La burocrazia
ha senso se ha obiettivi nobili.
E invece in questa maniera tende
soltanto ad
affaticare le
imprese italiane.
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Non è un gioco di parole. È la pura e semplice realtà
di casa nostra: avviare unimpresa da noi costa diciassette
volte più che nel Regno Unito; ma anche undici volte di più
rispetto alla Francia. In termini puramente tecnici, si parla di
start-up. Che è come dire: lavvio. Soltanto questo:
la partenza di unazienda.
Un aspirante imprenditore italiano deve mettere sul tavolo 3 mila
e 600 euro, come minimo, solo per presentare il fardello cartaceo
che è preliminare alla nascita di unimpresa. E si tratta
solo delle prime, primissime carte, sintende. In Inghilterra
se la cavano con 207 euro. In Francia con 300 euro circa. In Irlanda
con 95. In Nuova Zelanda con una cifra corrispondente a 41 euro.
Solo la Grecia sta messa peggio di noi: 3 mila e 700 gli euro necessari
per aprir bottega. Eppure, più che i quattrini, contro limprenditore
italiano è la burocrazia che si accanisce con ottusa determinazione.
Unindagine conoscitiva che il Censis ha condotto insieme
con la Confcommercio ha esplorato i meandri burocratici delle aziende
italiane, per rispondere alla domanda: che cosa succede dopo lo
start-up? Risultato della ricerca: limprenditore italiano
deve girare per un paio di settimane almeno in nove diversi tipi
di uffici. In bocca al lupo! Però allinizio, almeno,
a spingere cè lentusiasmo del neofita. Ma dopo?
Dopo, laspirante imprenditore deve imbarcarsi in diciassette
passaggi attraverso la Pubblica amministrazione soltanto per ottenere
permessi e autorizzazioni, ad esempio, per costruire il magazzino
della sua impresa: totale, 284 giorni a correr dietro alla burocrazia.
E dopo ancora?

Dopo ancora, per registrarlo, quel magazzino, o un terreno annesso,
oppure un fabbricato, che cosa deve fare? Questa volta limpavido
apprendista industriale deve girare almeno per ben otto uffici diversi.
Come succede in Corea. Otto defatiganti passaggi burocratici, il
doppio rispetto agli altri Paesi industrializzati, in media. Perché
in Svezia, ad esempio, di passaggi del genere è sufficiente
solo uno. E negli Stati Uniti, al massimo quattro.
La verità è che si passa un gran tempo a firmare
montagne di carte che nulla hanno a che fare con limpresa,
dal momento che sono solo pesi burocratici. E non è aumentando
complessi incartamenti o numero di passaggi burocratici che si rende
più trasparente limpresa verso il mercato. Anzi! La
burocrazia ha senso se ha obiettivi nobili. E invece in questa maniera
tende soltanto ad affaticare le imprese italiane. In particolare
quelle piccole. Non si può certo non tener conto che ogni
passaggio burocratico è un costo, molto spesso impegnativo.
Le imprese italiane hanno bisogno di tutela. Perché sono
vitali e creativi gli imprenditori del nostro Paese, titolari di
oltre 7 milioni e 100 mila imprese, tante quante ne sono state censite
lo scorso anno. Ed è grazie a questa spinta creativa che
ancora oggi da noi cè il saldo netto positivo delle
aziende, la natalità che supera sempre la mortalità:
più di 70 mila il saldo attivo dellultimo Rapporto
dellUnioncamere (873.333, per essere precisi). Lo stesso Rapporto,
però, ci segnala anche una brusca frenata. Un rallentamento
del tasso di crescita: da 1,6 a 1,2 per cento. E questo perché
nellultimo anno le cancellazioni sono aumentate parecchio.
È un segnale poco rassicurante. Centrano qualcosa le
tasse tutte italiane per le aziende? Da noi pesano per il 76 per
cento degli utili dellimpresa, contro, per capire, il 47,8
per cento medio dei Paesi Ocse. Ma non solo. Oltre che molto di
più, ci vuole anche molto più tempo per pagarle, le
tasse: 360 ore, ha calcolato il Censis, ci mette un imprenditore
a compilare i moduli dei pagamenti, contro le 203 ore della media
dei Paesi Ocse. E il tempo, si sa, è denaro.
Ogni impresa, da noi, ha bisogno di un impiegato che sia addetto
soltanto a sbrigare i rapporti con le Pubbliche amministrazioni.
E non è un onere da ridere. In un conteggio complessivo,
si calcola che la spesa a carico del sistema produttivo per gli
espletamenti amministrativi sia di oltre 13,7 miliardi di euro,
pari a circa l1 per cento del Prodotto interno lordo (dati
stimati da Censis-Confcommercio).

Alcuni invocano lintroduzione dellautocertificazione
per tutto ciò che non è tassativamente soggetto ad
autorizzazioni esplicite e specifiche. Il che significherebbe tagliare
una bella fetta di ingerenza burocratica. Ma pare che da questo
orecchio non si senta. Allora si ricorda che si potrebbe realizzare
il celeberrimo sportello unico.
E non è che questo problema non sia stato preso in considerazione.
Tuttaltro. È da gran tempo che i governi in successione
si chiedono che cosa fare per combattere la burocrazia che soffoca
le imprese. Ed è da più di dieci anni, ormai, che
la risposta ha sempre avuto lo stesso nome: sportello unico per
le imprese.
Un nome, una chimera. Perché questo sportello lo si voleva
già nel 1998, anche per combattere si disse
la corruzione e la microcriminalità organizzata nel mondo
dellimprenditoria. E venne messo in piedi. Ma non decollò
mai. Un nuovo disegno di legge passò da Palazzo Chigi, incluso
nel calderone delle liberalizzazioni. Approvato dal governo, passò
a Montecitorio, che diede lok. Ora giace a Palazzo Madama,
alla Commissione Industria del Senato. Chissà se, e quando,
potrà vedere la luce.
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