Tutto lascia
intendere che
siamo di fronte
ad una recessione
economica che
sarà nello stesso
tempo tremenda,
spietata e lunga.
Molto lunga.
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Le autorità europee inizialmente non avevano
fatto abbastanza per fermare la crisi. Tuttavia,
le decisioni prese a Parigi nel mese di
ottobre hanno superato le mie attese, sia in
termini di dimensioni sia per il coordinamento.
Ora sono decisamente più ottimista. Ovviamente,
nessuno può sapere che cosa accadrà
domani, ma anche dai mercati finanziariè arrivata una risposta positiva, quindi tutto
ci lascia presupporre che la fiducia sia maggiore
oggi rispetto al recente passato. Il sistema
delle garanzie era necessario.
A che punto è la notte? La fase più acuta si
andrà sgonfiando nel corso dei prossimi mesi,
sempre che non accada nulla di nuovo. Le
ricadute sull’economia reale dureranno invece
a lungo. Quando mi si chiede se io sia
d’accordo sulla necessità di riformare le istituzioni
di Bretton Woods, rispondo che non
ritengo che il sistema valutario sia stato causa
o parte della Grande Crisi, al contrario di
quanto è avvenuto per il terremoto delle
Borse asiatiche nel 1997 e nel 1998; non ritengo
che si debba riformare il sistema delle
valute, altre cose senza dubbio sì. Oltre tutto,
non sono mai stato in grado di farmi
un’idea precisa sull’opportunità del G8, e
meno che mai, dunque, del suo allargamento
ai Paesi emergenti. Prima o poi sarà necessario
prendere in considerazione Paesi come la
Cina e l’India, perché stanno diventando
economie sempre più importanti.
Allora, il messaggio è questo: innanzitutto è
necessario far capire alla gente che le cose e
il mondo sono molto più complicati di come
a volte vengono presentati. Nessuno
avrebbe mai pensato che ciò che era accaduto
in Asia nel 1997 poteva succedere negli
Stati Uniti nel 2007-2008. La bolla immobiliare,
la crisi del credito e tutto ciò che
ne è seguito si sono verificati sotto gli occhi
increduli di molti americani.
Poi, è necessario ricordare alcuni semplici,
ma fondamentali benefici che derivano dall’apertura
internazionale degli scambi. Come
mai in Svezia si producono e si esportano
automobili Volvo, ma simultaneamente
si importano Volkswagen e Fiat? Rispondere
a questa domanda aiuta a comprendere e
afferrare la più profonda natura del commercio
internazionale tra Paesi quali l’Italia,
la Francia, la Svezia e gli Stati Uniti,
Paesi che appaiono tecnologicamente ed
economicamente del tutto simili. Sicché si
devono tenere in considerazione due fattori.
Il primo è rappresentato dalle preferenze dei
consumatori. Tutti traiamo benefici dal poter
scegliere un bene all’interno di un vasto
numero di beni differenziati. Pensiamo a un
semplice maglione. Siamo intrinsecamente
più soddisfatti nel poter scegliere e disporre
di infinite piccole varietà di maglioni, distinguendoli
in termini di qualità della lana, del
colore, della forma, del design. Lo stesso discorso
vale per le automobili. Nell’ex Unione
Sovietica veniva prodotto e venduto praticamente
un solo tipo di automobile. Un consumatore occidentale poteva e può invece scegliere
tra una vasta gamma di modelli, con
pochissima differenziazione tra l’una e l’altra,
ma con l’innegabile sensazione che una
maggiore possibilità di scelta fosse e sia associata
a un maggiore beneficio.
Il secondo elemento fondamentale sono le
economie di scala. Dal punto di vista della
produzione, la maggior parte delle imprese
beneficia di un mercato il più ampio possibile.
Maggiore è il mercato, maggiori sono
le possibilità di sfruttare al meglio i propri
impianti.
Sommando queste due semplici osservazioni,
risulta evidente come il commercio internazionale
tra Paesi simili aumenti il benessere di
tutti i consumatori. L’apertura al commercio
aumenta infatti la possibilità di scelta dei
consumatori e al tempo stesso aumenta l’efficiente
utilizzo delle tecnologie industriali.
Ovviamente, la realtà è più complessa. Innanzitutto,
perché nella realtà esistono i costi
di trasporto, un fenomeno che rende particolarmente
costoso e complicato il commercio
internazionale tra Paesi molto distanti. Poi,
la dispersione dell’attività economica e della
popolazione sul territorio sono il risultato di
una combinazione di forze di concentrazione
e forze di decentramento. Non dobbiamo
stupirci se emerge un mondo con grandi
squilibri regionali, dove la maggior parte della
popolazione vive in un centro di gravità ad
alta tecnologia, mentre una piccola minoranza
vive in zone periferiche e dipende dall’agricoltura.
Le dinamiche della Cina di oggi,
dove l’industrializzazione del Paese avviene
insieme alla formazione di immense megalopoli
vicine a Shanghai e Pechino, sembrano
una naturale applicazione di questa teoria.
Tornando a bomba sul tema centrale: tutto
lascia intendere che siamo di fronte ad una
recessione economica che sarà nello stesso
tempo tremenda, spietata e lunga.
Quanto tremenda? Il tasso di disoccupazione
ha già superato il 6 per cento (e gli indici
complessivi di sottoccupazione sono nell’ordine
delle due cifre). È ormai praticamente
sicuro che il tasso dell’inoccupazione
supererà il 7 per cento e forse addirittura l’8
per cento, facendo di questa la peggiore recessione
degli ultimi venticinque anni.
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Il “Big Board”
di New York, la Borsa Valori più grande del mondo per volumi di scambi. - Archivio BPP |
Quanto lunga? Potrebbe essere davvero
molto lunga. Occorre tener presente quel che è accaduto in occasione dell’ultima recessione,
che fece seguito allo scoppio della
bolla tecnologica alla fine degli anni Novanta.
A prima vista, la risposta politica a quella
recessione sembra quasi un gran successo.
Sebbene fosse alquanto diffusa la paura che
gli Usa avrebbero sperimentato un “decennio
perduto” in stile nipponico, non è accaduto
niente di simile: la Fed è stata in grado
di concertare una ripresa da quella recessione,
tagliando i tassi d’interesse.
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Pensatore ed educatore del periodo Meiji, Nitobe Inazo (1862-1933), sul fronte di una banconota giapponese da 5.000 yen. - Archivio BPP |
La verità è che per qualche tempo siamo
sembrati davvero giapponesi: la Federal
Reserve ha avuto le sue belle difficoltà a fare
da traino. Malgrado i ripetuti tagli dei
tassi d’interesse – che alla fine hanno fatto
scendere addirittura all’1 per cento il tasso
dei fondi federali – la disoccupazione non
ha fatto altro che salire. Sono stati necessari
più di due anni perché la situazione del
mondo del lavoro iniziasse a migliorare. E
quando finalmente è arrivata una ripresa
convincente, è stato soltanto perché Alan
Greenspan era riuscito a sostituire alla bolla
tecnologica la bolla immobiliare.
Adesso è toccato alla bolla immobiliare
scoppiare a sua volta, lasciando il panorama
finanziario disseminato di rovine. Ed è
davvero difficile presumere che questo
mercato possa ripartire in un immediato
futuro. Non è neanche chiaro se ci sia
un’altra bolla ancora in fase di formazione.
Quindi la Fed questa volta riscontrerà
più difficoltà che in passato a intervenire
con successo.
In sintesi: non c’è molto che Ben Bernanke
possa fare per l’economia. D’altra parte,
però, molto può fare il Governo federale.
Può assegnare benefit più consistenti ai disoccupati,
il che servirà sia ad aiutare le famiglie
in difficoltà ad affrontare i problemi,
sia a mettere denaro nelle mani di coloro
che hanno maggiori probabilità di spenderlo.
Può assegnare aiuti di emergenza ai governi
statali e locali, così che questi non siano
costretti a procedere a drastici tagli di
spesa che declassano i servizi pubblici e al
tempo stesso cancellano i posti di lavoro.
Può comperare i mutui in blocco (ma non
al valore nominale), e ripianificarne condizioni
e scadenze per aiutare le famiglie a tenersi
le proprie case.
I tempi sono anche maturi per impegnarsi
in spese per realizzare qualche seria infrastruttura
di cui il Paese ha terribilmente bisogno
in ogni caso. Ciò che occorre in questo
momento è una più apprezzabile spesa
governativa. La cosa responsabile da fare,
per il momento, è dare all’economia tutto
l’aiuto di cui ha bisogno. Questo non è proprio il momento di preoccuparsi del deficit.
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