Così, alla fine,
per disperazione,
le famiglie
fanno ormai
le terremotate vita natural durante, dando vita a
uninterminabile catena di
santAntonio
della miseria.
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Ci stanno dentro da generazioni. I primi a soccorrerli erano stati
i marinai di una nave russa, poi era arrivata la regina Margherita
e aveva aperto il cuore alla speranza, dopo i lutti immensi che
avevano colpito Messina (e Reggio Calabria) col terremoto del dicembre
1908.
Erano state sgomberate le macerie, erano state realizzate
ma con estrema lentezza le baracche: baracche monarchiche,
baracche del Ventennio, baracche post-belliche, della prima e della
seconda guerra mondiale, infine baracche democratiche. Comunque,
sempre baracche. Perché nessuno di quelli che si sono succeduti
a capo di tutti i governi, da allora ad oggi, ha saputo trarre la
gente dalle topaie in cui avevano trovato rifugio gli scampati al
terremoto più disastroso del nuovo secolo, nessuno ha trovato
il modo di trasferire tanta di quella gente in una casa decente.
Sono tremila e 336, le baracche che formano il quartiere Giostra
della città che fu chiamata Zancle dai fondatori Messeni
emigrati dalla Grecia in Occidente, a fondare una nuova colonia
in terra di Sicilia, contigua alla Magna Grecia.
La cronistoria è presto ricostruita: il sisma durò
soltanto quindici secondi (iniziato alle 5,20 del 28 dicembre 1908,
ebbe unintensità 7,2 della Scala Richter, che fece
abbassare il fondo marino di 100 centimetri); 80 mila i morti a
Messina, città che contava una popolazione complessiva di
172 mila abitanti, (cadaveri vennero trovati persino nel Mare Egeo;
21 mila furono i profughi messinesi nella sola Catania); il Primo
ministro Giolitti ebbe notizia dellaccaduto alle 17,25 del
28 dicembre, grazie a un telegramma inviato dalla nave Serpente
da Marina di Nicotera; i primi soccorsi giunsero alle sei del mattino
del 29 dicembre, grazie allammiraglio russo Litvinov, che
comandava la nave corazzata Makaroff: altri aiuti poi
giunsero dagli Stati Uniti, dalla Prussia e dalla Svizzera; l8
gennaio 1909 ci fu il primo decreto del governo per tirar su le
baracche; il 6 luglio 1990 venne varata lultima legge per
la ricostruzione post-terremoto; la legge venne poi semplificata
nel 2002. Le baracche sono ancora lì.
Lì: cioè al di là di una passerella larga
intorno a tre metri, o poco più, frutto comè
stato scritto dellingegneria della povertà per
superare non lo Stretto tra Scilla e Cariddi, con un Ponte ormai
entrato nella letteratura delle mitiche opere potenziali, ma un
più modesto ponte su uno stretto di liquami, un rigagnolo
fognario a cielo aperto di scarichi di acque nere. Che divide due
blocchi di baracche: una campata unica di assi marce
tirata su da chi ha avuto la necessità di continuare a vivere
senza altro riparo, in case che case non sono e non potranno mai
essere, ma tane arredate alla meglio, con leternit a far da
tetto, con le pareti interne ammuffite, al modo delle altre baraccopoli,
per esempio quella di Camaro, o quella di Fondo Fucile, tutti monumenti
alla disperata solitudine di un Sud alla deriva.
Uno pensa: forse sono agglomerati di zingari (forse bisogna dire
rom), ma non è così, non si tratta di
microscopiche favelas tirate su dai protagonisti delle nuove emergenze,
cioè dellemigrazione e degli ingressi clandestini.
Si tratta di spettrali rifugi italiani, nei quali vive la terza
generazione baraccata, sono le pronipoti delle prime baracche offerte
e montate da svedesi e americani, da svizzeri e prussiani, allindomani
della terribile scossa tellurica, quando Messina diventò
una città di legno (compresi il teatro, il municipio, il
duomo), prima che il regime fascista realizzasse baracche in muratura
(le madri di quelle di Giostra) e il regime repubblicano, dopo i
bombardamenti della Seconda guerra mondiale, inventasse queste «casette
ultrapopolari ad uso provvisorio», con vista sugli scarichi
fognari, con affacci su strade-cunicoli, con circolazione di aria
mefitica (ecologisti di tutte le latitudini italiote, dove siete?).
Vi abitano messinesi che lavorano, quando cè lavoro;
che vanno a votare, magari dopo nuove, magnifiche e progressive
promesse elettorali; che pagano la tassa sulla spazzatura che immancabilmente
li circonda, beffa che persiste dopo linganno che resiste;
che pagano la corrente elettrica, sopraggiunta con ragnatele di
fili pericolosamente volanti, stremate dai corti circuiti; che pagano
lacqua che scorre a intermittenza dai rubinetti, ma non quella
piovana che penetra dentro le capanne e fa scricchiolare sinistramente
le ossa artritiche di chi le abita.

Qui è la frontiera di una catastrofe umana. Generazioni
di baracche e generazioni di messinesi che vi continuano a vivere:
in più di tremila, nellanno del Signore 2008, a centanni
dal terremoto, tra i quartieri che abbiamo citato, e tra gli altri
agglomerati, quelli dellAnnunziata o del Fondo De Pasquale,
del Fondo Basile e del Fondo Saccà, tutti insieme stratificazioni
geologiche della storia del Sud e della Penisola, della classe politica
italiana e siciliana, del colpevole squallore che consente soltanto
le infiltrazioni mafiose e, per dire, a prenderne coscienza è
come ricevere un pugno nello stomaco, mentre non è dato sapere
se prevalga il sentimento della compassione o quello di unimpotente
indignazione.
Perché qui sono le trincee degli uomini e delle donne invisibili,
a due passi dallUniversità e dal capolinea della metropolitana,
di fronte al nuovo museo che accoglie il Caravaggio e Antonello
da Messina: qui cominciarono a sorgere le favelas, con i 39 milioni
di lire stanziati da Giovanni Giolitti negli stessi giorni in cui
veniva ammazzato Joe Petrosino. Da allora, le suore di un convento
vicino continuano a donare pasti caldi, mentre lemergenza
sanitaria e lassistenza sociale non sono diritti cui avere
accesso, ma pura e semplice metafora kafkiana, che coinvolge uomini
e donne dimenticati da ogni lista di assegnazione, segnati persino
da unetà che non è la loro, per i visi che non
corrispondono allanagrafe, invecchiati con fulminea precocità,
rugati dallindigenza e dallabbandono in queste che chiamano
case per cani, con coperture damianto, con letti nei quali
si dorme ammucchiati, in promiscuità, con bagni esterni o
se interni nascosti dietro un paravento bisunto.
Ma sicuro, cè una legge, quella del 90, una legge
regionale che prevede il risanamento di Messina, lo sbaraccamento
e la riqualificazione urbana e sociale, che mette a disposizione
500 miliardi di lire dellepoca. Solo che ne sono stati usati
soltanto 150, gli altri chissà dove sono andati a finire.
Non se ne parla, perché ci si vergogna: non della sparizione
dei fondi, ma del mosaico di baracche, che va tenuto in disparte,
nascosto, anche se non dimenticato, perché, alla fine dei
conti, rende, eccome se rende!
Infatti: i piani particolareggiati sono stati approvati (ma solo
nel 2002), e nel 2004 la Regione ha stanziato altri 70 milioni di
euro; ma gli espropri e le nuove costruzioni sono fortemente frenati
dalle burocrazie. Così, alla fine, per disperazione le famiglie
fanno ormai le terremotate vita natural durante. Se qualcuna ottiene
una nuova casa popolare, consegna ai figli la baracca, dando vita
a uninterminabile catena di santAntonio della miseria:
ma è lunica eredità consentita a chi
nel 1961, ai giorni del boom italiano, i baraccati messinesi erano
ancora 30 mila ha vissuto dove è indegno vivere, perciò
solo quel tesoro è in grado di offrire.
E se qualcuno accenna al Ponte sullo Stretto, nessuno si mette a
ridere, limitandosi a indicare il loro ponte, quello che scavalca
pericolosamente il fiume di liquami che scorre senza soluzione di
continuità sotto un cielo sempre più blu;
o a mostrare lavviso del Comune, che reclama gli affitti arretrati
(migliaia di euro che nessuno possiede); o fa notare che i viali
che si aprono fra le baracche sono così stretti, che se uno
ingrassa («ma non si corre questo pericolo») neppure
riesce a passare, come non ci riesce a transitare una cassa da morto,
se non per percorsi estremamente complicati.
Eppure proprio qui, nel 1909, a poco più di un mese dal sisma,
Messina era un deserto di macerie, ma dava anche limpressione
di essere un fervido cantiere, al punto che Luigi Barbini, sul Corriere
della Sera, il 4 febbraio prospettò la speranza che «un
grande avvenire si preparerà per Messina». Una speranza
che durò il breve spazio di un mattino.
Quando tutti i soccorritori se ne tornarono a casa, le illusioni
tramontarono insieme con loro. E già il 9 maggio aveva il
sopravvento la cronaca con i resoconti tragici degli avvenimenti:
«Per lassegnazione delle baracche, contro soprusi e
favoritismi, la polizia sparò contro la folla lasciando sul
terreno 5 morti».
A ripercorrere la storia delle sparatorie istituzionali
contro le folle inermi del Sud, lungo tutta la storia dItalia,
con lunghe sequele di morti ammazzati, cè da rabbrividire.
Ma restiamo al tema, anche perché, in seguito, sul terreno
Messina ha lasciato soltanto le baracche, sopravvissute ai Savoia,
a Mussolini e ai suoi gerarchi, a due guerre mondiali e a 62 governi
della Repubblica: monumenti palpitanti a un secolo di storia del
provvisorio come definitivo fallimento del Sud e dellItalia.
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