Con l’Opec del grano, dobbiamo
prepararci
a un futuro in cui
i generi alimentari costeranno più
cari: finisce il cibo a buon mercato.
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In economia, è difficile che i mali vengano da soli. Con
fatica ci eravamo abituati all’idea che gli Stati Uniti potessero
andare in recessione, ed ecco comparire la stagflazione, terribile
mescolanza di inflazione e di stagnazione.
Non basta, però; perché è arrivata l’agflazione,
ossia l’inflazione derivante dal settore agricolo, che tocca
soprattutto i cereali e che ha ingaggiato una nobile gara con il
petrolio a chi destabilizza di più il nostro modo di vita:
l’indice dell’Economist, espresso in dollari, mostra che
il prezzo medio (all’ingrosso) delle materie prime alimentari
è cresciuto del 61 per cento negli ultimi dodici mesi, contro
un aumento del prezzo del petrolio, sempre in dollari, di gran lunga
superiore a quella percentuale.
Accanto alle preoccupazioni a lungo termine per le riserve petrolifere,
occorre collocare così anche le preoccupazioni per le scorte
dei cereali (in particolare frumento, mais e soia): non è
sicuramente un buon segno che la Fao, l’agenzia delle Nazioni
Unite che si occupa di agricoltura, di alimentazione e di sussidi
contro le carestie, abbia deciso di razionare gli aiuti ai 37 Paesi
che attualmente soffrono una crisi alimentare.
A differenza di quanto succede al petrolio, però, l’aumento
dei prezzi dei cereali deriva prima di tutto da un fatto positivo:
alcuni miliardi di esseri umani oggi mangiano meglio e di più.
Gli incrementi sono sensibili soprattutto in Cina e nell’Asia
sud-orientale, e derivano non già dall’insuccesso bensì
dal successo di politiche economiche e industriali che riguardano
quasi la metà della popolazione del pianeta.
All’aumento della domanda alimentare di chi esce dal reddito
di sopravvivenza si deve aggiungere poi l’aumento della popolazione:
quasi 70 milioni di persone all’anno, ossia più dell’equivalente
della popolazione italiana.

Accanto all’aumento di domanda, negli ultimi anni è
intervenuta una certa riduzione dell’offerta, in quanto una
parte dei terreni tradizionalmente coltivata a cereali per l’alimentazione
è stata convertita alla coltivazione di cereali destinati
alla produzione di biocarburanti. Infine, non vanno trascurate le
instabilità climatiche che hanno colpito soprattutto l’Australia,
con siccità “bibliche” negli ultimi due anni, e
più recentemente in Cina, con nevicate e gelate senza uguali
negli ultimi cinquant’anni, che hanno compromesso i raccolti
del 2008.
Spesso non ci rendiamo conto che il prezzo dei cereali è
la chiave di volta del prezzo di gran parte dell’alimentazione:
non influenza, infatti, soltanto la farina, e quindi il pane e la
pasta. I cereali sono anche l’elemento-base per la preparazione
dei mangimi di cui si nutrono alcuni miliardi di capi di bestiame
allevati. Con il nutrimento più caro, diventa più
costosa anche la carne di ogni genere, dai bovini fino ai polli;
e di qui l’aumento dei prezzi si estende alla filiera del latte,
e comprende il burro, i formaggi e le uova. Insomma, quasi tutta
la nostra alimentazione ne è toccata.
Non si tratta tanto di cercare colpe, come fanno allegramente i
mezzi di informazione, attribuendole largamente al settore commerciale,
bensì di individuare rimedi. E soprattutto di domandarsi
se l’attuale economia di mercato disponga di meccanismi sufficienti
per fornire i cereali aggiuntivi. E la risposta è positiva,
con qualche riserva, nel breve periodo; ma è molto più
incerta nel periodo medio-lungo.
Nel breve periodo, infatti, con l’unica incognita del clima,
nulla vieta di cambiare in favore dei cereali, divenuti più
redditizi, il mix produttivo degli agricoltori di tutto il mondo.
Questi cambiamenti sono già in corso e quest’anno ci
potrebbe essere un aumento della produzione intorno al 6 per cento,
una crescita eccezionale per questo genere di mercato; un simile
movimento sarà indubbiamente favorito dall’eliminazione
dei residui limiti alla coltivazione dei cereali nei Paesi più
ricchi, imposti in passato da autorità che temevano il fenomeno
contrario, ossia che il prezzo risultasse troppo basso e quindi
– direttamente o indirettamente – favorivano la conversione
dei cereali ad altre coltivazioni.
Non si possono, tuttavia, escludere nuove situazioni di difficoltà
grave in singoli Paesi nel corso dei prossimi mesi, con impennate
dei prezzi che daranno luogo a varie forme di controllo che hanno
già determinato ostacoli all’esportazione: nel timore
di non averne abbastanza per il proprio mercato interno, India,
Cina, Russia, Argentina e Kazakhstan hanno introdotto, o aumentato,
le imposte sulle esportazioni dei cereali, e l’Ucraina ha addirittura
sospeso le esportazioni. Nei Paesi più poveri e con un forte
deficit alimentare le difficoltà si potrebbero tradurre in
razionamenti.
Nel medio-lungo periodo, però, occorre domandarsi se la reazione
spontanea dei mercati possa risultare sufficiente, di fronte a una
domanda che non smetterà di aumentare fortemente. È
possibile che, per soddisfare la prossima crescita di domanda, sia
indispensabile passare a varietà di cereali con rese ancora
maggiori di quelle attuali; tali varietà sono, nella grande
maggioranza, del tipo ogm (organismi geneticamente modificati),
e si apre così un ulteriore grave dilemma, che non coinvolge
soltanto situazioni di mercato, ma anche convinzioni di tipo etico.
La seconda difficoltà è data dal comportamento dei
principali Paesi produttori ed esportatori, i quali sono fortemente
tentati di concertare la loro azione sui mercati, creando una “Opec
del grano”, come l’ha definita la Russia, quinto esportatore
mondiale. I produttori tenderanno, cioè, a garantirsi il
consolidamento e l’ulteriore crescita dei prezzi ora raggiunti.
Dobbiamo quindi prepararci a un futuro in cui i generi alimentari
costeranno più cari: finisce, come ha osservato di recente
l’Economist, «il cibo a buon mercato». Il cibo
a buon mercato, però, era direttamente collegato alla democrazia:
gli americani che giunsero in Italia nella Seconda guerra mondiale
portarono libere elezioni e milioni di tonnellate di farina in regalo
per alcuni anni.
In Italia, naturalmente, la democrazia si è consolidata:
ma che cosa succederà in altri Paesi, soprattutto in quelli
dove l’esperienza di cibo a buon mercato e di democrazia è
molto più recente? Se la farina diventerà più
cara, ci saranno ancora elezioni libere?
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