Iri e Mezzogiorno




di Giuseppe Petrilli



Dalla Relazione alla Commissione Bilancio e Programmazione - Partecipazioni Statali della Camera.

Il superamento del passaggio critico che il Paese attraversa richiede la valorizzazione della capacità di azione imprenditoriale, nel quadro degli indirizzi generali stabiliti dal Governo; l'alternativa a tale via d'uscita della crisi essendo non già una modifica (nel breve periodo del tutto ipotetica) del modello di sviluppo, quanto piuttosto, e più concretamente, il definitivo scivolamento del nostro sistema economico verso forme burocratico-assistenziali e autarchiche, in contrasto con le direttrici di fondo che hanno guidato il nostro sistema dalla sua rinascita democratica in poi. Più specificamente, dal dibattito in corso è emerso che tale valorizzazione del momento imprenditoriale è strettamente funzionale ad una strategia di lotta all'inflazione che si proponga di non sacrificare i ceti' e le aree economicamente più deboli.
Basti riferirsi a questo riguardo ai temi del Mezzogiorno e delle cosiddette "riforme", che sono al centro del confronto delle forze politiche e sociali. Non si potrà mai sottolineare abbastanza che le regioni meridionali sono oggi tra le principali vittime dell'attuale processo inflazionistico: nel senso che esso. da una parte, colpisce i ceti e i gruppi non occupati o marginali, e perciò scarsamente protetti dal meccanismo della scala mobile e, dall'altra, incide negativamente su due dei fondamentali meccanismi di investimento e di' spesa nel Sud, limitando la convenienza alla creazione di nuove unità produttive da parte delle imprese ed erodendo progressivamente il valore reale degli stanziamenti previsti nel bilancio dello Stato e degli altri enti pubblici di spesa.
Si accentua di conseguenza l'importanza dello strumento di manovra rappresentato dai gruppi a partecipazione statale; vorrei sottolineare, a questo riguardo, che nel corso degli anni 1971 - 1973 il gruppo Iri ha investito nel Mezzogiorno oltre 2.700 miliardi (importo quasi triplo - a prezzi costanti - di quello relativo al precedente triennio 1968 - 1970), cosicché l' incremento dell'occupazione diretta nel Sud è passato nei due trienni da 17.000 a 35.000 persone. Nell'attuale programma sono configurati investimenti nel Sud per più di 4.000 miliardi, a prezzi 1974, con la creazione di circa quarantamila nuovi posti di lavoro; la quota relativa ai settori manifatturieri è di poco meno di due terzi di investimenti e di oltre tre quarti in termini di occupazione.
In tal modo viene ad essere superata in tutti i settori, (essenzialmente manifatturieri), dove esiste un effettivo margine di libertà nella localizzazione degli impianti, la riserva fissata dalla legge quadro a favore del Mezzogiorno negli investimenti complessivi e in nuove iniziative. In altri settori, come i telefoni e le autostrade (che assorbono oltre la metà degli investimenti in programma), la percentuale destinata al Mezzogiorno si collega ad un intervento attuato su scala nazionale in base a specifiche direttive formulate dall'autorità politica (Governo o Parlamento) anche per quanto riguarda la localizzazione degli investimenti. In ogni caso va ricordato un altro dato, che mi pare più rilevante, e cioè il fatto che nel corso di questi ultimi due - tre anni il gruppo Iri - da solo - ha contribuito alla quasi totalità dell'incremento dell'occupazione verificatosi nel Sud nel settore manifatturiero. Ciò può essere considerato un titolo di merito, ma in realtà è un elemento di preoccupazione.
Siamo cioè in presenza di un processo di disgregazione di strutture produttive tradizionali, non compensato, in termini di occupazione - almeno al di fuori del sistema delle partecipazioni statali - dalla creazione di nuove unità produttive o dall'esterno o per iniziativa di operatori locali.
Ora è evidente che il Gruppo (nel quadro del sistema complessivo delle partecipazioni statali) non può protrarre a lungo nel tempo questo ruolo globale di supplenza. Essere infatti il solo, o il principale, punto di riferimento delle attese delle popolazioni meridionali moltiplicherebbe l'occasione per interventi di tipo assistenziale e strutturalmente deficitari; ciò, oltretutto, per il fatto che le iniziative dell'Iri verrebbero a collocarsi in un contesto carente di economie esterne, che possono provenire solo dalla crescita equilibrata di un sistema industriale differenziato, di cui è componente vitale l'impresa privata.
In sintesi, mi sembra di dover dire che, nel quadro della politica meridionalista dei prossimi anni, non può essere posto l'accento soltanto su uno strumento imprenditoriale che, pur importante come l'Iri rappresenta comunque non più del 5-6 per cento dell'occupazione manifatturiera nazionale, quanto piuttosto sul continuo aggiornamento delle strategie complessive che guidano l'azione governativa e sulla coerente adozione delle misure con le quali può essere attuato l'obiettivo dello sviluppo meridionale.
Per un altro dei nodi dell'attuale congiuntura politico-economica, quello degli investimenti sociali, appare sempre più evidente l'importanza del contributo imprenditoriale, per il superamento del crescente divario tra esigenze e obiettivi, da una parte, e capacità di intervento degli strumenti pubblici tradizionali, dall'altra.
Alcuni provvedimenti sono stati definiti in sede governativa e, almeno in parte, tradotti in disegni di legge approvati o all'esame del Parlamento: l'elemento di maggiore novità è costituito dall'utilizzo dell'istituto della concessione, non solo per la costruzione e talora la successiva gestione di determinate opere, ma anche per la progettazione e la realizzazione di complessi organici di opere di grande rilevanza.
In tale prospettiva si inserisce il recente "piano di emergenza" formulato dagli organi della programmazione, in linea con le tesi emerse dal dibattito tuttora in corso sui problemi delle infrastrutture e degli investimenti sociali. Tali tesi concernono il collegamento tra la possibilità di soddisfare la domanda di beni collettivi e la innovazione degli strumenti dell'offerta, considerati i limiti, finanziari ed operativi, che oggi ostacolano l'intervento diretto della Pubblica Amministrazione; la riserva delle funzioni di indirizzo e di controllo alle autorità regionali e l'affidamento invece dei progetti in concessione a imprese qualificate; la mobilitazione delle capacità disponibili in tutte le fasi della realizzazione delle opere, senza precostituire posizioni di monopolio o di privilegio a vantaggio di alcuno.
In questa prospettiva l'Iri ha predisposto, attraverso l'Italstat, lo strumento per una vasta gamma di possibili interventi nel territorio. Attendiamo la concreta definizione degli indirizzi strategici precedentemente esposti, in un contesto in cui il fattore tempo appare decisivo anche nel quadro dell'attuale crisi congiunturale. Tale considerazione di urgenza si applica, in particolare, al rilancio della politica della casa cui oggi il Governo ha assegnato assoluta priorità proponendo il reperimento di nuove risorse e l'opportuna mobilitazione di quelle esistenti. Appare essenziale, a questo punto, individuare nuovi strumenti volti a collegare tali risorse con il necessario deciso sviluppo dell'edilizia sovvenzionata, e tali da garantire il tempestivo coordinamento delle varie fasi dei programmi edilizi (espropri, urbanizzazioni, appalti).
Non può certamente sfuggire a questo punto lo stretto legame che esiste tra la nuova dimensione che il processo di sviluppo deve assumere e la necessità di preservarne, anzi di ristabilirne, alcuni meccanismi di fondo. Così il risanamento della nostra economia dipende dalla capacità o meno di mantenere entro margini ristretti, e finanziabili sul mercato internazionale, il deficit complessivo della nostra bilancia dei pagamenti. Questo obiettivo è legato alla ripresa sostenuta delle esportazioni, non essendo le importazioni comprimibili e manovrabili oltre certi limiti, se si vogliono evitare conseguenze negative nello stesso processo di sviluppo. Ma non è pensabile che il rilancio delle esportazioni possa avvenire, nel quadro delle modifiche in atto e nelle correnti di scambio, senza un loro riorientamento che faccia posto alle produzioni esportabili pur con gli attuali alti costi del lavoro e dell'energia; il che significa offrire in misura crescente prodotti tecnologicamente avanzati o, meglio ancora quelle forniture complesse di beni e servizi complementari che i paesi di nuova industrializzazione oggi richiedono.


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