§ NEL LABIRINTO DELL' INFLAZIONE

La tecnica di Saturno




Aldo Bello



Cause e responsabilità della recessione che ha portato il nostro Paese sull'orlo dell'abisso - La situazione internazionale - Il ruolo dei sindacati -I redditi regionali.

Il 1974 passerà alla storia come l'anno della grande inflazione. Come il 1929, e anche più dicono gli economisti. E il 1975, a quanto pare, non andrà meglio. Dappertutto, i prezzi continuano a salire e non c'è governo che riesca a porvi un freno efficace. Il fenomeno è di portata mondiale. Non si salvano nemmeno gli Stati Uniti. Gli unici paesi che scoppiano di salute (mai hanno posseduto tante ricchezze) sono quelli petroliferi. Ma di questo parleremo tra poco. Ora guardiamo dentro casa nostra e nelle immediate vicinanze. Si dice che siamo sull'orlo del baratro. Per quali motivi interni ed esterni? Si potrà fermare questo processo di degradazione economica, (non solo recessione, si badi bene), e a costo di quali sacrifici? E chi ci potrà aiutare?
Non è agevole rispondere a queste domande. Per capire a fondo la crisi attuale è necessario rifarsi alle sue cause storiche e tecniche. Alcune sono di natura internazionale, altre riguardano direttamente il nostro paese e il nostro modo di fare politica e politica economica.
Tra le prime, la più importante va identificata nell'aumento vertiginoso delle materie prime, soprattutto del petrolio, elemento-base della industria contemporanea. I rincari hanno toccato vertici mai raggiunti, che vanno dal 50 al 200 per cento. Oltre ai prezzi del petrolio, si sono impennati quelli del riso, del grano, del mais, della soia, della lana e del cotone. Per esempio, se si fa il rapporto tra i prezzi minimi del '73 e i prezzi massimi odierni del riso, l'aumento risulta identico a quello subìto dal petrolio. La conseguenza immediata per noi è che in un solo anno i prezzi all'ingrosso sono cresciuti del 40 per cento in media. Tecnicamente, l'inflazione èla variazione in termini di prezzi del rapporto fra quello che la collettività consuma e quello che produce. In termini matematici, l'idea si realizza mettendo al numeratore la domanda globale e al denominatore la quantità dei beni e dei servizi prodotti. L'inflazione appare quando la domanda di beni aumenta più del reddito prodotto, cioé quando la circolazione monetaria si gonfia in misura superiore alla produzione.
Gli aumenti delle materie prime all'origine hanno una spiegazione che non è sempre e soltanto economica. Anzi, nella misura abnorme che oggi li caratterizza, essa è soprattutto di natura politica. Secondo dati della Fondazione Ford, ad esempio, il costo di estrazione del greggio si aggira in media sui 20 cents per barile. Il costo effettivo che viene imposto è invece di 10 dollari.
In equivalente potere calorico, il carbone costa soltanto 5 dollari, e dunque sembrerebbe conveniente (particolarmente per gli Usa, che possiedono riserve di carbone per vari secoli) tornare allo sfruttamento di questo minerale. Ma i paesi produttori di petrolio (in specie gli arabi) con una serie di graduali o fulminee nazionalizzazioni hanno ormai attuato il monopolio dei giacimenti petroliferi attivi, e manovrano con astuzia islamica l'arma a loro disposizione: appena si profila l'intenzione di tornare al carbone, fanno capire di essere disposti ad abbassare il prezzo, e col miraggio della buona volontà scoraggiano la riapertura delle miniere, che del resto risulterebbe assai costosa, almeno nella fase iniziale.
Discorso in parte diverso va fatto perle altre materie prime. Il terzo mondo, che ne è lo sterminato serbatoio, vendeva nel passato a prezzi di autentico sfruttamento, praticamente imposti dai paesi industrializzati. Ora parecchie cose sono cambiate: il rame del Cile e del Congo costa di più, i raccoglitori di caffè e di cotone, come i pastori che curano i grandi allevamenti, richiedono e ottengono salari più alti, che si riflettono sui prezzi di vendita dei prodotti. Va poi ricordato che la popolazione mondiale cresce ogni anno di circa 50 milioni di unità. I soli cinesi sono 800 milioni, e sono già costretti ad importare riso, che pure producono in grandi quantità; e gli indiani sono mezzo miliardo. Infine, va ricordata una circostanza non trascurabile, che ha avuto un gran peso nella formazione dei prezzi: nel '72 e nel ''73 i giapponesi - in pieno boom economico - non sapendo come riciclare i propri guadagni, fecero incetta di materie prime, accumulando enormi scorte che, sul piano internazionale, fecero diminuire l'offerta e lievitare la domanda, costringendo poi i compratori a sborsare di più.
Nel complesso quadro di questa situazione internazionale, proprio nel momento in cui il nostro paese stava tentando una politica di stabilizzazione interna, scoppiava la crisi del petrolio, che avrebbe costretto l'Europa al freddo e al buio. Si salvava solo la Repubblica Federale Tedesca, che poteva buttare in mare la manodopera straniera superflua, (turchi, jugosglavi e tunisini, dapprima; poi, gli spagnoli; ora è la volta degli italiani), riuscendo a mantenere alto il livello delle proprie esportazioni. Ma gli altri partners della Comunità Economica Europea accusavano, come noi, gravi difficoltà. Il peggioramento più sensibile in Italia trova una spiegazione in alcuni errori commessi dai nostri governanti, incoraggiati in questo, come diremo più avanti, dalla superficialità e della demagogia di molti parlamentari.
Nel febbraio ''73 la lira usci' dal cosiddetto "serpente", cioè dal sistema di cambi rigidi adottato dai membri della Cee, cominciando a "fluttuare". In pratica, si trattava di una svalutazione: nel ''73, infatti, la lira perdette circa il 14 per cento rispetto alle altre monete; un altro buon 5 per cento lo ha perso nella prima metà del ''74. Occorre poi tener conto del livello mondiale di svalutazione, che ha ulteriormente indebolito, fino alla fine dello scorso anno, la nostra moneta. Perché si era decisa la svalutazione ufficiosa? Perché, svalutando la lira, gli stranieri avrebbero acquistato da noi un maggior volume di merci, dati i prezzi più convenienti; le industrie avrebbero girato a pieno regime per l'esportazione, mentre certi prodotti superflui, diventati più cari per gli italiani, avrebbero frenato l'importazione.
Sulla carta, il piano - di marca socialista - non faceva una ruga. Se non che, a questo punto i sindacati, intravista la prospettiva favorevole, avanzarono richieste pesanti e sicuramente eccessive. E i sindacati furono appoggiati dai socialisti al potere. Il governo non seppe, o non volle, dire di no. Contraddizione gravissima, che ricordava da vicino il mito di Saturno: costui divorava i figli che generava, temendo di esserne spodestato. L'antinomia creazione-distruzione èstata fatale: mise in moto il meccanismo inesorabile dell'inflazione. Per primo cedette il settore pubblico, dove si era registrato il precedente delle favolose liquidazioni concesse ai "superburocrati" per ragioni elettorali. Per sostenere le richieste sindacali si dovette ricorrere al credito, il quale servì anche da leva sul settore privato, che cedette a sua volta. Le imprese in difficoltà venivano sovvenzionate o addirittura assorbite dal settore pubblico. Intanto, per alimentare il credito, la Banca d'Italia era costretta ad aumentare l'emissione di moneta.
Abbiamo detto: richieste eccessive dei sindacati. Infatti, è impossibile ottenere determinati servizi sociali, (le notissime "riforme"), e contemporaneamente gli aumenti salariali. L'economia ha leggi ferree. Queste leggi indicano che occorre scegliere tra le due cose, che sono obbligatoriamente alternative.
Cos'è accaduto? Poiché gli italiani si sono trovati - scelta la via degli aumenti salariali - con la busta paga maggiorata si è verificato esattamente l'opposto di quanto avevano previsto i politici. Il boom della produzione industriale, (già limitato dagli scioperi), invece di trasferirsi all'estero, è rimasto all'interno, poiché la gente comprava più di prima; di conseguenza, calo delle esportazioni e deficit nella bilancia dei pagamenti per l'aumento delle importazioni. In parole povere: ciò che si sperava di ottenere dalla "svalutazione-guidata", o fluttuazione, non si era verificato. A tutto ciò si aggiungeva il disavanzo pubblico, che prima non c'era mai stato, e che salito a 5.000 miliardi nel 1972, raggiungeva i 7.500 miliardi nel 1973, per toccare i 9.500 miliardi del 1974.
Occorre riflettere bene su questa cifra: 9.500 miliardi di lire rappresentano circa un ottavo del reddito complessivo italiano, (1973, reddito delle venti regioni pari a 80.574 miliardi). Come si può pretendere che i prezzi non salgano ulteriormente in queste condizioni?
Fino a qualche anno fa in Italia c'erano due punti fermi: primo, la parte corrente del bilancio (cioé le spese ordinarie) era in pareggio; secondo, la bilancia dei pagamenti era attiva, anzi fortemente attiva, per cui la lira era considerata "moneta forte", e rispettata ovunque all'estero. Ad un certo punto, il meccanismo è saltato: il disavanzo di parte corrente è salito vertiginosamente per gli stipendi maggiorati concessi a statali, parastatali, aziende municipali, e via dicendo. Nel ''72 era già di 2.000 miliardi, raddoppiava nel ''73, ha raggiunto i 6.000 miliardi alla fine del 1974. Quasi due terzi del deficit totale. E tuttavia questi aumenti salariali si sono rivelati un tradimento per chi li ha ricevuti: l'inflazione li ha subito annullati. Si capisce come la "bomba" del petrolio arabo abbia potuto far precipitare da un giorno all'altro una situazione del genere.
Il crescere del disavanzo e stato così rapido, che nemmeno i responsabili se ne sono accorti. Gli economisti erano divisi sul da farsi. Alcuni sostenevano che era necessario dimezzare il disavanzo che, alla fine del ''73, era di 7.500 miliardi. Altri invece affermavano che non era il caso di preoccuparsi troppo, perché almeno 4.000 miliardi dovevano considerarsi come una "tassa petrolifera". Se non che, ad un certo momento ci si accorse che il deficit, anziché fermarsi al livello '73, era fermentato a 9.500 miliardi. Più colpevole l'imprevidenza o la demagogia? Certo, la politica del "si" a tutti, senza alcun discernimento obiettivo, aveva portato ad un scialo maggiore di quanto si fosse potuto pensare. Nel frattempo, l'anagrafe tributaria - che avrebbe dovuto rastrellare quattrini - faticava a entrare in funzione per l'esodo dei superburocrati. Si faceva ricorso a tasse odiose, come l'una tantum. Cresceva la sfiducia popolare. Lo sbandamento del governo era chiaro: arrivavano le dimissioni di La Malfa, poi la stasi del Parlamento per il referendum; in seguito scoppiava il dissidio Colombo-Giolitti; Rumor, a sua volta, si dimetteva. Praticamente, si sono perduti mesi preziosi (non meno di sei), senza intervenire.
Qual' è stato il ruolo effettivo dei sindacati? Ci sono due interpretazioni, differenti in alcuni punti (per contrapposizione ideologica, se non altro), ma in fondo concordanti nella sostanza. Secondo la prima, l'obiettivo dei sindacati non è di arrivare a una giusta distribuzione del reddito, ma di rovesciare il sistema. La prova? In tutti i paesi europei, il progresso salariale si è fermato fra l'84 e il 98 per cento del guadagno di produttività, lasciando il residuo margine a beneficio dell'economia. In Italia, lo ha scavalcato del 30 per cento! Tutti oggi riconoscono che la politica della spesa pubblica è stata demenziale; ma in passato, i sindacati hanno appoggiato ogni tipo di rivendicazione, anche quelle di categorie in parte sicuramente parassitarie, (nel pubblico impiego, nell'Enel, nelle aziende municipalizzate, eccetera), i cui dipendenti godono a volte di trattamenti vergognosamente alti rispetto a quelli di altri lavoratori.
L'altra interpretazione dice: talvolta i lavoratori chiedono troppo, ma anche questo èun modo di cautelarsi contro i rischi dell'inflazione. Che garanzie può dare un aumento di stipendio di fronte all'attuale instabilità dei prezzi? Del resto, è vero che i sindacati hanno calcato la mano per ragioni politiche e si son trovati con un potere enorme, ma è anche vero che dall'altra parte fa riscontro il vuoto di potere di chi ci governa. I nostri ministri, nella corsa a scavalcarsi, tendono a cedere sempre più alle pressioni del parlamento, dei partiti, dei sindacati, perfino delle clientele. Se parliamo di responsabilità, dunque, occorre dire che queste vanno equamente divise. La crisi attuale chiama in causa l'intera classe dirigente italiana. Gli esperti di economia non mancano, ma spesso svolgono un ruolo dì "consiglieri del principe", nel senso più deteriore. Sono generalmente legati a un partito. Succede così che prima viene decisa la linea politica, e poi l'economista trova le giustificazioni economiche: cioé la scelta politica, anziché partire con correttezza dall'analisi economica, stranamente la precede. Dopo di che si fa indossare all'Italia la camicia di Nesso.
Per salvare il paese, il governo ha varato all'inizio dell'estate ''74 una serie di provvedimenti, il famoso "pacchetto dei decreti" sul quale si continua a discutere. La massima polemica interessa il presunto gettito di 3.000 miliardi che ne dovrebbe derivare. Tale gettito, si dice, era previsto nel progetto iniziale, ma su base annua. E ora è finito l'anno, e siamo nella primavera del ''75, dunque i benefici dei decreti slitteranno a metà di quest'anno. Poi, di questi 3.000 miliardi, mille sono aumenti di tariffe di servizi pubblici (e andranno alle aziende), e soltanto duemila sono aumenti fiscali. Forse saranno anche meno: infatti occorre calcolare un minore gettito in seguito alla riduzione delle imposte dirette che sarà provocata dall'aumento delle detrazioni: l'on. Macchiavelli - che si è sempre occupato del problema - stima la perdita in circa 800 miliardi, solo in parte compensati dall'aumento del metano che prima non era previsto. Poi, sempre durante il tormentato dibattito parlamentare, è caduta l'imposizione della tassa sul bestiame vivo, il cui ammontare sarebbe stato di facile accertamento, mentre si sa che sul bestiame macellato l'evasione è massiccia: basta confrontare i consumi di carne con i gettiti fiscali della stessa: sembriamo un popolo di vegetariani!
Ancora: l'aliquota per le costruzioni di edilizia popolare, che era stata elevata al 7 per cento, è stata nuovamente portata al 3 per cento. Non è passata l'una tantum sulle piccole cilindrate, (tu hai una o due o tre " 500 " Fiat e non paghi; io ho una sola vecchia "500 Guzzi", e pago), ed è stata dimezzata quella sui piccoli natanti. Smagliature si sono avute anche nel campo dell'Iva sui dischi, sui nastri magnetici, sui cosmetici, elementi-campione del consumismo. Al momento di approvare i decreti, il Parlamento ha ceduto ai ricatti delle categorie alle quali si chiedevano i soldi. Facciamo un esempio per tutti: quello della imposta sul bestiame. All'inizio, la voce "bestiame vivo" non figurava nell'elenco dei prodotti soggetti a tassazione; si disse che ciò era accaduto per un errore tecnico, in fase di trascrizione del decreto. Il governo rimediò, proponendo una correzione che fu subito approvata dal Senato. Alla Camera, però, una coalizione mista di democristiani, comunisti e franchi tiratori di diversa estrazione, riuscì a far togliere dall'elenco il bestiame vivo. Il Senato reagì in maniera clamorosa, nell'aula gli stenografi registrarono anche il grido di "furfanti" riferito ai deputati. Alla fine, tuttavia, Rumor dovette cedere, e chiedere a Tanassi, allora ministro delle Finanze, di accettare la cancellazione. Era il 13 agosto: il colpo di mano era riuscito. (Si è poi venuto a sapere che maggiori artefici erano stati i comunisti, i quali soprattutto in Toscana e in Emilia-Romagna hanno organizzato allevamenti e spacci di carne, in cooperative che poi finanziano il partito; con il calo delle importazioni di carne, inoltre, per il diminuito consumo sui mercati italiani, le cooperative comuniste accusano una perdita secca di oltre un miliardo al mese).
Quale sarà la via d'uscita? Forse un'altra stangata di tasse? Alcuni affermano che ce ne ne sarebbe ancora lo spazio, secondo le statistiche, le quali affermano che, nonostante tutto, in Italia il rapporto fra entrate tributarie e reddito nazionale èin diminuzione: nel '68 era del 19,4 per cento; nel '69 è sceso al 19 per cento; nel '70 al 18,1 per cento; ed è risalito nel '71 al 18,4; nel ''72 a 18,5; riscendendo poi nel ''73 al 17,6 per cento. Ma tutto questo, in realtà, non significa niente, statistiche o non statistiche. Vuol dire semplicemente una più massiccia evasione fiscale da parte di alcune categorie a svantaggio di altre.
Le soluzioni a lungo termine sono, ovviamente, di natura politica. Esistono però alcuni provvedimenti immediati di sicura utilità. Per esempio, l'applicazione dell'art. 81, della Costituzione, secondo il quale ogni legge per essere varata deve avere la copertura finanziaria. Poi, una diversa regolamentazione dei cambi: dal momento che per ora l'Europa politicamente unita non esiste, meglio sarebbe dare maggiore flessibilità ai cambi, seguendo il mercato. A lungo termine, beninteso, il traguardo non può che essere quello della moneta unica per l'Europa, non più il serpente, ma un'unica banca centrale e un'unica politica monetaria. Questa ipotesi, avanzata da più parti, nei Nove, non è un'utopia. L'Europa non può sopravvivere divisa: Est, Ovest e Islam possono piegarla in qualunque momento. L'attuale crisi dovrebbe avere insegnato qualcosa.
Anche l'inflazione, comunque, se ben manovrata, potrebbe essere di per sé un rimedio. Dicono gli esperti: se si potessero bloccare le retribuzioni parassitarie, adeguando invece il salario per il lavoro produttivo al costo della vita, I' inflazione diventerebbe addirittura un surrogato del fisco, realizzerebbe una maggiore giustizia distributiva. Il principio è valido, soprattutto per coloro che non credono molto nelle capacità del fisco, e possono provare che in Italia ci sono almeno 200 mila dirigenti che guadagnano una quarantina di milioni all'anno, ma invano li si ricerca sull'elenco delle tasse. Ecco, una maggiore giustizia distributiva è l'unica valida alternativa ad ogni tipo di rivoluzione: una massa di italiani, costretta a pagare sempre per gli altri, ormai è al limite della sopportazione: un giorno o l'altro, potrebbe perdere la pazienza.
Poi, al più presto: occorre ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti, e scoraggiare seriamente la fuga dei capitali; stimolare l'aumento dell'occupazione nelle industrie esportatrici e in quelle che producono beni simili a quelli importati, (noi abbiamo ottimi liquori e spumanti, ma spendiamo annualmente 55 miliardi per acquistare champagne e 80 miliardi per comperare whisky); in seguito, far fuori alcune decine di migliaia di enti inutili, che sono le termiti dello Stato; infine, farsi venire la voglia di lavorare, rimboccarsi le maniche e fare sul serio, perché miracoli non sono in vista e il fatalismo si sa bene dove, inevitabilmente, sbocca.
Oggi come oggi la lira non sarà svalutata. Si adotta questo provvedimento quando si ha in mente un programma preciso di stabilizzazione. Nel nostro paese tale programma non esiste, e non esiste nemmeno la possibilità che ci sia nella situazione politica attuale. Non a caso le svalutazioni sono solitamente fatte da governi forti, (in Francia fu De Gaulle a deciderla, nel '58 e nel '68).
Qualcuno ci può aiutare? Si, ma entro certi limiti. La Germania, accordandoci un prestito (restituito per un quarto) di due miliardi di dollari, (la metà di quanto avevamo chiesto), ha dimostrato comprensione, ma nello stesso tempo ha chiesto garanzie in oro: l'Italia è andata al Monte di Pietà.
La Cee dovrà tendere ad una crescente solidarietà: oggi, se qualcuno affonda, trascina con sé gli altri. E a star male come noi, è la Gran Bretagna. Per molti altri partners può essere solo una questione di tempo. Gli unici che potrebbero fare molto per noi sono gli Stati Uniti, il solo paese al mondo la cui bilancia dei pagamenti, nel medio termine, è strutturalmente in pareggio. Hanno le materie prime, metà dell'uranio mondiale, immensi giacimenti di scisti bituminosi, carbone per centinaia di anni, colossali possibilità agricole, per non parlare della ricerca scientifica e delle tecnologie, e della capacità illimitata di assorbimento dei loro mercati. Ma anche questa storia è vecchia: gli Usa ci presterebbero dei quattrini, purché noi assicurassimo loro contratti per l'acquisto di grano, carbone, mais e soia. E, naturalmente, brevetti. Oltre a questo, l'aiuto americano ci costerebbe, soprattutto ora che il problema delle basi Nato è diventato scottante, in termini politici. In realtà, la crisi di Cipro ci ha resi più preziosi. Non è però questione di "venderci bene". E' questione di aprire gli occhi, e di far capire che va rifiutata ogni forma di neocolonialismo. Ma, al di là di tutto questo, è necessaria soprattutto la nostra buona volontà. Non si può vivere sempre alle spalle degli altri, come da tante parti ci rimproverano. E' tempo di prender coscienza dei nostri problemi, mettendo alle corde chi insidia il nostro realizzarci come Europa.

 


L'energia nella Cee

FRANCIA

Sebbene la Francia sia ancora in situazione di impiego quasi pieno, le preoccupazioni per l'immediato futuro non mancano. I prezzi sono aumentati all'inizio del 1974, su base annuale, del 13,5 per cento, ma gli indici più recenti parlano di oltre il 16 per cento. Il disavanzo della bilancia commerciale ha superato largamente i tre miliardi di franchi al mese, e non valgono certamente le affermazioni del segretario al Commercio Estero, secondo cui il deficit è interamente dovuto all'aumentato costo del petrolio, a fugare i dubbi. Il numero dei fallimenti, (media, ottomila a trimestre), rispetto al 1973 è cresciuto del 57 per cento. Nel paese è stata avviata in tempo un'operazione "freno sui prezzi", consistente in un ribasso volontario del cinque per cento che i commercianti sono stati invitati a praticare. Ma gli esperti del Ministero delle Finanze non si fanno molte illusioni.

STATI UNITI

L'inflazione non ha risparmiato neppure questo, che è il paese che dispone dei maggiori stocks di materie prime e domina non meno del cinque per cento del commercio planetario. E poiché in pratica l'area del dollaro non ha confini, la " debolezza " di questa moneta (malattia non nuova, del resto) si riflette a livello mondiale, con tutte le conseguenze che possono derivarne. Intanto, il presidente Ford si preoccupa di opporre un valido "containment" alla disoccupazione, che alla fine del 1974 ha largamente superato le previsioni del 5,3 per cento, sul totale degli occupati statunitensi. In ogni caso, occorre sottolineare che la " tenuta " dell'economia Usa passerà su sacrifici direttamente proporzionali delle economie della Europa occidentale, attualmente nell'occhio del tifone.

GERMANIA OCCID.

A dispetto delle apparenze floride, anche la Repubblica Federale Tedesca nutre seri timori per l'economia. Secondo lo "Spiegel" un gruppo di esperti del Ministero delle Finanze non escluderebbe a breve termine la possibilità di un milione di dissoccupati, ove non si verifichino congiunture estremamente favorevoli, cioè, allo stato attuale, impossibili. Per un'economia come quella tedesca, che per il 60 per cento è basata sulle esportazioni, i guai dei partners europei potrebbero tradursi in una minore domanda di prodotti. Da ciò, la politica dei prestiti, soprattutto ai paesi più deboli, come il nostro. La Germania Ovest conta 61 milioni e mezzo di abitanti, con una popolazione attiva formata da 26 milioni e 844 mila lavoratori, dei quali il 48,5 per cento occupati nella sola industria. Vi lavorano non meno di 800 mila immigrati, molti dei quali italiani.


URSS - COMECON

Per molto tempo, anche per la scarsa conoscenza dell'economia dei paesi dell'Est, si è creduto che l'inflazione fosse privilegio esclusivo dell'Occidente. Invece, non è così: a questa conclusione sono giunti gli esperti riuniti a Venezia al X Seminario Internazionale di Economia, organizzato dalla Ceses. L'inflazione all'Est non deriva dai costi, (nei paesi comunisti, mancando la libera contrattazione collettiva, il costo del lavoro è rigidamente controllabile), bensì dalla domanda di beni di un certo stile e valore, (il comunismo si è diffuso anche lì), i cui prezzi sono più flessibili. Ma il governo risolve il problema facendo scomparire dal mercato i più richiesti di tali beni, obbligando a lunghe code (due anni d'attesa per avere un'automobile). A complicare comunque le cose, oltre alla assoluta mancanza di dati ufficiali, è anche la non-convertibilità del rublo.

GIAPPONE

Il Giappone, che è stato il paese più duramente colpito dalla crisi energetica, dall'inflazione e dal crollo degli affari tra i 24 paesi dell'OCSE, in futuro potrà espandersi a ritmo dimezzato rispetto al passato: 4 - 5 per cento anziché 10 per cento. Nelle vertenze sindacati i lavoratori hanno spuntato aumenti retributivi, a livello nazionale, del 30 per cento e oltre. Probabilmente, il sistema di "impiego a vita", chiave della lealtà dei lavoratori che ha garantito il "boom" degli anni scorsi, si trasformerà in un peso: per contenere i costi, infatti, le società cominciano a ricorrere a massicci licenziamenti. Anche per questo paese, come per l'Europa, gli esperti prevedono una tormentata spirale prezzi-salari e alti tassi inflazionistici fino alla fine degli anni '70. Con 104 milioni di abitanti, il Giappone è una delle sedi più abitate della terra: conta 51,5 milioni di lavoratori, di cui il 27 per cento occupati nell'industria. Reddito pro-capite, 911 mila lire.

INGHILTERRA

L'inflazione, che procede da tempo ad un ritmo superiore al 20per cento, è oggi il massimo problema britannico. Gli esperti prevedono che il tenore di vita non migliorerà prima della fine del 1977: si parla ormai apertamente di oltre un milione di disoccupati in più, mentre il deficit corrente si aggira intorno ai quattordicimila milioni di sterline, (situazione simile a quella italiana). Il governo ha chiesto l'appoggio dei sindacati, del "Trade Unions Congress", il TUC, e l'ha ottenuto: il segretario generale del TUC ha affermato che è necessario ricorrere a un'autolimitazione responsabile delle rivendicazioni, salariali per non far precipitare l'economia: una specie di autocontrollo inquadrato in un "contratto sociale" che il governo intende realizzare d'intesa con i sindacati e la confederazione degli industriali.


Cifre della contabilità Regionale

Cosa è avvenuto l'anno scorso nelle regioni; quali di esse hanno progredito di più o di meno? L'analisi dei dati Unioncamere, effettuata con l'abituale chiarezza e l'ineccepibile puntualità dal prof. Guglielmo Tagliacarne, rivela che contro una media del reddito prodotto (a prezzi di mercato) in Italia di 1.330.500 lire per abitante, troviamo valori massimi nelle regioni del "triangolo industriale", intorno a un milione e 800 mila lire, e valori minimi nel Sud, con 861 mila lire, che precipitano a 691 mila in Calabria. Tagliacarne aggiunge che se è vero che il Mezzogiorno è ancora molto lontano dalla media nazionale e soprattutto dalle regioni nord-occidentali, è anche vero che nel 1973 il Sud ha conseguito un miglioramento maggiore del resto d'Italia. Infatti, si è avuto per il complesso nazionale, rispetto al 1972, un incremento del reddito prodotto del 6,5 per cento in termini reali, cioé a prezzi costanti (purtroppo non sarà lo stesso nel '74, e andrà ancora peggio nel 1975); ma nel Mezzogiorno si sono avuti aumenti ben più rilevanti: 13,4 per cento in Puglia; 11,2 per cento in Abruzzo; 10,2 per cento in Calabria. E' bene sottolineare che gli incrementi più notevoli si sono registrati nel settore industriale. Ciò significa che il Sud comincia a sentire gli effetti positivi di una politica d'intervento nel settore industriale avviata da tempo. Nella media nazionale l'aumento del reddito prodotto dalle attività industriali è stato nel '73 dell'8,0 per cento. Ma è salito al 26,1 per cento in Abruzzo, al 19 per cento in Puglia, al 17 per cento in Sardegna, al 13,9 per cento in Campania. Non è che il "fossato" tra le "due Italie" si sia colmato granché: ma ogni passo in avanti, dice Tagliacarne, va salutato come un successo, un buon inizio.

 

Anche in campo agricolo il Mezzogiorno ha registrato un buon vantaggio rispetto al Nord. Mentre il reddito prodotto dall'agricoltura è aumentato nel ''73 nella media italiana del 7,7 per cento, l' incremento è stato dello 11,2 per cento nel Mezzogiorno, con i massimi del 27,9 per cento in Calabria, e del 26,9 per cento in Puglia. Solo in alcune regioni i raccolti sono diminuiti rispetto al '72, con la cifra più disastrosa registrata in Molise, con meno 12 per cento.
Nel campo dei consumi privati, lo svantaggio delle aree meridionali è evidente. La media nazionale è stata, nel '73, di 939 mila lire per abitante. In Liguria è stata di 1.260.000 mila lire; in Lombardia di 1.123.000; in Piemonte di 1.126.000. Ma si scende ai valori minimi di appena 570.000 lire in Calabria, 626.000 in Basilicata, 654.000 in Puglia, 668.000 in Molise.
I consumi pubblici presentano cifre più alte, anche perché il Sud deve recuperare i gravi ritardi che ne ostacolano lo sviluppo socio-economico. Il Mezzogiorno assorbe esattamente un terzo del complesso dei consumi pubblici italiani: è questa una quota inferiore ancora a quella che la popolazione del Sud rappresenta sul totale nazionale, (35per cento). Ma miglioramenti ci sono stati.

 

Gli investimenti fissi hanno toccato nel. '73 poco più di 17 mila miliardi di lire (+21,4 per cento in termini monetari) e sono stati ripartiti per un terzo nelle regioni meridionali, esattamente nella stessa proporzione della ripartizione dei consumi, ma un pò meno della quota parte che esso rappresenta come popolazione sul totale nazionale. Le regioni più favorite sono state in questo settore la Puglia e la Sardegna.
Il Mezzogiorno, dunque, continua a restare "tributario" del Nord: non produce un reddito sufficiente a coprire i suoi bisogni in consumi (pubblici e privati). Complessivamente, le regioni del "triangolo" producono (come saldo) il 12 per cento in più di quello che impiegano; Il Mezzogiorno invece riceve (saldo) dalle altre regioni e dall'estero il 26 per cento in più di quello che produce. Il valore massimo fra le aree a forte produzione è rappresentato dalla Lombardia (14 per cento in più di quello che produce esce dalla regione); le, maggiori importazioni compaiono per la Basilicata e la Sardegna, che ricevono dallo estero il 39,6 per cento in più di quello che producono.

 


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