulle bare di castagno, / sugli archi delle
stalle e dei porcili, / sulle crociere delle cantine e dei pollai.
/ Fanno fatica ad abbandonare per sempre / le nostre sedie, i nostri
letti, / dove vissero tanti anni di lenta agonia. // Lungo le strade
gli stracci / neri delle vesti sono più silenziosi. / Un
gruppo duomini brucia col ferro / il grumo di veleno nella
bocca dellasino
Calanche grigiastre emblema della fame lucana. Labbandono,
le odissee ignorate, le cronache a mezza bocca (e anche queste infastidiscono
le opere e i giorni delle terre dellopulenza), le insorgenze
per il possesso di un minifundo, la tracotanza baronale, la Storia
cancellata
Sopravvivono i sodalizi, questi non li inghiottirà
la materialità di chi diceva Carmelo Bene depensa.
E così riemergono dagli abissi dei nostri ri-morsi i versi
dei meridionalisti militanti, di chi entrò in sintonia al
di là di ogni frontiera, di chi fece della propria cultura
lo strumento principe per il riscatto del Sud.

Baricentri ideali, un paese e un sepolcro, non in una sontuosa
Santa Croce di periferia, ma nel cimitero di un minuscolo paese
lucano, in cima a una brulla costola dAppennino. Vittore Fiore
ricorda luomo, il perseguitato, lamico, (il poeta),
Rocco Scotellaro: Nella tua tomba di Tricarico / cuore di contadino
non si strugge / come nella Torre Normanna / cuore di cuculo non
singhiozza, / io sento i fiori di Lucania / e luva puttanella
maturare, / teniamo riunione alla Ràbata, / profumo di susine,
di stalla / e intellettuali di Matera, / di Potenza, cantando tutti
insieme / le tue nenie e canzoni di riscossa / nel paese di Rocco
/ e dovunque una piantata restituisca / cuori di vaccari e bandiere,
/ i tuoi racconti di paesani, di partenze, / dovunque una piazza,
come dicevi, / ha un sole di mille candele / e un paese come il
tuo, / è come una tavola nera. / Cantiamo tutti insieme,
/ manovali delle rotabili, / pastori delle curve, / lontane luci
notturne, / cantiamo, noi, cicale / delle scorciatoie, delle valli,
/ che abbiamo pianto lungamente / e che Rocco è nella sua
tomba di Tricarico / e non ci fa dormire, il ragazzo / che si annida
sui nostri cuori / e ha rotto laria della Lucania. // Contadino
senza terra, con un fiore di fuoco / contro il cielo, giovane donna
di acagiù, / tu credi che un poeta morto / sia un minuscolo
corpo, / mentre dietro di lui / passano e ripassano scialli neri
/ e vestiti di fustagno, ecco, / e scorrono piani di trasformazione
/ e romanzi nuovi e dialetti / e il respiro delle streghe nelle
tele / di Lucania, delle vedove di Calabria, / di zolfatari e pescatori
di Scilla, / siamo lastuzia contadina e i cieli bassi, / Rocco,
la vita che ci univa, / gli orizzonti lontani della tua terra, /
li seguo dal ciglio dei burroni / mentre ride il tuo sangue per
le valli / di poeta contadino, il tuo cuore lucano.
Civiltà terragna, dopo il tramonto di Magna Grecia e le ininterrotte
schiavitù di barbari invasori. Con gli odori e i sapori della
campagna, nelle visioni bucoliche, (Anna Santoliquido: I contadini
/ della Lucania / profumano / di terra / odorano/ di mosto / diffondono
/ intorno / la fragranza / del pane / appena sfornato
), ma
anche con le realistiche narrazioni, che non ammettono ammiccamenti
o reticenze, (Rocco Scotellaro:
Gettano i mantelli neri, /
amano il loro mestiere, / uomini sono gli abigeatari, / spiriti
pellegrini della notte, / si cibano allalba
; e dello
stesso autore, in versi dedicati alla sua regione:
È
tanto imbrunito / che mi sento addosso paura. / Ha ripreso la vita
/ dei piccoli rumori. / Sono sui tetti le anime / dei morti del
vicinato, / camminano sulle zampe dei gatti). Mentre Mario Trufelli
rammenta il paese natio: Cè un paese che diventa vivo
/ quando la luna è alta
/ Cè un paese in
alto sulla terra / ha un suo povero cuore nascosto / sta solo a
reggersi il cielo / con le sue vecchie case di pietra; e Antonio
Rinaldi scrive dellatmosfera bellissima della sua Potenza:
Mormora nella sera / come una voce gelida la brezza / che muove
dalloriente. Bruna / si vela nello sguardo / trepido, fisso;
ti trascorre / quasi una luce il petto dove il cuore / dal silenzio
invernale / lentamente si sveglia
Liberata / nel celeste è
la fronte
// Come un mare, a onde / bagna il vento i capelli,
tra le nuove fronde / trema bianca la luna.
(4 - continua)
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