Allora, dove sta
il Mezzogiorno che non ti aspetti? Ovunque: in quelle stesse regioni
dove purtroppo
restano irrisolte le più gravi anomalie del Paese.
|
|
La metafora è eloquente: il Sud è come unauto
da corsa nuova e scintillante, ma costretta a gareggiare con il
motore imballato su strade piene di ostacoli. Questa è la
condizione in cui operano molte piccole e medie imprese del Mezzogiorno:
società anche giovani, dinamiche e spesso proiettate verso
i mercati internazionali, ma penalizzate dal fatto di operare in
un contesto reso vischioso dallemergenza continua.
Nonostante anni di rincorsa, infatti, allo stato delle cose lindustria
del Sud ha ancora il fiato corto: se da un lato continua a soffrire
il gap di sviluppo e di capitali nei confronti delle grandi imprese
del Nord, dallaltro non riesce nemmeno a monetizzare
la sua condizione di svantaggio, come accade per altre analoghe
aree del resto dEuropa, per offrire costi competitivi e per
attrarre in questo modo maggiori investimenti.
Il risultato è pesante: se le cinque regioni meridionali
(Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia; il Molise e lAbruzzo
essendo ormai considerate regioni dellItalia centrale) fossero
uno Stato autonomo, sarebbero di gran lunga il più povero
dellarea euro, tallonato da vicino persino dalla Macedonia
e dal Montenegro. I problemi sono quelli che sono stati alla base
della vecchia questione: infrastrutture insufficienti
(al Mezzogiorno finisce soltanto il 31,3 per cento degli investimenti,
e i cantieri continuano ad essere i più lenti dEuropa),
amministrazioni locali farraginose, micro-imprese sottocapitalizzate,
illegalità diffusa e condizionante. Ma specularmente, come
spesso accade, le grandi emergenze spesso nascondono anche grandi
opportunità per gli imprenditori più disposti a rischiare:
e in questi anni ce ne sono stati molti. Sono i numeri a confermarlo:
le piccole imprese del Sud rappresentano solo l8 per cento
del totale italiano osservano alla Svimez ma negli
ultimi due anni sono cresciute di più rispetto alla media.

Svimez ha presentato a luglio il dossier Sud 2008:
per le regioni meridionali nel loro complesso vi si legge
il saldo dimpresa è attivo, produttività
e margini crescono, con fusioni e crediti allexport. È
vero, restano ancora molte incognite: il Pil, ad esempio, dipende
troppo da settori maturi come lagroalimentare, la siderurgia
o la piccola manifattura; gli investimenti esteri latitano e le
stesse condizioni ambientali sono quelle che sono.
Ma è emersa una vitalità che negli anni precedenti
non si vedeva. Paradossalmente, questo nuovo corso inaugurato da
tantissimi piccoli imprenditori è figlio dei disastri ereditati
dalla gestione dellemergenza-Sud. Si è cioè
convinti che il flop dellindustrializzazione di Stato non
abbia lasciato qui soltanto cattedrali nel deserto, di montanelliana
memoria, ma anche un buon indotto di aziende tecnologiche.
La crisi della manifattura tradizionale ha dato vita a distretti
e a reti dimpresa dinamici. E la sensazione di essere un corpo
estraneo rispetto al ricco Nord ha portato alla riscoperta e alla
valorizzazione del territorio, per esempio sul fronte turistico,
del patrimonio storico e artistico e su quello dei prodotti enogastronomici.
Nate da qui, da questa cultura del tutto nuova, piccole e a volte
piccolissime imprese, che spaziano dallhi-tech al tessile,
dallagricoltura ai servizi; spesso fondate da giovani i quali,
per inseguire un sogno di business, hanno abbandonato posti di lavoro
ben più sicuri e remunerati, senza stare troppo a riflettere
sui ritardi abissali della Salerno-Reggio Calabria, sulla burocrazia
asfissiante o sulla paura che prima o poi qualcuno bussi alla porta
per reclamare il pizzo. E sono proprio queste storie a dimostrare
che un altro Sud è davvero possibile.
Allora, dove sta il Mezzogiorno che non ti aspetti? Ovunque, si
potrebbe rispondere: in quelle stesse regioni dove purtroppo restano
irrisolte le più gravi anomalie del Paese. Una presenza letale
della malavita diffusa e dei cartelli del crimine, una povertà
terzomondista delle infrastrutture, una classe dirigente spesso
opaca e autoreferenziale.
Certo: il Mezzogiorno che funziona in economia, come persino in
politica, lo si deve andare a cercare. Perché non è
facile trovarlo sui giornali che grondano di notizie di cronaca
nera e di emergenze, dalla spazzatura che non è un problema
soltanto di Napoli alla disoccupazione giovanile, che non è
soltanto presente nelle cinque regioni considerate, ma anche del
Molise e dellAbruzzo, oltre che dellarea laziale un
giorno compresa nel territorio di competenza della Cassa per il
Mezzogiorno, e della Sardegna; giornali che in alcuni casi cedono
alla tentazione di non cercare (o di non parlare per ragioni non
proprio misteriose) e valorizzare quanto esiste di buono, persino
di eccellente, nel Sud a macchia di leopardo, (o a
macchia di Gattopardo, se proprio volessimo pensare allespressione
centrale, folgorante, del romanzo di Tomasi di Lampedusa, con il
suo ammonimento sul cambiamento, necessario perché nulla
debba cambiare).
Una pioggia di denaro, 100 miliardi di euro tra fondi europei e
nazionali, continuerà a bagnare fino al 2013 zone costiere
e zone interne del Sud. Cioè: i soldi ci sono. E non è
vero che nel passato, anche recente, ne sono stati spesi in abbondanza
tra sprechi, corruzione e clientele. Negli ultimi anni si è
consolidato un tessuto di piccole imprese, con buoni margini di
profitto e anche con nuove opportunità di lavoro per quelle
generazioni che vogliono uscire dal pozzo senza fondo dellassistenzialismo
e del cosiddetto impiego socialmente utile, che nella maggior parte
dei casi è del tutto inutile. Ovunque sono nate nuove e interessanti
aziende, proiettate sui mercati internazionali, nelle nuove tecnologie,
nella meccanica, nei servizi, nelle fonti di energia alternativa,
dalleolico al solare. Brilla un artigianato di qualità,
quindi meno esposto al vento di una pesante recessione mondiale:
sartoria, oreficeria, prodotti locali. Moda e design, imprese che
riescono a fare persino la necessaria massa critica in termini di
fatturato e di ammortamento dei costi, attraverso un associazionismo
commerciale che lascia ben sperare per il futuro.
Si tenga conto poi che gli impieghi delle banche alle piccole imprese
hanno segnato un incremento del 14 per cento nel Sud, contro il
12 per cento italiano; e che tra le venti province con tassi di
crescita più elevati, undici sono del Mezzogiorno. In parallelo,
scende il divario tra Centro-Nord e Sud in termini di qualità
del credito, e per le banche questo è un invito ad essere
sempre più propositive, con unofferta più specializzata.
Lo stesso turismo, la principale opportunità sprecata del
Sud per mancanza di un progetto generale di iniziative coordinate,
ha finalmente fatto significativi passi avanti: ormai in tutte le
regioni del Mezzogiorno si scoprono in attività strutture
ricettive, piccole e medie, che sono autentici gioielli dellindustria
del tempo libero.
Dunque: che cosa serve, urgentemente? Di sicuro, un uso accorto,
mirato e trasparente dei fondi pubblici per la rete infrastrutturale,
dove fatto 100 lindice di dotazione nazionale, nel Mezzogiorno
si raggiunge appena un valore di 51,8. Di sicuro, una presenza dello
Stato intransigente per contrastare la malavita organizzata, che
ogni anno fattura i suoi 75 miliardi di euro (il dato, approssimato
per difetto, è della Confesercenti). Di sicuro, una politica
degna di questo nome e della sua funzione al servizio della collettività
e non del familismo meridionale.
Ma serve anche e qui ci si rivolge agli imprenditori
uno scatto in avanti sul piano della responsabilità e della
consapevolezza dei diritti-doveri. Chiunque faccia con rigore e
con passione il mestiere di imprenditore nel Sud, rischiando faccia,
soldi, e qualche volta anche la pelle, merita una medaglia al valore
civile. Ma è fondamentale, a questo punto, capire per esempio
che qualsiasi zona grigia, a cavallo tra economia, pubblica amministrazione
e malavita, va asciugata con la massima fermezza. Come hanno fatto
in Sicilia con la Confindustria di Ivan Lo Bello, e come ha provato
a fare in Calabria lottimo Filippo Callipo. A volte ci sono
gesti, azioni, che valgono molto più di una semplice testimonianza:
possono mettere in moto processi virtuosi, e cambiare in questo
modo il destino di un luogo.
La responsabilità, per gli imprenditori che giocano la loro
partita non abbandonando il Sud alla sua deriva, significa anche
fare reti larghe e lunghe: in termini di sistema, di
mercati e di alleanze sul territorio. E significa assumere ruoli
da classe dirigente, cercando anche di non avvitarsi nel solipsismo
meridionale, nei giochi proibiti di interdizioni a catena, nelle
porte chiuse ai giovani più intraprendenti.
Perché ci sono battaglie che non si possono giocare in solitudine,
e che diventano perse in partenza quando si pensa di delegare ad
altri, magari per opportunismo, i ruoli centrali della vita pubblica.
La scommessa per un Sud meno a macchia di leopardo (e di Gattopardo)
e più contiguo alla normalità dei Paesi sviluppati
e civili appartiene a questa categoria di battaglie per lo sviluppo
e per la modernizzazione.

La rivoluzione culturale che va prendendo piede, faticosamente
ma inesorabilmente, nel Mezzogiorno ha un principio teorico fondamentale,
secondo il quale linnovazione si addice a tutte le latitudini,
senza alcuna eccezione. Noi abbiamo dibattuto per secoli sulle determinanti
dello sviluppo, a far data ufficiale dalla Ricchezza delle Nazioni
di Adam Smith, individuando tra esse il libero mercato, il basso
costo del lavoro, la distribuzione del reddito o la domanda aggregata.
Ogni spiegazione finiva con larenarsi sulla spiaggia della
realtà: il libero mercato è una figura teorica; il
basso costo del lavoro non dura, né stimola le imprese a
fare meglio; la distribuzione del reddito senza crescita scoraggia
lintrapresa e non appaga mai i beneficiari, e lo stimolo della
domanda aggregata porta inflazione, se lofferta non segue.
E lofferta non segue se le condizioni generali del sistema
non inducono le imprese a investire e a produrre di più.
Un pesce sano non vive certamente nellacqua inquinata.
Oggi lattenzione degli studiosi e degli operatori è
concentrata sulla produttività, considerata la variabile
centrale della competizione, e, di conseguenza, dello sviluppo.
Il veicolo naturale della produttività è linvestimento,
che consente di utilizzare macchine e metodi sempre più sofisticati
e ormai anche appositamente studiati per accrescere il prodotto
per occupato.
La scelta delle tecnologie che meglio consentono di competere sul
mercato globale è un diritto e un dovere dellimprenditore,
ma se il sistema politico (economico e sociale) che lo circonda
non è favorevole allintrapresa produttiva, le scelte
innovative non verranno mai attuate, la produttività resterà
bassa e la società scivolerà sempre più nel
degrado.
In queste condizioni, le invidie e gli odii di classe si accentuano,
si invoca e di ottiene sempre più redistribuzione del reddito,
e si alimentano crescenti illusioni che con le tasse e lassistenza
si possa ottenere ciò che invece si ottiene soltanto con
aumenti di produttività. In breve, il problema nasce economico
e finisce con il divenire sociale. Il mercato globale e lo sviluppo
dei Paesi emergenti erano stati percepiti dalle imprese italiane
come un pericolo al loro sviluppo: ora hanno capito che essi offrono
opportunità, se le si sanno cogliere.
Inizialmente, si riteneva che fosse necessaria la grande dimensione
per competere in campo internazionale; ora si scopre che la media
dimensione è quella che ha reagito meglio e che ha conquistato
nuovi spazi di mercato. Ma anche la piccola impresa comincia a capire
limportanza dellinnovazione e della presenza globale,
dopo aver lanciato i propri marchi di fabbrica (il Made in Italy,
una forma legittima di protezionismo legato alla qualità
dei prodotti) e avere sviluppato i distretti industriali (simulando
i vantaggi delle grandi dimensioni). Questo è il motivo per
cui lattenzione va rivolta quasi esclusivamente alle idee
innovative, che hanno consentito, o che consentiranno a queste imprese
una presenza internazionale. Sono tutte, ancora una volta, storia
di successo del nostro Paese.
Ma la soluzione che questi imprenditori hanno dato ai problemi economici
lascia uneredità sociale non facile da trattare: il
reddito interno ristagna e loccupazione non cresce, soprattutto
tra i giovani del Mezzogiorno; linflazione erode il potere
di acquisto salariale e i risparmi faticosamente accumulati; i conti
pubblici sono sempre in affanno e limposizione fiscale diventa
il solito, opprimente rimedio.
Le autorità fanno a gara nel denunciare questi rischi, ma
non si capisce chi, secondo loro, debba affrontarli. Quando un collaboratore
gli sollevava un problema, Guido Carli bloccava la presentazione
sul nascere: «Mi porti una soluzione», diceva, «perché
i problemi so sollevarli anchio».
|