Puglia




Mario Praz



" Venezia, chi non ti vede non ti apprezza ", dicevano nel Cinquecento, e anche: " la Lombardia è il giardino d'Italia "; nell'Ottocento gli stranieri predilessero la Toscana, ma l'apprezzamento della bellezza della Puglia è venuto tardi, e merito d'averla scoperta fu soprattutto degli stranieri, l'archeologo François Lenormant, che nel 1866 venne per la prima volta a studiare il tesoro artistico della Magna Grecia, e, verso la fine del secolo, Paul Bourget, in quelle sue " Sensations d'Italie " dove l'entusiasmo dello scopritore fa passar sopra a parecchie pagine che oggi han sapore vecchiotto. Il Gregorovius, che scrisse il suo viaggio tra il 1874 e il 1875, non cercava tanto la Puglia quanto le tracce degli Hohenstaufen, e al fascino epico della loro storia s'arrese anche il Bourget, con lacrimose effusioni sul destino degli ultimi Svevi. Ma il primo a capire la magia della regione fu ancora un altro Paolo, un giornalista tedesco, Paul Schubring, che sulla " Frankfurter Zeitung " pubblicò una serie di articoli (tradotti poi e pubblicati a Trani) in cui offrì la chiave del segreto con queste memorabili frasi: " Si crede generalmente che la Puglia sia un deserto monotono, un paese privo d'attrattive speciali e proprie della terra italiana. Ma chi crede a questo cartello, non mangia vitello ". " L'immenso piano della campagna, leggermente ondulato, il mare così maestoso, il cielo così infinito e sereno costituiscono una trinità grandiosa e singolare ".
Prima dello Schubring avevano interessato alcuni stranieri certi sorprendenti avvenimenti storici, dopo di lui un altro straniero, Emile Bertaux scrisse, nel 1904, una poderosa opera sull'incomparabile fioritura artistica della regione (" L'Art dans l'Italie Méridionale ") e certo la parola " sorprendente " usata da Cesare Brandi a questo proposito nel suo straordinariamente penetrante " Pellegrino di Puglia ", non è usata a caso. Invero, che c'è di più sorprendente dell'associazione della Puglia con le Crociate, dell'insediamento in Puglia d'un imperatore germanico che sognava la restaurazione dell'Impero Romano, della creazione d'uno stile decorativo sui generis che si designa come barocco pugliese? E sorprendente ancora che sui campi di Puglia, a Canne, parve per un momento decidersi la sorte della potenza romana. Dopo tutto la cosa meno sorprendente e più ovvia, tenuto conto delle vicende dei gusti, è che con lo Schubring si riscoprisse in Puglia quel fascino della pianura che era esistito nel Cinquecento, e che la rivoluzione romantica aveva messo in disparte con la sua esaltazione della montagna e del pittoresco. La Puglia per l'uomo di poca fantasia è una piatta e monotona pianura, e a lui pare, ignaro dell'etimologia, che la parola Tavoliere rispecchi esattamente la cosa (e deriva invece dalle " tabulae censuariae ", ossia il libro dove erano registrati i terreni posseduti dal fisco in quei territori che i re aragonesi destinarono prevalentemente al pascolo).
Scrive Cesare Brandi: " La Puglia è un meraviglioso, austero paese arcaico. L'unico dove si assiste ancora allo spettacolo incontaminato, e per interminabili distese, di una flora anteriore alla calata degli indoeuropei: solo ulivi e viti, viti e ulivi, le piante che nel nome, tenacemente conservato e trasmesso, rivelano ancora di essere state trovate sul posto dagli invasori ariani ... In realtà il severo paesaggio della Puglia è in queste distese di mastodontici ulivi, in questi tappeti a non finire di viti basse, che si tengon ritte da sé. E non c'è minor fascino, per chi lo sa sentire, in tale elementarietà di paesaggio, che nei " menhir ", nei " dolmen ", nei trulli. Se si pensa che i trulli più antichi non rimontano oltre il Seicento, sembrerà non so se più fatidico o fatale che la Puglia seguiti a esprimersi nei termini d'una civiltà neolitica, fino a ritrovare spontaneamente tecniche preistoriche come quella della copertura " a tolos " per i trulli".
All'aspetto solare della civiltà greca se ne oppone un altro, che data dal tempo del lungo dominio bizantino. Non che gli Elleni cercassero soltanto la luce del sole (c'è il lato ctonio della loro religione), e i monaci basiliani soltanto le tenebre delle grotte; ma certo le " laure " (" lavra " resterà in russo nome di monastero) di Gravina o Massafra posson fornire argomenti a coloro che, come Carducci, vedevano come intessuta di sole tenebre la religione medievale.
Ma quel che impressiona a Gravina di Puglia più delle male accessibili grotte e non richiede altra fatica che quella di alzare gli occhi come si alzerebbero per un fuoco d'artifizio, è la facciata di Santa Maria delle Grazie: e che altro se non un magnifico fuoco d'artifizio è quell'aquila enorme che spiega i vanni nella parte più alta della facciata, sorgendo da un castello a tre torri come da macchina pirotecnica? Ha gli occhi di smalto, ma potrebbero anche sprizzare raggi. Qui siam lontani dalla civiltà rupestre, siamo anzi in periodo barocco e l'aquila e le torri formano lo stemma del vescovo Vincenzo Giustiniani da Chio: una facciata parlante, dunque, a gloria d'un vescovo. Si può pensare a quell'anfora di porfido trasformata in un corpo d'aquila coll'aggiunta delle dorate ali e della superba testa nel prezioso emblema per l'abate Sugerio di Saint Denis, che combina un vaso egizio con una decorazione occidentale. Ma un'altra aquila, di ben più possente volo, dominò nel Medioevo le sorti della Puglia, l'aquila imperiale di Federico II: l'imperatore saldò l'Oriente con l'Occidente come l'artefice della preziosa suppellettile dell'abate Sugerio. Mentre i monaci basiliani praticavano le loro puntigliose ascesi nelle grotte di Puglia, si risvegliavano nel fervore dei traffici le città marittime, si consolidavano le istituzioni comunali, e una rivolta, capeggiata da Melo da Bari (1009-12) contro i catapani bizantini provocò in suo aiuto l'intervento dei Normanni, che in pochi decenni s'impadronirono di tutta l'Italia Meridionale. Gli ambiziosi disegni dei sovrani normanni (Roberto il Guiscardo aveva assunto il titolo di duca di Puglia e di Calabria nel 1059 ed ebbe l'investitura papale), e quel generale movimento dei popoli europei sulle vie del Levante che furono le Crociate, riportarono la Puglia a una prosperità quale aveva conosciuto ai tempi della Magna Grecia; e sorsero a partire dal secolo undecimo le grandi cattedrali, quella di Troia con la grandiosa porta di bronzo di Oderisio da Benevento, la basilica di San Nicola di Bari, circondata da quattro cortili un tempo limitati da muri e torri, la cattedrale di Trani, la cattedrale di Bitonto, la più matura espressione del romanico pugliese, la cattedrale di Siponto, il Duomo Vecchio di Molfetta che specchia nel mare le sue cupole simili a tende tartariche; a cui seguirono, anche essa sulla riva del mare, la cattedrale di Giovinazzo, purtroppo manomessa, a quella di Altamura. Ci sono due luoghi in Puglia che soprattutto attestano la presenza di quell'uomo di genio, precursore dei tempi, che fu Federico II: Lucera e Castel del Monte. Una visione di Castel del Monte in primavera è forse l'emblema più appropriato della personalità di Federico. E' un castello-gioiello, incastonato com'è, perfetta corona sfaccettata simmetricamente, come una gemma, o come un sonetto di pietra, tanto le sue linee sono state condotte a rigor di musica. Non si sa come fossero quelle mura di Tebe che Anfione, come vuole il mito, eresse al suon della sua cetra che attrasse e disciplinò le pietre dei monti; ma non poterono vincere in bellezza le mura di questo castello eretto da un barbaro. Forse " quelle donne" " che aiutarono Anfione a chiuder Tebe ", le divine muse, non fan distinzione tra barbari e greci, dopotutto. Tale l'armonia di cui seppe circondarsi quel gotico e saraceno Federico, che avrebbe voluto creare un impero italiano, e che in ogni modo fece scaturire dalla roccia la prima fonte della poesia italiana.
La penisola salentina è la sede della seconda grande civiltà artistica della Puglia. Sull'esuberanza e la festosità del cosiddetto barocco leccese son tutti d'accordo, dai primi che ne fecero apprezzamento (e naturalmente furono stranieri), Gregorovius - per strano che sembri -, Bourget, che sarebbe stato convertito all'ammirazione pel barocco e il rococò proprio dalla " fantasie légère ", dall'" élégance folle " e dalla " grâce heureuse " di Lecce, una città che per così dire non sarebbe che da cima a fondo una " sculpture " e " une mignardise ": codesto " marivaudage de pierre " che "pose comme une guipure, comme une broderie, sur toute le petite ville ", e infine Sacheverrel Sitwell. Quell'aspetto festoso, addirittura orgiastico della architettura leccese artigianale ha una certa affinità con la pasticceria pittoresca e coi fuochi d'artificio. Anche certi elementi decorativi, come le colonne angolari delle case, i balconi mensolati, sorretti da figure come polene di navi, hanno un'uniformità di decorazioni da fiera, da carosello. L'unico tentativo di barocco strutturale è la facciata di San Matteo, d'un presunto architetto Carducci, di cui si sa poco o nulla; questa facciata, che è il monumento più celebre di Lecce dopo il Duomo e Santa Croce, è più vicina alla maniera del Guarini che a quella del Borromini. Anche altre decorazioni salentine, pur mirando al sontuoso, hanno un carattere decisamente villereccio, come al piano nobile del Palazzo Ducale di Martina Franca, decorato nell'ultimo quarto del Settecento da Domenico Carella con spolveri da composizione di Rubens e da altri, che talora non vanno oltre alla tecnica approssimativa dei sughi d'erba o addirittura alla rozza copia d'un artista da marciapiede da riproduzioni di capolavori di cartolina, ma nell'insieme creano un'atmosfera di " fête galante " provinicale. Provinciale Martina Franca è però solo fino a un certo punto. L'approccio alla piccola città (ché paese non può chiamarsi davvero) è graduale come un crescendo rossiniano. Fra il verde dei vigneti appaiono i primi trulli. Prima singoli e sparsi, poi a coppie, a agglomerati, capezzoli bianchi di mucche capovolte e interrate, piccole Sante Giustine da Padova, piccoli San Marchi di Venezia imitati da un bimbo con sabbie candide come quelle di Santos, o addirittura moschee, tende di sciti o di tartari, qualcosa di orientale, di favoloso e fiabesco, una Disneyland che mai fantasia ne sognò l'eguale, terra di gnomi o degli " hobbits " del " Signore degli anelli " di Tolkien: che sarà la piccola città che si delinea su quell'altopiano all'orizzonte? Vi entriamo per una porta sormontata dalla statua equestre d'un San Martino folletto, ma prima di esplorarne il vecchio centro giova recarsi a contemplare il panorama della valle d'Itria da un'alta terrazza alberata. Visione assai più maliosa di quella di Alberobello, ormai manomesso da moderne costruzioni di cemento. La città appare come cinta d'assedio da un esercito di bianchi padiglioni che, al contrario delle nere tende di Tamerlano, annunziano pace anziché strage. L'origine di questo pacifico assedio è quanto mai pratica e prosaica, derivando dal sistema d'enfiteusi che permise ai contadini di aver ciascuno il suo proprio appezzamento di vigna in affitto venticinquennale, che in seguito si consolidò in proprietà: è tutto qui il segreto di questo grande prato fiorito di bucaneve di calce viva che si stende a perdita d'occhio. Questo è il lato plebe di Martina Franca, ma il lato patriziato è tutt'un'altra cosa. Dal Viale Bellini si penetra in via Pergolesi (come appropriati i nomi di musicisti a questa città musicale!), ed ecco si snoda il meandro miracoloso: prima una facciata barocca che nell'angustia della strada torreggia, San Domenico, e poi un palazzo dopo un altro, palazzi dalle porte e dalle finestre incorniciate di " cartouches " rococò, curve e controcurve, " rocailles " e svolazzi, piccole facciate, piccoli cortili, piccole viuzze come in una città di bambole, abbandonate dalle favolose abitatrici per far luogo alle prosaiche famiglie d'oggi; poi, d'un tratto, lo ampio respiro d'una piazza, e là in fondo il sogno, come avviene nei veri sogni, trapassa in un altro sogno, quasi per la magia di un " micromegas " voltairiano. Quella chiesa rococò, il cui colore diventa roggio nella luce del tramonto, è un frammento di Baviera o di Austria che s'inserisce d'un tratto come se Mozart si sovrapponesse a Vivaldi? Il centro della fronte, una cascata di merletti di pietra, dal color terracotta del basso a quello di rabarbaro, d'un rosa venato di verde in alto per riprendere la felice immagine di Cesare Brandi, che le paragona a una retata di pesci guizzanti, nella luce del tramonto si pensa alla ricca assisa delle triglie. " Un piccolo miracolo appartato e tranquillo, il riflesso tutto di fantasia d'una cultura per sentito dire, come fosse polline, venuto da lontano, portato dal vento e lì caduto ". Con queste parole di Cesare Brandi, certamente il più perspicace dei pellegrini di Puglia, si può concludere questa visita all'ultima venuta delle meraviglie d'Italia.

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