Nelle società
fondate sul
business, come gli
Stati Uniti, l'ovvia
conseguenza della
libertà assoluta
dei capitali è che
la democrazia si è
ridotta, con effetti
che vanno ben
oltre l'economia.
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La fine della campagna per le elezioni presidenziali
statunitensi e il crollo dei mercati
finanziari si sono sovrapposti, offrendo una
rara occasione per riflettere sul sistema politico
e su quello economico. Non tutti si saranno
appassionati alla campagna elettorale,
ma quasi tutti sono stati in ansia per il
pignoramento di un milione di case e si sono
preoccupati dei posti di lavoro, dei risparmi
e della sanità. Le cause immediate
della crisi possono essere fatte risalire allo
scoppio della bolla immobiliare favorita
dall’allora presidente della Federal Reserve,
Alan Greenspan, che stimolò l’economia
sostenendo i consumi con il debito e con i
prestiti dall’estero. Ma le radici sono più
profonde. Sono nate dal trionfo della liberalizzazione
finanziaria degli ultimi
trent’anni, in cui si è cercato di svincolare il
più possibile i mercati da regole pubbliche.
Gli stessi settori che hanno ottenuto profitti
smisurati grazie alla liberalizzazione hanno
poi invocato un intervento dello Stato per
salvare le istituzioni finanziarie. Interventi
del genere sono tipici del capitalismo di Stato,
anche se questi sono di un’entità insolita.
Quindici anni or sono uno studio degli
economisti Winfried Ruigrok e Rob van
Tulder mostrava che almeno venti delle più
importanti aziende del mondo non sarebbero
sopravvissute senza l’aiuto dei Governi,
e che molte delle altre avevano guadagnato
imponendo allo Stato di “socializzare le
perdite”.
In una democrazia ben funzionante, una
campagna elettorale affronterebbe questi
temi, esplorando le radici e le soluzioni, e
offrendo a chi subisce le conseguenze della
crisi gli strumenti per riacquistare il controllo
della situazione.
Il compito delle istituzioni finanziarie è correre
dei rischi e, se sono gestiti bene, fare in
modo che le loro eventuali perdite siano
sempre coperte. L’accento va messo su “le
loro”. Secondo le regole del capitalismo di
Stato, invece, il mondo finanziario non deve
preoccuparsi dei costi esterni nel caso in
cui le sue scelte portino a una crisi finanziaria
(cosa che avviene regolarmente).
La liberalizzazione finanziaria ha effetti che
vanno ben oltre l’economia. È noto da tempo
che rappresenta un’arma molto potente
contro la democrazia. Il libero movimento
dei capitali crea quello che qualcuno ha
chiamato un Parlamento virtuale di investitori
e prestatori, che analizzano i programmi
del Governo e votano contro se li considerano
irrazionali, cioè se fanno gli interessi
degli elettori invece che quelli di una forte
concentrazione di potere privato. Chi investe
e chi presta può votare attraverso la fuga
di capitali, gli attacchi alle valute e altri
strumenti finanziari.
È una delle ragioni per cui il sistema di
Bretton Woods, istituito da Stati Uniti e
Gran Bretagna dopo la Seconda guerramondiale, prevedeva dei controlli sui capitali e regolamentava le valute. John Maynard
Keynes riteneva che il risultato più importante
di Bretton Woods fosse l’acquisizione,
da parte dei Governi, del diritto di limitare
i movimenti di capitale. Invece nella
fase neoliberista che si è aperta negli anni
Settanta, in seguito all’abolizione di quel sistema,
il Tesoro americano considera il libero
movimento dei capitali come un diritto
fondamentale.
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Il “Charging Bull”,il famoso toro
di Bowling Green,a Wall Street, divenuto simbolo della Borsa americana (almeno quando le azioni sono al rialzo...). |
L’ovvia conseguenza di questa idea di libertà
assoluta dei capitali è che la democrazia
si è ridotta. Si è reso dunque necessario
controllare ed emarginare in qualche modo
l’opinione pubblica, un processo particolarmente
evidente nelle società fondate sul business,
come gli Stati Uniti.
Il fatto che le elezioni siano state gestite come
una kermesse da parte delle società di
pubbliche relazioni ne è un esempio lampante.«La politica è l’ombra gettata sulla
società dal grande capitale», scriveva John
Dewey, il più grande filosofo sociale americano
del Novecento, e tale resterà finché il
potere sarà in mano al «business privato,
attraverso il controllo privato delle grandi
banche, della terra e dell’industria, rafforzato
dalla diretta influenza su giornali, agenzie
di stampa e altri strumenti di pubblicità
e propaganda».
Gli Stati Uniti, in effetti, sono un sistema a
partito unico, il partito del business, con
due fazioni, repubblicani e democratici. Tra
le due fazioni ci sono delle differenze reali.
Nel suo studio Unequal Democracy: The Political Economy of the New Gilded Age, il
politologo Larry M. Bartels spiega che negli
ultimi sessant’anni «il reddito reale delle famiglie
del ceto medio è cresciuto a velocità
doppia durante le amministrazioni democratiche
rispetto a quelle repubblicane,
mentre il reddito reale da lavoro delle famiglie
povere è cresciuto a velocità sei volte
superiore».
Le differenze si sono viste anche in queste
ultime elezioni. Gli elettori non avrebbero
dovuto tenerne conto, ma senza farsi illusioni
sui partiti, e riconoscendo che sempre,
nel corso dei secoli, la legislazione progressista
e lo Stato sociale sono stati il frutto di
lotte popolari e non sono piovute dall’alto.
Queste lotte seguono un ciclo di successi e
di sconfitte.
Devono essere portate avanti ogni giorno e
non soltanto ogni quattro anni, sempre con
l’obiettivo di dar vita a una società davvero
aperta e democratica, dal seggio elettorale
al posto di lavoro.
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