Ellis Island.
Chi non entrava
veniva rispedito
in Italia, con
un vestito nuovo
e con un mucchio
di banconote verdi
fruscianti in tasca,
a girovagare per
i paesi del Sud
a raccontare
quanto era “facile
far fortuna nella
Merica’. |
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Rimase aperta per ben sei mesi, a partire
dal 6 maggio 1931. E ne valeva la pena. Otto
milioni di visitatori varcarono la soglia
dell’Esposizione coloniale di Parigi, al Bois
de Vincennes, affascinati da quanto vi era
esposto. Infatti, si potevano ammirare la riproduzione
a grandezza naturale del tempio
cambogiano di Angkor Vat e degli altri edifici
tirati su a tempo di record per celebrare
i fasti dell’Impero francese; e soprattutto
per assistere alle performance delle danzatrici
di Bali, oppure a quelle – minacciose –
degli indigeni kanaki, trasferiti lì per l’occasione
dalla remota Nuova Caledonia. Oppure
si andavano ad osservare a distanza
ravvicinata elefanti e cammelli, la cui vista
faceva impazzire i bambini. Poi, calato il
sole, avevano inizio i giochi di luce: colorati,
suggestivi, avvolgenti.
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Archivio BPP |
La capitale francese ha deciso di ricordare
quello straordinario ed eccentrico evento, a
metà strada fra l’esposizione pedagogica (e
molto propagandistica) e la sagra popolare.
E lo fa nell’unico edificio rimasto in piedi
dell’Esposizione (il resto, perfino la copia
del tempio di Angkor Vat, in cima al quale
vennero liberate inconsapevoli famiglie di
scimmie, tanto per far colore, venne raso al
suolo subito dopo la chiusura). È un palazzo
alla Porte Dorée, alla periferia sudorientale
della città, nel Dodicesimo Arrondissement,
esattamente là dove inizia il Bois
de Vincennes. Dal settembre 2007 ospita la
Cité Nationale de l’Histoire de l’Immigration.
E da solo giustifica la trasferta, per i
bassorilievi esterni di Alfred Auguste Janniot.
Proprio la Cité ha organizzato una
mostra: 1931 - Gli stranieri ai tempi dell’Esposizione coloniale. Che non è soltanto il
ricordo di quell’evento. Lo pone nel contesto
della Francia dell’epoca, una delle maggiori
destinazioni al mondo degli emigranti.
Mette in relazione colonialismo trionfante e
immigrazione dolente, con impliciti riferimenti
alla nostra epoca, dunque alla contemporaneità,
senza quelle derive buoniste
che si potevano prevedere.
All’inizio della mostra, alcuni “reperti” dell’Esposizione,
dimenticati negli scantinati
del museo del Quai Branly. Affreschi, sculture,
foto (anche della riproduzione delgran tempio cambogiano). E poi le magnifiche statuette di un corteo vietnamita, o il
vestito di una giovanissima ballerina del
Laos. Il tutto, dominato da una carta del
mondo, opera di Henri Milleret, colorata e
scintillante come il resto, con su scritto: «È
con 76.900 uomini che la Francia assicura
la pace e i benefìci della civiltà a 60 milioni
di indigeni».
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Guida per gli emigranti italiani diretti in
Brasile. Rio de Janeiro, 1886. - Archivio BPP |
L’obiettivo dell’Esposizione era promuovere
l’Impero e invogliare i francesi ad andare
a stabilirsi in quelle terre in una fase in cui
si cominciava a mettere in discussione il colonialismo
e iniziavano a svilupparsi i movimenti
di indipendenza.
Va chiarito subito che neppure il Fronte
Popolare, al potere dal 1936, sarà anticolonialista.
In quegli anni le forze apertamente
contrarie al progetto erano ancora minoritarie
(il Partito comunista, i surrealisti e gli
studenti d’oltremare in trasferta a
Parigi,
come Léopold Sédar Senghor e Aimé Césaire,
che cominciavano ad esprimere intolleranza
nei confronti della madrepatria. In
quel 1931, però, si criticavano ormai le degenerazioni.
Pochi anni prima André Gide,
nel 1925, aveva viaggiato in Congo. Rientrando,
non aveva rimesso in discussione il
colonialismo in quanto tale, ma aveva puntato
il dito contro gli eccessi. La stessa
Esposizione intendeva mettere in luce il lato
umanista dell’Impero, il sostegno al progresso;
giocando anche sugli aspetti spettacolari,
come recitavano le brochure pubblicitarie
della manifestazione, alla quale presero
parte anche altri Paesi, perfino l’Italia,
con il consueto padiglione in perfetto stile
neoclassico.
Dalla prima sezione della mostra, al “dietro
le quinte” dell’Expo. Proprio così, i retroscena,
non sempre edificanti. I ricercatori
della Cité hanno ritrovato innanzitutto gli
archivi del Commissariato di Avenue du
Bel-Air, a pochi passi dalla Porte Dorée, relativi
proprio 1931. Vengono fuori denunce
di simpatizzanti comunisti presi in flagranza,
mentre sostituivano le bandiere francesi
dell’Esposizione con altre rigorosamente
rosse; il fermo di nazionalisti indocinesi che
avevano lanciato volantini contro «gli sporchi
colonizzatori», sparsi a pioggia sul falso
tempio di Angkor Vat. E poi i problemi durante
i cantieri per edificare in fretta e furia
i vari padiglioni. Gran parte dei muratori
erano stranieri, e moltissimi erano gli italiani.
Come un certo signor Battistoni, il quale,
chiamato con disprezzo “macaronì” dai
colleghi francesi, aveva reagito prendendo a
pugni i suoi intemperanti interlocutori.
In quel 1931 la Francia raggiunse la quota massima, nella sua storia, di stranieri sul totale della popolazione: il 6,9 per cento. Erano
esattamente due milioni e 890 mila; gli
italiani, i più numerosi (800 mila), davanti a
polacchi e spagnoli. E continuavano ad arrivare
in massa sul suolo francese, nonostante
la situazione economica fosse già evidentemente
compromessa, come riflesso del
crack del 1929. Al tempo stesso, però, lievitava
la xenofobia. La crisi economica si aggraverà
negli anni successivi, ma già nel ‘31
chiudevano fabbriche e si licenziavano operai.
In questo contesto, gli stranieri vennero
presi di mira: rubavano il lavoro ai francesi.
Nel 1932 verrà addirittura approvata una
legge che imporrà una quota massima di assunzioni
di stranieri nelle imprese. Ma già
nell’anno precedente le tensioni erano visibilmente
forti. Nella mostra parigina sono
stati resi disponibili documenti molto interessanti,
come quello interno di un’amministrazione
pubblica del Midi che istiga a «un’epurazione rigorosa dei lavoratori stranieri»; mentre nella lettera di un dirigente
dell’impresa Raty agli ispettori del lavoro si
ricorda che «abbiamo licenziato in priorità
gli stranieri, dovendo trascurare spesso il
valore professionale degli interessati». Il padrone
fa capire che si è dovuto separare da
dipendenti in molti casi più validi e più preparati,
oltre che più disponibili, dei suoi
stessi compatrioti.
Infine, nello stesso 1931 ben 93 mila stranieri,
(con priorità riservata agli italiani,
cioè proprio a quelli che più degli altri cercavano
l’integrazione), dovettero lasciare il
Paese: in moltissimi casi si trattò di vere e
proprie espulsioni, oppure di famiglie che
ricevettero un contributo “al ritorno”, proprio
al modo della Francia del 2007, vale a
dire quella odierna di Sarkozy.
Tutto questo, raccontato mediante storie
personali, cimeli, fotografie: la Francia ostica
degli stranieri, che in molti casi vivevano
nelle stradine adiacenti la Porte Dorée, lì
dove i curiosi si ammassavano per poter vedere
per la prima volta nella loro vita elefanti
e cammelli in carne e ossa. “Il giro del
mondo in un giorno”. Un’esperienza indimenticabile.
(Roma, tre quarti di secolo dopo. Parlano
alcuni giovanissimi, immigrati in Italia con
i loro genitori. Dai passaporti, risultano albanesi,
marocchini, tunisini, macedoni,
ucraini, polacchi, romeni, algerini, latino-americani...
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Manifesto pubblicitario di una società
di navigazione genovese sulla rotta Italia-America, attiva a fine Ottocento. - Archivio BPP |
Parla una giovanissima macedone, che però
è un’eccezione, nel senso che, facendo parte
della generazione nata e cresciuta in Italia,
coniuga le tradizioni della propria identità
con gli stimoli della società in cui vive, con la scuola nella quale sperimenta la convivenza,
vero e proprio laboratorio della società
che sarà. Dice: «Voglio bene ai miei
compagni, così come agli amici che ho lasciato
in Macedonia. Mi piace stare qui, ora
mi sento un po’ macedone e un po’ italiana.
In Macedonia ho ancora tanti amici, una
casa e i parenti che mi aspettano per le vacanze.
In Italia ho la scuola, tanti altri amici
e tante speranze per quello che farò da
grande. Ormai ho deciso che rimarrò a vivere
in questo Paese».
Riflessioni scritte di una tredicenne: «All’inizio
non mi trovavo bene, perché era tutto
diverso da come vivevo prima, anche la lingua,
non capivo niente, e poi non avevo né
amici né amiche. A scuola tutti mi guardavano
in un modo strano... Ora è cambiato,
sono abituata a fare come gli altri, anche se
con qualche difficoltà. Ho cominciato ad
abituarmi agli italiani. Dell’Italia mi piace la
scuola, mi piace dove abito, mi piace andare
in giro con altre ragazze. Ma preferisco il
mio Paese, che è il Marocco; non so perché,
ma credo che ancora non so vivere altrove,
senza la mia famiglia e senza Marocco».
Riecheggia un ragazzo: «Sono arrivato in
Italia quando avevo solo otto anni. Dopo
due, tre mesi mi ero già ambientato perfettamente,
come fossi nel mio Paese. Anzi,
non proprio come nel mio Paese: perché il
tuo Paese non si può sostituire, perché è come
casa tua e lì ti senti più sicuro che in
qualsiasi altro posto del mondo».
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Una famiglia di emigranti italiani schierata davanti al proprio “Salon de coiffeur”, a Saint Etienne, Francia, nella prima decade del Novecento. - Archivio BPP |
Testimonianze di discriminazione e di disagio:«Un’esperienza negativa è stata conoscere
gente che ti giudica prima di conoscerti,
perché sa che sei straniero. Questo è uno
dei problemi più gravi».
E: «Sono venuta
qui quando avevo cinque anni. Ora è come
il mio secondo Paese.
Ma con alcuni difetti.
La cosa che mi infastidisce degli italiani è il
loro egoismo, in qualche modo ti fanno sentire
inferiore. Ma io non vedo differenza tra italiani e stranieri. Mi dispiace che la pensino
così».
Le voci di quelli che non si integrano:«Quando avevo appena due anni mio padre è dovuto venire in Italia per cercare lavoro.
Decise di partire senza pensare; come i pescatori,
senza sapere che cosa c’è al di là del
mare. Non lo vedevo tanto, ma stavo molto
bene a Casablanca, finché un bel giorno ci
disse: “Sono stanco di star da solo, quindi
ho deciso di portarvi con me in Italia”. Da
quel giorno non ero più come prima, sempre
con la voglia di ridere e scherzare. Nonè facile lasciare il proprio Paese per trasferirsi
in un altro, dove non conosci nessuno.
Non eravamo preparati a quella partenza.
Ora siamo in Italia e non abbiamo nessuna
scelta. Qui ho trovato un altro mondo, assolutamente
diverso da quello in cui vivevo.
Sicuramente nei primi giorni ho trovato difficoltà
con la lingua ma, una volta imparata,
ho trovato e trovo ancora problemi nell’amicizia.
Tutti sono traditori e vigliacchi:
alcune persone hanno atteggiamenti insopportabili.
Per me tornare nel mio Paese sarebbe
meglio perché lì non ho mai avuto
problemi nell’amicizia».
E una ragazza, figlia di immigrati da Cracovia: «Ho deciso di raccontare come mi trovo
in Italia. Non ho nessuna difficoltà ad
abitare qui, però sicuramente mi piacerebbe
stare nel mio Paese. Degli italiani non mi
piace il loro sentirsi superiori a noi: essendo
nel loro Paese, in ogni cosa che sbagliamo
ci considerano diversi e fanno vedere il loro
egoismo. Io non sono contenta, perché volevo
nascere in Polonia e non in Italia.
Quando mi dicono che ormai sono italiana,
mi infastidisco. Vivere in Italia è l’unica
possibilità e non ho altra scelta. Non mi
piace stare in compagnia di italiani, mi piace
stare con altri stranieri, con i quali abbiamo
le stesse idee. Oltre tutto, la mia vita sta
passando qua e continuerà qua, ma certamente
non con una compagnia italiana. Mi
sono trovata bene a dirvi queste cose. Grazie,
giornale Apulia».
Se è vero che primi fra tutti, o insieme con
tutti i primi, siamo stati popolo di emigranti;
e se è vero che – diventati Paese di immigrazione – nella nostra società si verificherà
una rivoluzione demografica – che ci sembra
già in atto – e il futuro sarà sempre più
multietnico, allora converrà riflettere su
quanto ci raccontano questi ragazzi, eradicati
come i nostri vecchi, quelli che in parte
cercavano l’integrazione, in parte maggiore
non riuscivano a rinunciare alla propria
forte identità. Oltre alle frontiere, forse vale
la pena di tutelare questi giovanissimi esuli
volontari della fame. Perché, ricordava Le
Corbusier, non si rivoluziona facendo rivoluzioni,
ma presentando soluzioni).
La vicenda che ha segnato, forse più di ogni
altra, la nostra storia, è quella degli emigranti:
in centotrent’anni sono stati circa
ventisette milioni, e altrettanti sono stati i
loro discendenti nei vari Paesi del mondo.
A conti fatti, messi insieme formano una
popolazione quasi pari a quella residente
attualmente in Italia.
Si navigava a lungo sulle carrette della “Navigazione
Generale Italiana”, prima di
giungere sui luoghi del dolore. Dagli oblò,
in terza classe, ammucchiati come bestie, si
vedeva scorrere il mare tutte le ore del giorno
e della notte, prima di attraccare – ad
esempio – a Ellis Island, alla famigerata Inspection line dove cominciava la via crucis delle visite mediche e degli interrogatori: –
Qual è il tuo nome? Sei mai stato ricoverato
in ospedale per infermità mentali? Sei mai
stato in carcere? Appartieni a qualche gruppo
anarchico? Possiedi almeno cinquanta
dollari? Hai un lavoro che ti aspetta? –. Seguivano
ventinove test, e guai a sbagliarne
troppi, perché significava essere rispediti nel
luogo d’origine.
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Copertina di un opuscolo del Lloyd Sabaudo per i piroscafi della propria compagnia, 1931. - Archivio BPP |
Mentre non c’erano problemi del genere,
ma soltanto la richiesta di una sana e robusta
costituzione fisica, nell’isola di Gorée, di
fronte a Dakar, nell’Africa occidentale: trecento
metri per neanche un chilometro, dove
un numero imprecisato, ma valutato in
milioni e milioni di negri vennero ammucchiati
per tre secoli, e destinati a un viaggio
transatlantico nel Nuovo Mondo che li trasformava
in schiavi. L’isola di Gorée chiuse
la Maison des Esclaves nel 1848, e oggi è
patrimonio dell’Unesco: vi giungono Capi
di Stato e Grandi della Terra, tutti a giurare
che mai più si ripeterà quella storia tragica
e quasi rimossa, e torme di turisti che stentano
a valicare il confine dell’indifferenza.
Ellis Island chiuse nel 1954, dopo che anche
a ondate montanti, nel 1860, nel 1890, nel
1925, nel 1950, era stata raggiunta da piemontesi,
veneti, friulani, che andavano a
procurarsi il pane; ma anche dalle suore di
Santa Maria Ausiliatrice, e dai “napoletani”,
contadini e manovali generici indistintamente
provenienti da tutte le regioni del Sud
d’Italia, i tanos (come chiamavano, per abbreviazione,
quelli che sbarcavano in Argentina).
E poi quelli che il pane delle sette croste
andavano a guadagnarselo fra la silicosi
e i crolli stragisti delle miniere del Limburgo.
Ed è storia di appena ieri, tant’è che l’ultimo
struggente canto del repertorio migrante –
“Non piangere oi bella, se devo partire...
Partono gli emigranti, partono per l’Europa,
guardati a vista dalla polizia... i deportati
dalla borghesia” – di Alfredo Bandelli, è del
1974! È stato scritto: «Pensate com’è stato
impercettibile il trapasso geografico del disprezzo “padano” dall’Italia meridionale all’Africa
propriamente detta. Si gridava “Forza Etna!”. Oggi sentiamo riecheggiare
gli stereotipi più demenziali contro gli immigrati
dall’Est europeo e dal Sud del mondo».
E intanto un giudice di Hannover, rimasto
seduto nella storia, concede al condannato
per violenza carnale le «attenuanti etniche e
culturali», in quanto sardo!
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Una cartolina edita dalla Navigazione Generale Italiana, con scena di vita a bordo degli emigranti. Fine Ottocento. - Archivio BPP |
(Dalla lettera di un valtellinese di 24 anni
quasi alfabeta, datata 25 marzo 1912: «Carissimo padrino, qui a Newyorc questo gennaio
a fatto un freddo terribile, che sembrava
fosse la fine del mondo, era molto difficile
potersi scaldare, in specie la notte. Io e la
cugina Maria, in origine a questo freddo,
abbiamo pensato di passare al Matrimonio,
che così esendo in due nel letto si potrà riscaldarci
più bene».
Dallo scritto di un pugliese ventitreenne, datato
25 maggio 1907: «Cara mia mamma, ho
fatto un magro viaggio, mi anno trattenuto
27 giorni di mare, sempre patire la fame,
quando siamo disbarcati dopo tre giorni di
ferovia siamo rivati in losangelo...».
Tra il 1892 e il 1956 tre milioni di italiani –
quasi tutti partiti da Genova e da Napoli –
sbarcarono nell’isola a due miglia da New
York. Tra tutte le malattie che gli italiani si
portavano dietro, insieme con i loro stracci e
con il sacco delle provviste, la Merica era terrorizzata
dal tracoma, l’infezione agli occhi
che degenerava in cecità: per questa ragione
gli emigranti dapprima venivano sottoposti
alla prova della scala (chi indugiava a salire
era già sospetto), poi, grazie a speciali ganci
che sollevavano le palpebre, iniziava la visita
oculistica. Se gli ispettori non erano del tutto
convinti, era sufficiente una “X” sul braccio
per passare alla visita psico-attitudinale: poteva
durare tre ore o tre giorni (in questo caso,
in cella). E dalla cella temporanea poteva
rispondere alle ventinove domande con le
quali si saggiava se un emigrante avrebbe
potuto essere accolto negli Stati Uniti: Ellis
Island era il collo di bottiglia dell’emigrazione
italiana, da lì si partiva per tutte le destinazioni,
da lì aveva inizio la fortuna o la disgrazia:
a lungo andare, uno poteva farcela;
un altro poteva diventare banchiere milionario,
sulla pelle dei suoi stessi connazionali;
un altro ancora invece poteva essere rispedito
in Italia, con un vestito nuovo e con un
mucchio di banconote verdi fruscianti nelle tasche, a girovagare per i paesi del Meridione raccontando «quanto è facile far fortuna
nella Merica». Non era proprio vero, ma così
sbarcavano il lunario (una percentuale per
ogni persona convinta ad emigrare) i piazzisti
degli “scafisti” della fine dell’Ottocento.
Come in un’interminabile catena di Sant’Antonio,
l’importante era che qualcuno ci credesse:
per convinzione, per avventura, o per
disperazione).
Ushuaia è ancora oggi la fin del mundo. In
questa città glaciale c’era il famigerato penitenziario
che accoglieva (si fa per dire!) i
condannati per reati anche veniali, ma
commessi praticamente da immigrati, soprattutto
da immigrati italiani. C’era una
ferrovia a scartamento ridotto, il piccolo
treno portava i detenuti nelle foreste dell’estrema
punta meridionale, dovevano buttar
giù gli alberi e procurar legname per le città
del nord.
Di fronte, il mare più grigio e malmostoso
del mondo: a doppiare il Capo Horn ci provarono
in molti, e prima che ci si riuscisse,
fu cimitero di navi. Oltre ancora, il sesto
continente. Inutile fuggire dal penitenziario,
dunque.
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Una cartolina dal Paquebot “La Champagne”,
ottobre 1907, sulla linea Le Havre-New York. |
Non c’era via di scampo. Mai i termini “fine
del mondo” furono più realistici. Al di là di
Ushuaia c’era soltanto un destino certo di
morte. E, per colmo d’ironia, un’insolita
tappa intermedia, segnata da un’osteria italiana,
messa su all’inizio del secolo scorso da
una famiglia di immigrati veneti e ancora
oggi in attività. Non un’illusione ottica,
dunque. Ma una concreta oasi fumante nel
frastagliato deserto bianco delle ultime propaggini
del continente latino-americano.
Emigranti italiani anche qui, in luoghi remoti
dal clima temperato del Belpaese, dai mari
multicolori, dalle piogge sciroccose, dalle primavere
scandite dai voli dei trampolieri... E
sono stati loro, in gran maggioranza, una
volta chiusa questa orribile prigione, a dipingere
di colori freschi i muri e le casematte, le
celle e gli uffici, e a sistemare i marciapiedi e
la stessa linea ferroviaria, che ha ripreso a
funzionare con un trenino – ora dal tran-tran
quasi allegro – che porta verso le antiche foreste
gruppi di chiassosi turisti. Sono cambiati
il colore del cielo e quello della terra.È mutata anche la direzione dei viaggi della
speranza: ai nostri giorni si viene verso l’Italia,
non più su bare galleggianti, come
quelle che solcavano l’oceano all’epoca, con
affondamenti mai resi noti, ma in aereo, e
in poche ore, alla ricerca delle radici, e non
solo di queste. Ma anche per ricordarci che
non può esserci, neanche in tempi di globalizzazione,
una replica di quell’infamia, cioè
di quella storia che – orda dopo orda –
portò oltre i confini dell’Italia muscoli e
materia grigia in quantità incommensurabili.
Anche se conoscenza e ricordo e odissee e
ritorni possono metterci al riparo dall’indifferenza,
ma non dalla ripetizione del male,
a parti scambiate.
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