Dopo l'assenteismo
spagnolo e l'immobilismo borbonico la coscienza critica dello Stato
unitario ha affrontato in modo organico il problema del sottosviluppo
meridionale soltanto con l'avvento del nuovo ordine repubblicano.
Con la Cassa per il Mezzogiorno la classe politica ha voluto introdurre
nella organizzazione amministrativa dello Stato uno strumento specifico,
atto a inserire i problemi delle aree meridionali nella tematica più
ampia della politica economica generale.
L'occasione è ghiotta. Il venticinquennale dell'attività
della Cassa per il Mezzogiorno, oltre a consentire un bilancio sull'entità
e la qualità dell'intervento finora operato dallo Stato, (si
legga a questo proposito la sintesi cronologica dei risultati conseguiti
e dei problemi sollevati dall'attività di questo organismo),
offre la possibilità di fare il punto sulla problematica più
recente proposta dalla "questione meridionale". Discuterne
ancora può sembrare ozioso, ma quando ci si trova di fronte
ad un impegno corale assunto in modo solenne dalla classe politica
con cui si riconosce priorità assoluta ai problemi del Mezzogiorno
nel contesto della politica generale dello sviluppo, alcuni chiarimenti
s'impongono in modo perentorio. Come tutti gli argomenti su cui per
anni si è concentrato l'interesse culturale e l'impegno operativo,
anché la "questione meridionale" ha creato i suoi
miti.
Le domande a nostro avviso ancora inevase nel dibattito politico e
culturale in corso vanno poste a monte e tendono a provocare la demitizzazione
di alcuni aspetti rilevanti del problema. Preso atto dell'acquisita
consapevolezza di un Mezzogiorno inteso non più come fenomeno
unitario di sottosviluppo, (mito che ha procurato un ingente dispendio
di energie con interventi anacronistici e clientelari, dando luogo
a sperperi senza costrutto), ma come area suscettibile di interventi
adeguatamente differenziati, bisogna proseguire sulla via della dissacrazione
costruttiva. Questa evoluzione concettuale ha aperto le porte alla
nuova "filosofia" motivante i progetti speciali predisposti
dalla Cassa per il Mezzogiorno. Si tratta di un notevole passo in
avanti compiuto nel processo di revisione critica della "questione
meridionale", ma esso appare, allo stato attuale, ancora isolato.
Permangono intatti almeno altri due miti limitativi di ogni serio
impegno meridionalista: il mito del riequilibrio fra Nord e Sud ed
il mito dell'autarchia economica. Certamente quando il Mezzogiorno
veniva aggredito come zona depressa unitaria era comprensibile porsi
come corollario la ricerca del suo graduale avvicinamento al Nord.
Ma l'abbandono di questa politica, dai fatti dichiarata erronea, rende
necessario promuovere una nuova strategia operativa che consideri
la ricerca dello sviluppo come risultato di una serie di squilibri
permanenti.
La tematica degli equilibri e degli squilibri, delle sperequazioni
distributive a carattere settoriale e territoriale, è dunque
complessa e non si identifica affatto col Nord ricco e col Sud povero,
portato perennemente a rimorchio nell'affannosa ricerca di un livellamento
che, se mai fosse raggiunto, porrebbe in crisi l'intero sistema.
In concreto può dirsi che l'ampiezza crescente dei mercati
mondiali, il ritmo convulso imposto alla vita economica dalle continue
innovazioni tecnologiche e la tendenza esasperata a riunire il potere
economico e produttivo in mano a pochi vertici decisionali provocano:
necessariamente una serie di squilibri nell'economia nazionale nel
cui contesto il Mezzogiorno si colloca, proprio per le sue carenze
di base, come terreno di caccia più ambìto. Questa visione
realistica del problema meridionale attuale dovrebbe suggerire strategie
d'intervento forse più ambiziose, certo non circoscritte alla
problematica stantia sulle aree depresse. Il secondo mito cui abbiamo
fatto cenno, quello dell'autarchia, è radicato nella coscienza
stessa della popolazione meridionale. Allo stato attuale è
meno apparente, ma non va sottovalutato.
Il ruolo di primo piano assunto dai paesi mediorientali nel contesto
evolutivo dell'economia internazionale può ingenerare nel Mezzogiorno,
geograficamente ad essi vicino, la tentazione ad avviare un dialogo
parziale atto ad incoraggiare la creazione di un sistema economico
meridionale autonomo ed autopropulsivo. Questo pericolo immaginario
può assumere contenuto reale se le prospettive di soluzione
della depressione meridionale vengono guidate (come finora è
accaduto) non da interventi messi in atto per la creazione di autonomi
meccanismi di sviluppo, ma dagli effetti che sul Mezzogiorno continua
a riversare la degenerazione del sistema produttivo settentrionale.
Sgombrato il terreno da questi miti residui, è doveroso rilevare
che la tendenza verso una articolazione regionale dello sviluppo e
l'esigenza di riversare nella pianificazione nazionale il problema
del Mezzogiorno hanno allargato il dibattito sulla "questione
meridionale", imponendo la ricerca di meccanismi di sviluppo
idonei a far cambiare tono e prospettiva all'intera economia italiana.
In conformità a questi nuovi impulsi riformatori, la Cassa
per il Mezzogiorno sta assumendo un ruolo più qualificato in
termini operativi caratterizzato da un impegno imprenditoriale più
evidente.
A ben guardare, la realtà meridionale odierna presenta fenomeni
distorsivi assai gravi: dall'emigrazione di ritorno alla crisi endemica
dell'agricoltura, dal rallentamento del processo d'industrializzazione
all'elefantiasi del settore terziario. Le tesi "produttivistiche"
portate avanti negli ultimi dieci anni hanno premiato sempre più
l'impiego del fattore capitale creando, in rapporto agli investimenti
effettuati, un numero esiguo di posti di lavoro. L'andamento dell'occupazione
nell'industria manifatturiera costituisce un punto di osservazione
assai significativo.
Nell'ultimo decennio gli occupati in questo ramo di attività
produttiva sono passati nel Nord dal 32,1% al 39,9%, nel Mezzogiorno
dal 15,2% al 17,8%. Nello stesso tempo il Sud denunzia una dilatazione
abnorme del settore terziario nel quale finiscono per scaricarsi i
fenomeni della disoccupazione, della sottoccupazione e delle tensioni
sociali di ogni genere. Gli occupati in questo settore sono passati
nel corso del decennio dal 29,7% al 37,3% del totale, allineandosi
quasi con le percentuali rilevate nel Centro-Nord (39,9%) che però
si riferiscono ad un tessuto economico-produttivo assistito da ben
altra solidità.
Purtroppo bisogna rilevare che il problema dell'occupazione costituisce
ancora il centro nodale di ogni politica attuata nel Mezzogiorno per
il Mezzogiorno. Questa constatazione esige in primo luogo una radicale
revisione del sistema degli incentivi finora praticato. Esso ha consentito
la localizzazione di impianti imponenti, soprattutto nella siderurgia
e nella chimica, cui non ha fatto seguito la piccola e media industria
che notoriamente assorbe il maggior numero di posti di lavoro. Si
giunge così all'amaro paradosso che assegna agli incentivi
praticati per l'industrializzazione un ruolo di primo piano nella
predisposizione delle diseconomie interne e più in generale
del complesso fenomeno dell'emigrazione di massa. Sembra l'opera di
un famoso chirurgo cui riesce benissimo l'intervento mentre il paziente
muore.
Correggere questo grave aspetto distorsivo del meccanismo di sviluppo
meridionale costituisce impegno primario nell'affrontare nuovi progetti
di rilancio della dinamica produttiva a livello nazionale. Si è
ancora in una fase riflessiva e da più parti sono state avanzate
proposte tra le quali particolarmente interessante risulta essere
quella che prevede, per almeno cinque anni, la fiscalizzazione totale
degli oneri sociali per gli attuali occupati nell'industria manifatturiera
del Sud. Il costo di questo provvedimento, preventivato sui 500 miliardi
annui, dovrebbe confluire in un costituendo "Fondo per gli incentivi"
gestito dal CIPE. Tale "Fondo" dovrebbe amministrare tutti
gli incentivi che a qualsiasi titolo vengono concessi all'industria,
sia a fondo perduto, sia con interesse ridotto.
Alle modifiche sostanziali da apportare alla struttura degli incentivi
all'industrializzazione vanno poi aggiunte altre misure d'intervento
nel settore delle infrastrutture e dei servizi sociali che risultano
ancora gravemente carenti. Spetterà alla Cassa per il Mezzogiorno
dover gestire i "progetti speciali" con una conduzione tecnico-amministrativa
conforme agli obiettivi generali di sviluppo fissati dal piano nazionale.
L'attività della Cassa si arricchisce così di uno strumento
operativo che incide direttamente sul riassetto del territorio e sulla.
promozione delle condizioni necessario per accelerare l'insediamento
industriale che si auspica venga reso particolarmente stimolante per
la piccola e media impresa. Va ribadito che ogni tipo di intervento
deve tendere ad aumentare la propensione all'investimento nei rami
d'Industria che impiegano maggiore quantità di mano d'opera.
La disoccupazione risulta essere a tutt'oggi il male oscuro della
realtà meridionale e permette di verificare quanto illusorie
fossero le previsioni di piena occupazione postulate negli anni '60
per impostare le varie linee d'intervento nel Mezzogiorno. La realtà
smentisce questo assunto, mettendo in evidenza, nel Mezzogiorno, tra
il 1968 ed il 1972, una diminuzione di occupazione pari a 240.000
unità, per un tasso annuo dello 0,70%.
Analizzando i tassi di occupazione del Mezzogiorno continentale ed
insulare si può constatare che a tutto dicembre 1972 essi variano
tra il 25,8% della Sardegna ed il 29,9% della Campania, mentre al
Nord s'incontrano tassi pari al 41,6% per l'Emilia-Romagna ed al 39,4%
per il triangolo industriale.
L'analisi parallela di una graduatoria delle regioni CEE effettuata
in base ai tassi di disoccupazione pone in testa alla classifica ben
sette regioni (Sardegna, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia,
Lazio) con tassi varianti tra il 4 ed il 5,3%, mentre il tasso di
disoccupazione nazionale risulta essere pari al 3,1%.
La lettura di queste percentuali rileva una situazione drammatica.
Clamorosamente falliti i miti produttivistici e della piena occupazione
che alimentavano negli anni '60 la "filosofia" dell'intervento
situato a rimorchio della strategia espansionistica elaborata dagli
interessi industriali consolidati al Nord, si deve ancora fare spazio
ad un dovere di ripensamento che impegna la classe politica e tutta
la cultura nazionale. Ripensare oggi al Mezzogiorno vuol dire calarsi
nella sua realtà economica e sociale per assegnarle un ruolo
ed un significato precisi. Ripensare oggi alla "questione meridionale"
vuol dire rivedere criticamente le linee generali di sviluppo dell'intero
Paese, senza considerare il Mezzogiorno come un sistema in evoluzione
all'interno di un altro sistema.
Bisogna liberarsi dalle varie etichette fin qui usate per ragioni
di comodo, liberarsi dal clima politico in cui il problema è
stato incapsulato e dai compromessi suggeriti dall'ingegneria efficientista
dello sviluppo.
Il contributo regionale è molto atteso: potrà costituire
il fatto nuovo e determinante nell'individuare e rendere operanti
obiettivi e metodi di lavoro proficuo.



