Per molti anni,
la crescita Usa è stata il motore dello sviluppo
globale.
Ora non è più così: adesso è il mondo
a sostenere
leconomia
americana.
|
|
La globalizzazione è il classico capro espiatorio, sfruttato
da politici ed esperti di tutte le tendenze. La chiamiamo in causa
per mille motivi: disoccupazione, disuguaglianze, prodotti scadenti.
Ma il vero test è un altro: come si spiega la tenuta delleconomia
statunitense, nonostante il collasso del mercato immobiliare? Quattro
le ipotesi possibili: labile guida della Federal Reserve da
parte di Ben Bernanke; la domanda sempre sostenuta da parte dei
consumatori; la bassa inflazione; il commercio estero.
Lipotesi giusta è lultima. Il deficit commerciale
americano è aumentato per così tanto tempo che ci
si dimentica che può anche scendere. Ed è stato proprio
quello che è successo lanno scorso: fino ad agosto,
il disavanzo era di 472 miliardi di dollari, il 9 per cento in meno
(46 miliardi) rispetto allo stesso periodo dellanno precedente.
Nel secondo trimestre, leconomia Usa è cresciuta del
3,8 per cento annuo, anche calcolando lo 0,6 per cento in meno causato
dalla crisi immobiliare.

Un contributo decisivo (+1,3 per cento) è sopraggiunto proprio
dal miglioramento della bilancia commerciale. Un grande esportatore
come la Caterpillar è un esempio di questa svolta: tra il
2004 e il 2006 le sue vendite allestero sono cresciute del
44 per cento (a 10,5 miliardi di dollari), e nellultimo anno
e mezzo ha creato 11 mila posti di lavoro in America. Non è
garantito che la ripresa dellexport americano eviti una recessione.
Ma il fatto che questo sia possibile ci induce comunque a considerare
in modo più positivo la globalizzazione, senza accontentarci
degli stereotipi.
Contrariamente a quanto si pensa di solito, il saldo commerciale
(deficit o surplus) non ha effetti strutturali rilevanti sulloccupazione
statunitense. La creazione o distruzione di posti entro i confini
dello Stato americano nel lungo periodo è svincolata dallimpatto
del commercio estero: dal 1991 al 2006, il disavanzo è cresciuto
da 31 a 759 miliardi di dollari, e nello stesso periodo gli occupati
sono aumentati di 28 milioni, con una riduzione dal 6,8 per cento
al 4,6 per cento del tasso di disoccupazione.
Ma il commercio, come qualsiasi tipo di concorrenza, ha un impatto
su specifiche attività lavorative: quelle più vulnerabili
allimport cercano di salvare i propri posti, anche se il libero
scambio è positivo per leconomia nel suo complesso
(scelta maggiore di prodotti, a prezzi inferiori). Il protezionismo
sembra una risposta logica, ma è tardiva. Avrebbe avuto senso,
per gli Stati Uniti, trentanni fa, prima che il disavanzo
commerciale iniziasse ad esplodere. Quei posti di lavoro sono perduti
e in gran parte non torneranno. Anzi, essere protezionisti oggi
peggiorerebbe le prospettive occupazionali delle industrie esportatrici.
Un esempio: il governo americano aveva proposto accordi di libero
scambio con Perù, Panama, Colombia e Corea del Nord. Nel
clima protezionistico che si respirava allepoca al Congresso
americano, questi accordi potevano essere approvati. Eppure, avrebbero
potuto avere un effetto netto positivo sulle esportazioni.
La diminuzione del deficit riflette innanzitutto il deprezzamento
del dollaro, che dal 2001 ha perso il 22 per cento rispetto a un
paniere di ventisei valute. Questo rende più competitive
le esportazioni americane e più costose le importazioni,
e contribuisce al cosiddetto decoupling tra leconomia
statunitense e quella mondiale. Per molti anni, la crescita Usa
è stata il motore dello sviluppo globale. Gli americani sono
stati i compratori di ultima istanza: gli altri Paesi hanno rafforzato
produzione e occupazione esportando negli Stati Uniti.
Ora non è più così. Nella seconda fase dellanno
scorso, la spesa americana al consumo è cresciuta di un misero
1,4 per cento annuo; secondo le stime del Fondo monetario internazionale,
questanno la crescita mondiale sarà più del
doppio rispetto a quella americana. Adesso sostiene leconomista
Jim O Neill è il mondo a sostenere leconomia
americana.
Ancora più in generale, è un errore incolpare la globalizzazione
per le crescenti disuguaglianze economiche, che invece sono causate
soprattutto dalle nuove tecnologie, che allargano i divari retributivi
tra lavoratori più e meno qualificati. Sono ben altre le
vere, grandi preoccupazioni legate alla globalizzazione. Ad esempio,
la moneta cinese rimasta sottovalutata. Un altro rischio è
quello di una crisi valutaria globale, se si verificasse una fuga
dal dollaro degli investitori, con una brusca caduta della divisa
americana e con uno sconvolgimento dei flussi commerciali e finanziari
internazionali. Viceversa, un graduale deprezzamento del dollaro,
unito a un declino del disavanzo commerciale Usa, sarebbe rassicurante.
Cruciale è la gradualità: gli scossoni violenti portano
danni economici sicuramente ingenti.
Gli attacchi rituali alla globalizzazione non sono innocui. La psicologia
è importante. Se gli investitori globali si convincessero
che gli Stati Uniti vogliono rendere la loro economia meno aperta
al commercio e agli investimenti esteri, leffetto sarebbe
di un vero panico nei confronti del dollaro. Lo status del biglietto
verde come valuta globale di riferimento dipende dalla sua utilità
per comprare e vendere. Se questo ruolo verrà ostacolato,
il dollaro diventerà sempre meno indispensabile. Quelli che
in America si scagliano contro la globalizzazione dovrebbero ricordarsi
che il mondo li ascolta, e potrebbe agire di conseguenza.
|