§ Cassa per il Mezzogiorno: XXV anni d'impegno meridionalista

Programmazione e intervento per lo sviluppo




Claudio Alemanno



Dopo l'assenteismo spagnolo e l'immobilismo borbonico la coscienza critica dello Stato unitario ha affrontato in modo organico il problema del sottosviluppo meridionale soltanto con l'avvento del nuovo ordine repubblicano. Con la Cassa per il Mezzogiorno la classe politica ha voluto introdurre nella organizzazione amministrativa dello Stato uno strumento specifico, atto a inserire i problemi delle aree meridionali nella tematica più ampia della politica economica generale.
L'occasione è ghiotta. Il venticinquennale dell'attività della Cassa per il Mezzogiorno, oltre a consentire un bilancio sull'entità e la qualità dell'intervento finora operato dallo Stato, (si legga a questo proposito la sintesi cronologica dei risultati conseguiti e dei problemi sollevati dall'attività di questo organismo), offre la possibilità di fare il punto sulla problematica più recente proposta dalla "questione meridionale". Discuterne ancora può sembrare ozioso, ma quando ci si trova di fronte ad un impegno corale assunto in modo solenne dalla classe politica con cui si riconosce priorità assoluta ai problemi del Mezzogiorno nel contesto della politica generale dello sviluppo, alcuni chiarimenti s'impongono in modo perentorio. Come tutti gli argomenti su cui per anni si è concentrato l'interesse culturale e l'impegno operativo, anché la "questione meridionale" ha creato i suoi miti.
Le domande a nostro avviso ancora inevase nel dibattito politico e culturale in corso vanno poste a monte e tendono a provocare la demitizzazione di alcuni aspetti rilevanti del problema. Preso atto dell'acquisita consapevolezza di un Mezzogiorno inteso non più come fenomeno unitario di sottosviluppo, (mito che ha procurato un ingente dispendio di energie con interventi anacronistici e clientelari, dando luogo a sperperi senza costrutto), ma come area suscettibile di interventi adeguatamente differenziati, bisogna proseguire sulla via della dissacrazione costruttiva. Questa evoluzione concettuale ha aperto le porte alla nuova "filosofia" motivante i progetti speciali predisposti dalla Cassa per il Mezzogiorno. Si tratta di un notevole passo in avanti compiuto nel processo di revisione critica della "questione meridionale", ma esso appare, allo stato attuale, ancora isolato. Permangono intatti almeno altri due miti limitativi di ogni serio impegno meridionalista: il mito del riequilibrio fra Nord e Sud ed il mito dell'autarchia economica. Certamente quando il Mezzogiorno veniva aggredito come zona depressa unitaria era comprensibile porsi come corollario la ricerca del suo graduale avvicinamento al Nord. Ma l'abbandono di questa politica, dai fatti dichiarata erronea, rende necessario promuovere una nuova strategia operativa che consideri la ricerca dello sviluppo come risultato di una serie di squilibri permanenti.
La tematica degli equilibri e degli squilibri, delle sperequazioni distributive a carattere settoriale e territoriale, è dunque complessa e non si identifica affatto col Nord ricco e col Sud povero, portato perennemente a rimorchio nell'affannosa ricerca di un livellamento che, se mai fosse raggiunto, porrebbe in crisi l'intero sistema.
In concreto può dirsi che l'ampiezza crescente dei mercati mondiali, il ritmo convulso imposto alla vita economica dalle continue innovazioni tecnologiche e la tendenza esasperata a riunire il potere economico e produttivo in mano a pochi vertici decisionali provocano: necessariamente una serie di squilibri nell'economia nazionale nel cui contesto il Mezzogiorno si colloca, proprio per le sue carenze di base, come terreno di caccia più ambìto. Questa visione realistica del problema meridionale attuale dovrebbe suggerire strategie d'intervento forse più ambiziose, certo non circoscritte alla problematica stantia sulle aree depresse. Il secondo mito cui abbiamo fatto cenno, quello dell'autarchia, è radicato nella coscienza stessa della popolazione meridionale. Allo stato attuale è meno apparente, ma non va sottovalutato.
Il ruolo di primo piano assunto dai paesi mediorientali nel contesto evolutivo dell'economia internazionale può ingenerare nel Mezzogiorno, geograficamente ad essi vicino, la tentazione ad avviare un dialogo parziale atto ad incoraggiare la creazione di un sistema economico meridionale autonomo ed autopropulsivo. Questo pericolo immaginario può assumere contenuto reale se le prospettive di soluzione della depressione meridionale vengono guidate (come finora è accaduto) non da interventi messi in atto per la creazione di autonomi meccanismi di sviluppo, ma dagli effetti che sul Mezzogiorno continua a riversare la degenerazione del sistema produttivo settentrionale.
Sgombrato il terreno da questi miti residui, è doveroso rilevare che la tendenza verso una articolazione regionale dello sviluppo e l'esigenza di riversare nella pianificazione nazionale il problema del Mezzogiorno hanno allargato il dibattito sulla "questione meridionale", imponendo la ricerca di meccanismi di sviluppo idonei a far cambiare tono e prospettiva all'intera economia italiana.
In conformità a questi nuovi impulsi riformatori, la Cassa per il Mezzogiorno sta assumendo un ruolo più qualificato in termini operativi caratterizzato da un impegno imprenditoriale più evidente.
A ben guardare, la realtà meridionale odierna presenta fenomeni distorsivi assai gravi: dall'emigrazione di ritorno alla crisi endemica dell'agricoltura, dal rallentamento del processo d'industrializzazione all'elefantiasi del settore terziario. Le tesi "produttivistiche" portate avanti negli ultimi dieci anni hanno premiato sempre più l'impiego del fattore capitale creando, in rapporto agli investimenti effettuati, un numero esiguo di posti di lavoro. L'andamento dell'occupazione nell'industria manifatturiera costituisce un punto di osservazione assai significativo.
Nell'ultimo decennio gli occupati in questo ramo di attività produttiva sono passati nel Nord dal 32,1% al 39,9%, nel Mezzogiorno dal 15,2% al 17,8%. Nello stesso tempo il Sud denunzia una dilatazione abnorme del settore terziario nel quale finiscono per scaricarsi i fenomeni della disoccupazione, della sottoccupazione e delle tensioni sociali di ogni genere. Gli occupati in questo settore sono passati nel corso del decennio dal 29,7% al 37,3% del totale, allineandosi quasi con le percentuali rilevate nel Centro-Nord (39,9%) che però si riferiscono ad un tessuto economico-produttivo assistito da ben altra solidità.
Purtroppo bisogna rilevare che il problema dell'occupazione costituisce ancora il centro nodale di ogni politica attuata nel Mezzogiorno per il Mezzogiorno. Questa constatazione esige in primo luogo una radicale revisione del sistema degli incentivi finora praticato. Esso ha consentito la localizzazione di impianti imponenti, soprattutto nella siderurgia e nella chimica, cui non ha fatto seguito la piccola e media industria che notoriamente assorbe il maggior numero di posti di lavoro. Si giunge così all'amaro paradosso che assegna agli incentivi praticati per l'industrializzazione un ruolo di primo piano nella predisposizione delle diseconomie interne e più in generale del complesso fenomeno dell'emigrazione di massa. Sembra l'opera di un famoso chirurgo cui riesce benissimo l'intervento mentre il paziente muore.
Correggere questo grave aspetto distorsivo del meccanismo di sviluppo meridionale costituisce impegno primario nell'affrontare nuovi progetti di rilancio della dinamica produttiva a livello nazionale. Si è ancora in una fase riflessiva e da più parti sono state avanzate proposte tra le quali particolarmente interessante risulta essere quella che prevede, per almeno cinque anni, la fiscalizzazione totale degli oneri sociali per gli attuali occupati nell'industria manifatturiera del Sud. Il costo di questo provvedimento, preventivato sui 500 miliardi annui, dovrebbe confluire in un costituendo "Fondo per gli incentivi" gestito dal CIPE. Tale "Fondo" dovrebbe amministrare tutti gli incentivi che a qualsiasi titolo vengono concessi all'industria, sia a fondo perduto, sia con interesse ridotto.
Alle modifiche sostanziali da apportare alla struttura degli incentivi all'industrializzazione vanno poi aggiunte altre misure d'intervento nel settore delle infrastrutture e dei servizi sociali che risultano ancora gravemente carenti. Spetterà alla Cassa per il Mezzogiorno dover gestire i "progetti speciali" con una conduzione tecnico-amministrativa conforme agli obiettivi generali di sviluppo fissati dal piano nazionale. L'attività della Cassa si arricchisce così di uno strumento operativo che incide direttamente sul riassetto del territorio e sulla. promozione delle condizioni necessario per accelerare l'insediamento industriale che si auspica venga reso particolarmente stimolante per la piccola e media impresa. Va ribadito che ogni tipo di intervento deve tendere ad aumentare la propensione all'investimento nei rami d'Industria che impiegano maggiore quantità di mano d'opera.
La disoccupazione risulta essere a tutt'oggi il male oscuro della realtà meridionale e permette di verificare quanto illusorie fossero le previsioni di piena occupazione postulate negli anni '60 per impostare le varie linee d'intervento nel Mezzogiorno. La realtà smentisce questo assunto, mettendo in evidenza, nel Mezzogiorno, tra il 1968 ed il 1972, una diminuzione di occupazione pari a 240.000 unità, per un tasso annuo dello 0,70%.
Analizzando i tassi di occupazione del Mezzogiorno continentale ed insulare si può constatare che a tutto dicembre 1972 essi variano tra il 25,8% della Sardegna ed il 29,9% della Campania, mentre al Nord s'incontrano tassi pari al 41,6% per l'Emilia-Romagna ed al 39,4% per il triangolo industriale.
L'analisi parallela di una graduatoria delle regioni CEE effettuata in base ai tassi di disoccupazione pone in testa alla classifica ben sette regioni (Sardegna, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia, Lazio) con tassi varianti tra il 4 ed il 5,3%, mentre il tasso di disoccupazione nazionale risulta essere pari al 3,1%.
La lettura di queste percentuali rileva una situazione drammatica. Clamorosamente falliti i miti produttivistici e della piena occupazione che alimentavano negli anni '60 la "filosofia" dell'intervento situato a rimorchio della strategia espansionistica elaborata dagli interessi industriali consolidati al Nord, si deve ancora fare spazio ad un dovere di ripensamento che impegna la classe politica e tutta la cultura nazionale. Ripensare oggi al Mezzogiorno vuol dire calarsi nella sua realtà economica e sociale per assegnarle un ruolo ed un significato precisi. Ripensare oggi alla "questione meridionale" vuol dire rivedere criticamente le linee generali di sviluppo dell'intero Paese, senza considerare il Mezzogiorno come un sistema in evoluzione all'interno di un altro sistema.
Bisogna liberarsi dalle varie etichette fin qui usate per ragioni di comodo, liberarsi dal clima politico in cui il problema è stato incapsulato e dai compromessi suggeriti dall'ingegneria efficientista dello sviluppo.
Il contributo regionale è molto atteso: potrà costituire il fatto nuovo e determinante nell'individuare e rendere operanti obiettivi e metodi di lavoro proficuo.

 

 

 


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