La pietas
è un certo sapore della solitudine; lesperienza
di ritrovare
luniverso dentro il quale si è diventati quello che
si è, così come si è.
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Cè un luogo, una periferia remota, unestremità
di terra, dove tutto quello che accade appare predeterminato, dove
i destini non sincrociano mai per caso, e uomini e donne sprofondano
in se stessi, annegano nella voragine che spalanca lesistenza,
dissipano sentimenti e ragione, passioni e progetti, non hanno nulla
da perdere perché hanno già perso, hanno già
perso tutto in assoluto, senza nessuna possibilità di riconquista,
oppure di salvezza o remissione.
Vivono come scheletri vaganti nel vuoto dei palazzi, nella insensatezza
delle feste, in una decadenza esistenziale, ostaggi di stupidi vizi,
debosciati, depressi dallhorror vacui, dalla miseria del tempo.
Hanno storie piccole che gli si sgretolano sotto i piedi, ossessioni
del passato, indifferenza nel futuro, si voltano indietro per vedere
cumuli di macerie: fortune bruciate, fallimenti. Se una volta hanno
avuto qualcosa è andato perduto. Se una volta hanno avuto
qualcuno adesso non hanno neppure se stessi. Percorrono unesistenza
ai margini, disorientati, dispersi in boscaglie intricate di ricordi.
Hanno giorni sfilacciati che si alzano e cadono senza che accada
mai nulla che abbia un senso vero, un riconoscimento autentico.
Vivono di sottrazioni, di negazioni, nascondimenti o svelamenti
di misteri da burla, provano felicità o disperazioni per
occasioni da niente, si lasciano andare fino in fondo ad un pozzo
di assuefazione alla noia e allassenza a se stessi.
Cè un luogo che è sineddoche del mondo, mimèsi
del reale e realtà trasformata in finzione, dove mentire
a se stessi è lunico modo per sopravvivere, dove cercare
la mischia è un tentativo di sfuggire ad una solitudine che
rassomiglia in modo straordinario alla morte.
Quale sia il luogo che costituisce lambientazione di Salentos
movida (Glocal Editrice, 2007), Armando Tango lo dice: è
una connotazione topica, unidentificazione del contesto, paradigma
e archetipo che assimila, rielabora ed esprime ambiguità,
ambivalenze, dicotomie, contrapposizioni tra impegno e disimpegno,
responsabilità e deresponsabilizzazione etica e sociale,
convergenze e divergenze di concetti sui massimi e sui minimi sistemi,
nuovo che avanza e avanzi del nuovo.
Armando Tango carica il luogo di una funzione semantica essenziale
perché si costituisce come modello cui far riferimento per
uninterpretazione dei conflitti e delle tendenze di una post
modernità che registra lazzeramento delle tensioni
allo sviluppo individuale e collettivo, la resa al compromesso con
la banalità e il qualunquismo, la passività e il rifiuto
come categorie dellesistenza, i segni di una debolezza civile,
di uninedia e unignavia che devastano la storia degli
anni di questo inizio di millennio, la mancanza di unautocoscienza,
la consapevolezza che nulla si ripete ma tutto torna, si ripropone,
invecchiato, con addosso e dentro tutte le premonizioni della fine.
In questo luogo chiuso, separato le esistenze si consumano:
si disfano, si sfarinano; manca ogni sintomo di fiducia, qualsiasi
spiraglio di speranza; manca ogni consolazione, non cè
ombra di senso che sia diverso da quello che proviene da corpi che
si agitano nellammasso frenetico e informe della movida: un
movimento senza direzione, un vagolare nel deserto di ogni giorno.
È un luogo minato dal nichilismo, dalla vacuità,
che si decompone, si lascia sfibrare dal virus delleffimero,
nasconde il volto butterato dietro maschere frivole di salotti neoborghesi,
che sono il purgatorio di donnette, peones, vitelloni rammolliti
e atterriti dallidea di invecchiare.
Certo, la cifra stilistica di Armando Tango è lironia
o, forse più esattamente, la sintesi ironica, limmagine
icastica e caustica che stringe unessenza del vivere.
Ma è di quel genere di ironia disperata, che rivela un degrado,
lo sfacelo morale di una società che sopravvive strascinandosi
verso lorizzonte di unaltra sera, di un altro invito
a una cena, della comparsa di un ospite importante nel palazzo di
città o nella villa al mare.
Poi, come sempre accade, dallironia si genera una grande malinconia.
Cè una grande malinconia in questo romanzo: per tutto
quello che passa, per linutilità di quello che resta,
per la sottrazione di quello che si sogna, per i desideri brucianti
che si spengono, per i pensieri che si riducono ad elaborare fini
immediati e pratici.
I personaggi si guardano passare; vale a dire che si lasciano morire.
Si scoprono sempre più soli, sempre più invischiati
in ricordi compatti o che si presentano a brandelli.
Sono disimpegnati, impolitici, agnostici, egoisti, individualisti,
complessati, fuori tempo, fuori luogo. Non affermano e non negano
un senso perché non riconoscono un senso a niente e a nessuno.
Vivono in silenzio drammi giganteschi mentre si esaltano per piccole
stupide insensate rivincite su rivali che hanno la loro stessa ridotta
statura. Sono la rappresentazione di un tempo, di unepoca,
che ha perduto o si è privata dellimmaginazione,
della speranza, della tensione ideale, del sentimento sociale, del
conflitto ma anche del compromesso generazionale.

Il decentramento geografico che Armando Tango adotta come ambientazione
di questo romanzo è coerente con una destrutturazione sociale,
con uno sradicamento ideologico, con limpoverimento dellimmaginario
individuale e collettivo.
Quello che resta è un vaneggiante narciso accartocciato nel
suo sterile compiacimento.
Armando Tango costruisce il suo romanzo con una ciclicità
che di volta in volta lascia intuire o rivela lincombenza
di una tragedia che ha sempre la fisionomia del quotidiano, del
consueto, talvolta del banale, ma che in ogni caso rappresenta la
superficie di una profondità, di un cratere di mancanze,
di perdite.
Armando Tango racconta queste profondità di mancanze e di
perdite attraverso procedimenti stilistici di deformazione figurativa,
unenfatizzazione grottesca, nel progressivo restringimento
delle dimensioni spazio-temporali dei personaggi, che li conduce
al solipsismo.
Accade talvolta che le storie finte della letteratura rassomiglino
drammaticamente a quelle vere dellesistenza. Che la differenza
che passa tra le parole e i destini si faccia effimera, quasi inesistente.
Che le pagine di un libro abbiano i colori delle stagioni, gli affanni
di tanti giorni, le felicità di pochi istanti, i dolori che
durano millenni, solitudini senza fondo, sogni che affondano come
bastimenti sorpresi da tempeste sconvolgenti.
Accade in molte pagine di Salentos movida: è come se
tante storie fossero già viste, già sentite, appena
ieri oppure molto tempo fa. Sono storie che hanno personaggi con
unesistenza che si configura quasi come un modello del vivere
in un luogo, in un tempo, in una condizione. Sono occasioni per
pensare, o ripensare, alle cose come sono andate e a come sarebbero
potute andare, a quello che si è fatto o non si e fatto,
si è detto e si è taciuto, alle feste finite bene
e a quelle finite male.
Il tempo risucchia tutte le passioni. Non lascia spazio a nessuna
proiezione nel futuro, a nessun progetto di domani, a nessuna fantasia
di avventura. Il tempo è soltanto negazione delle possibilità,
stagnazione delle tensioni, azzeramento del desiderio. Non soltanto
dimostra, istante dopo istante, che tutto passa ma più
tristemente che tutto è già passato.
Allora con il passato il conto rimane sempre aperto. Tutto quello
che si vive, che si guarda, si tocca, si pensa, si sogna, è
stato già vissuto guardato pensato toccato sognato, quindi
è una menzogna del presente, una ripetizione, una copia,
oppure unappendice inessenziale e forse anche insignificante,
perché non toglie niente e non aggiunge niente alloriginale.
Il passato giudica. In modo implacabile, senza indulgere, senza
concedere attenuanti a nessuna colpa.
In questo libro il senso di colpa è corrosivo. Tutti hanno
una colpa, confessata o negata. Vivono aspettando un giudizio o
una condanna. A volte spesso dal passato vorrebbero
liberarsi per poter vivere senza la sua ombra inquietante, senza
sentire il suo fiato sul collo, la sua ammonizione. Però
sanno che non possono dimenticare. Così si accontentano di
ironizzare, di risolvere un confronto con se stessi con lamarezza
di un sorriso, di concludere un incontro con la donna di una volta
con uno sguardo perso in mezzo al vuoto. Tentano di non pensarci.
Il presente è questa attesa di un giudizio e una condanna.
Nelle due righe che accompagnano il libro, lautore mi scrive
che Armando Tango è lo pseudonimo che usa da ventanni
quando gioca.
Il termine gioco messo tra le virgolette mi fa venire in mente unimmagine
e un riferimento.
Limmagine è quella di un bambino che gioca. Nessuno
è più serio di un bambino che gioca. Perché
il gioco è un metodo (lunico possibile metodo) di esplorazione
e scoperta del mondo. Si esplora e si scopre il mondo finché
si gioca; quando si smette di giocare sul mondo scende il buio.
Lo scrittore è colui che continua a esplorare e a scoprire
perché non vuole che sul suo mondo scenda il buio.
Il riferimento. Dice Roland Barthes che la scrittura è quel
dato neutro, composito, obliquo «in cui si rifugia il nostro
soggetto, il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità,
a cominciare da quella stessa del corpo che scrive».
Che il nome di Armando Tango sia vero o falso, dunque, non fa nessuna
differenza. Non cambia una sola virgola che unopera sia firmata
da Fernando Pessoa o Alberto Caeiro, Alvaro de Campos, Ricardo Reis,
Bernardo Soares. Come non cambia una sola virgola che Salentos
movida sia firmato da Armando Tango o da Teo Pepe. Conta solo che
sia un libro che Lecce e il Salento aspettavano perché ne
avevano bisogno per esplorare e capire il mondo che sono.
Come ogni scrittore, Giacomo Annibaldis scrive per cercare. Come
ogni scrittore Giacomo Annibaldis scrive per cercare cose che conosce.
Cerca quelle cose che conosce perché ha bisogno di definire
lorigine e la consistenza esistenziale del proprio tempo,
della propria storia, di quello che è accaduto e di quello
che si è sognato, della vista mare che a volte è limpida,
trasparente, libera da ogni striatura di cielo che offuschi lo sguardo
e che a volte, invece, è annuvolata, nebbiosa, senza spiraglio,
senza orizzonte, senza sognamento.
Cercare quello che già si conosce è esattamente come
guardarsi allo specchio in un preciso momento pensando, in quel
preciso momento, a come si era in un momento diverso, in un passato
prossimo o remoto, vicino o lontano. Ecco: per Annibaldis la Casa
popolare vista mare (Besa, 2007), è questo gesto di rispecchiamento.
Scrive per ritrovarsi in ogni pagina, in ogni frase, ogni riga,
ogni parola, ogni sillaba. Perché non sono parole, frasi,
sillabe; sono piuttosto giorni andati via. Sono voci che il tempo
ha risucchiato e portato lontano, che fa mulinare e tornare, di
tanto in tanto, sempre più spesso, mentre si sta camminando,
lavorando, parlando con gli amici, che certamente fa tornare ogni
notte, soprattutto in quellora che non è notte più
e non è alba ancora, allora quelle voci tornano nel residuo
dellinsonnia, nello spossato dormiveglia, a dire cose già
dette, a ridare un consiglio, a rinnovare un conforto, una consolazione.
Ritornano perché sono volti che ci appartengono, materializzati
nellaria in cui affondiamo lo sguardo, sovrapposti ai nostri
stessi volti che giorno dopo giorno si fanno sempre più somiglianti,
fino a confondersi.
Come ogni scrittore che fa quotidiana esperienza della strana
e spesso indesiderata, dolorosa confusione tra le storie
della vita e quelle di una narrazione, Giacomo Annibaldis si ritrova
a raccontare storie che non sono altro che la sua stessa storia.
Sono il nucleo di quello che poi è venuto, di quello che
cè stato, di tutto quello che si è perso e guadagnato,
dei patti fatti con i sogni e la fortuna, un po per celia
e un po per non morir, come diceva il vecchio Petrolini.
Casa popolare vista mare è sostanzialmente il racconto di
un ritorno. Annibaldis fa tanta, tanta strada, notte e giorno, in
sonno e in veglia, per paesi, per libri, per mitologie, per vibranti
antichità, fa tanta strada con le gambe e col pensiero, con
la passione e la ragione, per arrivare a domandarsi dovè
finito luomo che vendeva gelati al limone, e dove sono finiti
tutti gli altri, tutti quelli delle palazzine. Se lo chiede come
Edgard Lee Masters si chiedeva dove fossero labulico, lubriacone,
il buffone, rispondendosi che tutti dormono, dormono, dormono sulla
collina.
Annibaldis non sa oppure non dice dove dormono tutti quelli dello
Iaccipì: laccattona, la Calabrese, la Menna-Menna,
la Pizzicatrice, la bambola, i vecchi, le vecchie.
Quando si cerca qualcosa, allora, non si cerca altro che quello
che già si conosce. Così quando si ritorna si ha desiderio
di ritrovare quello che cera, anche se si sa perfettamente
che niente può essere mai nel modo in cui è stato.
Quando si racconta un ritorno si fa confessione della consapevolezza
di questa impossibilità di ritrovare luoghi e creature.
Allora non si dovrebbe ritornare mai. Non si dovrebbe raccontare
mai. Non raccontate mai niente a nessuno, va a finire che sentite
la mancanza di tutti, dice Salinger alla fine del Giovane Holden.
Invece Annibaldis racconta perché avverte la mancanza di
tutte quelle esistenze stupefatte dal mondo, sopraffatte dal tempo,
soverchiate da destini incomprensibili o beffardi, qualche volta
oltraggiosi. Sa bene che tra quella gente si è fatto il suo
volto, la sua storia, tra quella umanità che sapeva salvarsi
la vita istante per istante, e dopo che laveva salvata se
la stringeva forte perché era la sola cosa che possedeva,
anche se sembrava che non valesse niente. Invece valeva quanto tutto
luniverso, perché era autentica, perché era
essenziale. Annibaldis racconta: ora che sa leggere di greco e di
latino, e scrive e scrive e ha molte altre virtù, sa che
non può scrivere altro che di quel tempo, di quel luogo,
di quelle storie; sa che ogni sua parola è citazione della
parola della madre; sa che il classico dei classici è il
corpus dei versi di Tommaso, il poeta con il ventre dilatato, come
un relitto gonfiato dalle maree.
Casa popolare vista mare è uno di quei libri che si tengono
dentro, in segreto, per anni e anni, che crescono lentamente, si
stratificano, si nutrono di sangue, di memoria. Poi si fanno sillaba,
parola, racconto. Quando il tempo è maturo, come la vita.
Allora questo è un libro che Giacomo Annibaldis doveva scrivere.
Per un impegno assoluto e ineludibile con la madre, con la propria
storia duomo, con se stesso; per un patto con la terra, con
la memoria, con il destino, con lorigine, con il tempo passato
e con quello a venire, con i dolori superflui, le misere felicità,
i pochi ma straordinari stupori.
Questo è un libro che doveva alla sua infanzia: perché,
come dice Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò, abbiamo tutti
una montagna dellinfanzia, e per lontano che si vagabondi,
là dovremmo ritornare perché là fummo fatti
ciò che siamo.
Lo doveva a quella foresta di volti che ha attraversato per tutti
i suoi cinquantasette anni; a quelloceano di voci che in ogni
stagione lo ha inondato; a tutti i sogni ad occhi chiusi e aperti,
alle partite vinte e a quelle perse, ai giorni chiari e anche a
quelli scuri.
È un libro che doveva ad una figura di madre delicatissima
e possente, un portento di metafora, un ricordo consolante, che
insegna che la vita è battaglia e pietà, altruismo
e sapienza, rispecchiamento nellesistenza di un altro, che
non fa da guardia alla sua casa dello Iaccipì ma alla scrittura
di un figlio, al suo desiderio di parole e al vincolo che ha con
esse, che ritorna nellimmaginazione e nellimpegno duro,
continuo, con la vita, che sorveglia il passo durante il cammino,
come angelo custode e compagna di strada, come premonizione e come
sintesi di ogni possibile esperienza.
Questo è un libro che Giacomo Annibaldis doveva al poeta
Tommaso: a quelluomo che si fa portavoce di molti altri uomini
cui non è stato dato un nome, che guarda luniverso
con la disperazione e la dolcezza di chi non ha bisogno di apprendere
niente perché il nascere gli ha già insegnato tutto:
il sogno e la consapevolezza della sua impossibilità, lirrimediabilità
della solitudine e la bellezza del mare, lamicizia che accade
come una straordinaria fortuna, la messinscena della tragedia e
della commedia sul fondale di scena di ogni giorno.
Doveva scriverlo, Giacomo Annibaldis, questo libro. Per testimoniare
che la fatica, lonesta e la parola, un grande sogno cresciuto
dentro gli occhi, lo sguardo che oltrepassa lorizzonte del
tramonto, possono consentire anche ai topi di volare.
Ma se un topo ha imparato a volare dice Annibaldis
non vuol dire che è diventato un uccello. «È
solo un pipistrello».
Certo, è solo un pipistrello. Ma che vola. Perché,
forse, quello che conta è soltanto il volo, il desiderio
di tentare il cielo, lazzardo esistenziale di stendere le
ali piccole o grandi che siano non importa e non se
a volare sia un albatro o un pipistrello.
Diceva Franz Kafka nel terzo dei suoi Quaderni in ottavo: «Le
cornacchie affermano che basta una sola cornacchia a distruggere
il cielo. La cosa è indubitabile, ma non significa nulla
contro il cielo, poiché il cielo significa appunto incompatibilità
con le cornacchie».
Ma non cè nessuna incompatibilità tra il cielo
e i pipistrelli. Il cielo appartiene a loro nellesatta misura
in cui riescono a scoprirlo, a farsi accogliere, riconoscere come
creature che volano perché hanno il desiderio o il bisogno
di volare.
Doveva scriverlo un libro come questo, Giacomo Annibaldis. Perché,
poi, quando tutto passa, le avventure si concludono, i furori si
consumano, quando la memoria comincia ad offuscarsi, e i personaggi
e le scene si fanno lontananti, allora resta la scrittura come prova
che i fatti sono accaduti, che qualcosa è cambiato, che le
parole sono fiato capace di trasformare luniverso, che il
gelataio cè stato davvero e i suoi gelati al limone
erano i più buoni che mani duomo abbiano mai potuto
impastare.
Cè un elemento che in questo libro diventa espressione
connotante, cifra che lo sottrae a qualsiasi tentativo di assegnarlo
rigidamente ad un genere. È un elemento dello stile e quindi
della personalità. È un elemento della formazione
e quindi della sensibilità. È un elemento della cultura
e quindi della capacità di rielaborare i segni e di stabilire
relazioni con laltro da sé.
È la pietas, questo elemento. Una sorta di dolcezza che mitiga
la sventura che travolge ogni creatura. Un colore che apre una finestra
di luce nelloscurità delle vicende. Una bellezza della
speranza che insidia la consapevolezza della irreversibilità
e irrimediabilità della miseria. Un profumo di pulito che
per un attimo dissipa un lezzo nauseabondo del quartiere.
La pietas è la percezione di una malinconia, di un tumulto
di sentimenti e sensazioni, un affetto verso i luoghi, le storie,
gli uomini, nei confronti di una geografia dellanima; è
un abbandono rassegnato allinevitabile; è unetica
della storia, incorruttibile.
La pietas è una sommessa preghiera verso tutti quelli che
sono andati e mancano; è un gesto di coraggio verso quelli
che sono rimasti e si confrontano con il tempo, con una dignità
di dei sopravvissuti alla fine del mondo.
La pietas è un certo sapore della solitudine; lesperienza
di ritrovare, in fondo alle immagini della scrittura, luniverso
dentro il quale si è diventati quello che si è, così
come si è.
Doveva scriverlo, Giacomo Annibaldis, questo libro.
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