Dai
dati raccolti dalla Svimez nel Profilo territoriale, demografico ed
economico della Puglia, stralciamo i dati riguardanti la provincia di
Lecce, completandoli con rilevazioni statistiche provenienti da fonti
diverse.
Solo con quella
di Brindisi la provincia di Lecce non ha territori classificati "montani".
Terza per estensione (dopo Foggia e Bari), e seconda per popolazione
residente (dopo Bari), la nostra provincia include i centri dimensionali
minori più diffusi della regione, soprattutto con un numero
di abitanti compreso fra mille e cinquemila, e, poi, fra cinquemila
e ventimila. Sono piccole e medie "città contadine",
con risorse provenienti in massima parte dall'esterno e redditi locali
fondati sull'agricoltura, sull'artigianato, sulle attività
terziarie, sulle assicurazioni sociali, sulle rimesse dall'estero.
La graduatoria delle abitazioni e stanze occupate, secondo le rilevazioni
del censimento 1971, vede ancora la penisola salentina al secondo
posto, dopo la provincia barese. Se grave è la situazione del
patrimonio edilizio civile, estremamente carente è quella del
settore scolastico, mentre in netto miglioramento è la disponibilità
di posti-letto ospedalieri per mille abitanti (la media regionale
pugliese è pari a 9,2 posti-letto, contro una media meridionale
del 7,4).
Un'idea dell'insufficienza delle disponibilità idriche che
persistono tuttora può aversi quando si consideri che soltanto
in ventuno comuni della Puglia (comunque, nel Salento, solo a Lecce),
l'erogazione di acqua per usi civili avviene ventiquattro ore al giorno.
Negli altri è limitata variamente, mentre in settantatre centri
abitati è ridotta a tre ore su ventiquattro. La maggior parte
di questi paesi sitibondi è dislocata nel Salento e nella Capitanata.
Gli ultimi dati disponibili sul reddito pro-capite prodotto vedono
il Salento all'ultimo posto nella graduatoria delle aree pugliesi.
L'ordine scalare registra al primo posto la provincia di Taranto,
seguita nell'ordine da quelle di Foggia, Bari e Brindisi.
Una conseguenza diretta dello scarso reddito prodotto e dalla indisponibilità
di risorse provenienti dall'esterno è l'emigrazione. Tra il
1961 e il 1971 si sono registrate 84.451 partenze (2.545 dal capoluogo,
e 81.906 dai rimanenti comuni salentini). Pertanto, la popolazione
nello stesso arco di tempo considerato ha avuto un saldo attivo (differenza
tra crescita naturale e correnti migratorie) pari a 12.522 unità.
Il sistema economico salentino ha avuto per base fondamentale, storicamente,
l'agricoltura. Ancora oggi, dopo venticinque anni di politica meridionalistica
e di interventi pubblici, sarebbe azzardato affermare che si sia sviluppato
in questa estrema provincia meridionale un tessuto industriale a largo
raggio. Rapportati al territorio e alla popolazione residente, gli
stessi interventi della Fiat fanno poca storia. Le partecipazioni
Statali sono assenti. Le trasformazioni più evidenti hanno
interessato al massimo il passaggio da una crisi di molti settori
artigianali allo sviluppo di settori micro-industriali, con prevalenza
- in campo della trasformazione e conservazione dei prodotti agricoli
- di impianti cooperativi (vino in particolare; poi olio). Le medie
industrie, riferibili a complessi con più di 50 operai, sono
pressoché episodiche. Ciò ha determinato uno stato di
permanente tensione sul mercato del lavoro, per l'eccesso di braccia
e di cervelli, contro una più che scarsa disponibilità
di settori d'impiego. Così l'emigrazione, male comune a tutte
le aree meridionali, ha conosciuto nella provincia salentina slavine
demografiche che hanno determinato un notevole "invecchiamento"
della popolazione locale.
I dati riportati nella tabella dell'occupazione sono ovviamente parziali.
Le rilevazioni statistiche italiane, infatti, meno per comodità,
più per opportunismo politico, non considerano nella giusta
luce i sottoccupati, gli studenti (compresi quelli universitari fuori
corso) e i giovani in servizio di leva. E d'altra parte non è
stato possibile reperire dati precisi sull'occupazione femminile,
che rappresenta uno dei punti dolenti di tutte le forze di lavoro
meridionali.
Se l'impegno pubblico è venuto meno ai propri compiti istituzionali,
le vecchie fonti di reddito agricolo hanno conosciuto un tracollo
non meno preoccupante. I giovani, spinti dal miraggio della tuta blu,
del salario, della fabbrica del "triangolo industriale"
del Nord, o delle megalopoli industriali d'oltralpe, hanno abbandonato
la campagna, scavalcando anche le buone intenzioni (sulla carta) di
una pessima riforma agraria. Le strutture agricole, già antiquate,
non sorrette da una politica creativa, oggi sono diventate pressoché
irrecuperabili. Chi soffiò demagogicamente sull'abbattimento
del latifondo (invece di agire in una direzione originale e moderna,
rendendolo un concreto strumento di produzione e una valida fonte
di reddito), oggi non ha la possibilità - o volontà,
o capacità - operativa di procedere alla ricomposizione fondiaria,
per l'impianto di unità aziendali di livello ottimale (come
in Olanda, in Belgio, nella Francia nord-occidentale, nell'intera
Repubblica Federale Tedesca, tanto per restare nell'ambito della Comunità
Europea), in grado di uscire dal circolo vizioso dell'autoconsumo
famigliare.
La stessa cooperazione agricola, là dove è stata realizzata,
in particolare con la nascita di cantine sociali, è stata frutto
di spinte interne, autonome, per uno spirito pionieristico nei confronti
del quale le strutture burocratiche nazionali hanno opposto spesso
accanite resistenze, e a volte dannosi tentativi di concorrenza. Di
conseguenza, oggi, qui come nel resto della penisola, il deficit della
bilancia alimentare registra cifre da vertigine, e per sanarlo non
si creano coraggiose strutture produttive, ma si commette l'errore
politico e psicologico di richiedere sacrifici da paria a un popolo
che ha conosciuto l'uso della bistecca solo un secolo dopo l'Unità.
Una speranza potevano essere i "progetti speciali", o progetti
integrati, a livello interregionale, per la creazione di vasti allevamenti
zootecnici. Che sono stati accantonati di fatto, anche se formalmente
sono ancora in vita, poiché non esiste, allo stato attuale,
una reale copertura finanziaria. Gli impegni assunti bloccano l'attività
della Cassa a tutto il 1975. Dopo, la sì dovrà rifinanziare,
visto che non si riesce ad escogitare metodi diversi d'intervento.
Nel frattempo, anche ad un esame superficiale della situazione politico-economica
italiana, appare evidente questo: che le cifre del Salento, e quelle
della massima parte delle regioni meridionali, sono destinate a restare
per molto tempo sulla linea di displuvio che divide da una parte il
mondo industriale o industrializzato, e dall'altra il Terzo Mondo.
Con la prospettiva che una crisi europea ci rispedisca a casa alcuni
milioni di emigrati, con le conseguenze drammatiche che è fin
troppo facile immaginare.