"I
monumenti d'arte dell'Italia meridionale, anche i più famosi,
i castelli degli Svevi in Puglia, i templi greci della vallata di Agrigento
o dì Selinunte, le chiese e le mura delle città più
belle dell'Abruzzo o della Basilicata o della Calabria, noi, pellegrini
dei Nord, li vediamo in una luce che è romantica e classica insieme:
con un impeto di vita e di colore che i secoli non hanno affievolito
e insieme con una nitidezza di forme e di rilievi che una luce netta
e scandita non vela mai di incerte evanescenze".
La mia "scoperta"
del Sud avvenne allorché, nel 1940, lui richiamato alle armi
in Sicilia come ufficiale superiore di fanteria e, destinato alla
censura militare.
Prima, per i miei studi e anche per la mia professione (docente di
tedesco all'università) avevo bazzicato soltanto i paesi del
Nord: la Germania fino al Baltico, dove passai, poco dopo vent'anni,
due estati sulle spiagge di quel mare, e poi in Svizzera e poi ancora
in Cecoslovacchia e anche nei paesi scandinavi. Avevo più di
quarant'anni e (tranne qualche gita a Napoli) si può dire che
non conoscevo il Sud.
La scoperta fu duplice: primo, la luce del Sud, che scandisce le cose
e non le vela di nebbie e di umori come spesso avviene nel Nord. Di
questa luce ebbi la rivelazione per la prima volta una sera a Mondello,
vicino a Palermo; e subito mi ricordai di una lettera che Goethe il
17 maggio 1787 scrisse da Napoli al suo amico Herder e nella quale
diceva esattamente così: "quei nostri antichi rappresentavano
l'esistenza; noi, di solito, rappresentiamo l'effetto; essi descrivevano
il terribile, noi terribilmente; essi il piacevole, noi piacevolmente".
In tal modo, per il cambiamento soltanto di un sostantivo in un avverbio,
era posta la distinzione fra il soggettivismo di noi moderni che riferiamo
tutto all' "io", e la serenità, invece, la solidità,
l'obiettività delle cose come esistono, nella chiarezza dei
loro contorni.
E subito mi ricordai di quell'altra parola di Goethe, scritta durante
il viaggio in Italia, da Palermo: "Senza la Sicilia, l'Italia
non forma un quadro nell'anima; qui soltanto è la chiave per
capire il tutto".
Era la rivelazione della luce del Mediterraneo, era l'eco dell'arte
e del paesaggio greco, che ancora non conoscevo.
La seconda rivelazione fu in un campo opposto: passando lunghe ore
del giorno al tavolo per un lavoro ingrato, ficcando il naso in lettere
private di gente che scriveva, ignara di essere scoperta in cose magari
nascoste e gelose. notai una ricchezza di affetti famigliari, di passioni
non soltanto amorose, come mai avevo conosciuto vivendo in mezzo alle
popolazioni del Nord.
Questa seconda rivelazione può sembrare opposta alla prima:
e invece non è. Si tratta di una ricchezza di contenuti, che
direi romantici, in un ambiente, in un'aria, in una luce che chiedevano
la chiarezza, l'incisività delle linee proprie dell'arte classica.
Questa scoperta ha avuto indubbia importanza nello sviluppo della
mia arte e ciò si vede con evidenza nei libri scritti dopo
quella esperienza.
Ma non parlerei di queste cose private se non pensassi che molti viaggiatori,
anche se non scrittori ed artisti, venendo dal Nord a visitare l'Italia
meridionale, si trovino nelle stesse condizioni di sentimenti e di
formazione culturale.
Sta di fatto che i monumenti d'arte dell'Italia meridionale, anche
i più famosi, i castelli degli Svevi in Puglia, i templi greci
della vallata di Agrigento o di Selinunte, le chiese e le mura delle
città più belle d'Abruzzo o della Basilicata o della
Calabria, noi, pellegrini del Nord, li vediamo in una luce che è
romantica e classica insieme: con un impeto di vita e di colore che
i secoli non hanno affievolito e insieme con una nitidezza di forme
e di rilievi che una luce netta e scandita non vela mai di incerte
evanescenze.
Così mi apparve, per la prima volta, la Sicilia e specialmente
Palermo: la cattedrale tutta rossa come un'armatura di fuoco sotto
il sole cocente dell'estate, oppure coperta di viola nelle notti di
plenilunio (oh, di fronte a quel roggio ardente, il ciuffo delle campanule
che, appoggiate a una palma, s'aprivano timide e azzurre, proprio
davanti al portale, nell'ampio quadrilatero, cui le statue recingono!);
e visitai Monreale in una mattina di domenica mentre un canto di donne,
nel duomo, sembrava assecondare l'armonia delicata e pur grandiosa
delle navate, dei mosaici biblici e dei sepolcri normanni.
Così una sera, sostando sulla strada maestra, poco oltre l'orlo
erboso di una banchina, vidi ergersi, quasi un miracolo, le colonnate
potenti del tempio maggiore di Selinunte: già preso dalle ombre
e pur tutto in rilievo, come se dalle ombre e dal silenzio immenso,
che vagava d'intorno, sorgesse ancora l'eco di sterminate folle venute
a implorare gli déi antichi.
La stessa impressione di solitudine austera e insieme infiammata dal
sole ebbi una mattina, nella valle di Agrigento, allorché i
mandorli, tutti in fiore, sembravano le ultime voci, miracolosamente
rinate in forma di fiori, quasi pendule dai rami, rivolte verso i
templi antichi e deserti ma non ancora morti.
Così, in mezzo alle memorie, anche letterarie, dello splendente
medioevo svevo e insieme con le voci di una minuta popolazione, civile
e povera, mi apparvero le mura e le rovine dei castelli svevi in terra
di Puglia.
L'ultima immagine dell'Italia meridionale è, in un certo senso,
a Bari vecchia, in quel risucchio di gente umile e povera, in quel
brulichio di casette e casucce che, se anche scialbate recentemente
di bianco, aspettano il piccone e la cazzuola di un piano risanatore,
in quella povertà disordinata che non può venire nascosta.
Ma, oltre Brindisi, dalle parti di Lecce e più giù di
Lecce, ci si ritrova d'improvviso in un'aria di gentilezza nuova,
nata chi sa come, quasi per un miracolo: una gentilezza che non è
soltanto sui volti e nel tratto delle persone e nel dialetto, ma nell'ordinamento
stesso delle campagne, delle strade di città e di campagna,
con quei muretti sassosi e nitidi, con l'apparizione di quei pini
grandi che s'innalzano in mezzo alle file degli olivi ...
Le vecchie denominazioni. che credemmo esagerate per campanilismo
regionale e che ci avevano fatto un poco sorridere, quale "Toscana
del Sud" attribuita alla penisola satentina, "Atene d'Italia"
con cui fu chiamata Lecce, qui si capisce che hanno un senso. E non
solo il barocco pugliese ha quelle forme di semplificazione e di lindura
che tanti hanno notato (e direi che, anche quando non è di
perfetto buon gusto, questo barocco è signorile, come se potesse
esserci una "distinzione", una nobiltà perfino nella
non perfetta ortodossia alle regole del gusto); e non solo il rinascimento
èquasi sempre a Lecce e fuori di Lecce così casto e
armonioso, ma basta guardare il tufo della penisola salentina, la
materia di cui son formate le sue chiese e le sue case, per rendersi
conto della natura di questa regione. E' il tufo di color giallo dorato,
lievemente tendente al verde, di grana pastosa e morbida, come non
vidi in nessun'altra parte d'Italia: una grana docile alla sega, e
sembrerebbe perfino allo scalpello, ma soprattutto docile al variare
della luce nelle diverse ore dei giorni e delle stagioni.
Perché la cosa più singolare di questo mondo salentino
è appunto la luce: sulle case e soprattutto sulla campagna.
L'ho vista, in una giornata fra ottobre e novembre, andando e tornando
da Otranto. Quella luce che, come in Sicilia, scandisce si le cose,
con chiarezza, ma forse con più grazia, si direbbe quasi con
trepidazione: come se, in questo estremo lembo di terra ferma italiana,
ci fosse nell'aria una trepidazione gentile d'accostarsi alla madre
-alla grande madre: la Grecia - e insieme una specie di timore ma
anche di fierezza di fronte alla vicinanza (palese nell'apparire dei
monti d'Albania di là dal mare) del mondo musulmano.
Così vidi L'Aquila degli Abruzzi, e, soprattutto, la sua perla
che è Collemaggio.
C'è, a Collemaggio, una chiarità d'aria, un distendersi
dell'occhio, una serenità dell'anima, appena s'imbocca il larghissimo
viale che, non saprei per quale ragione, pur in mezzo ad alberi altissimi,
sempre mi è apparso illuminato di sole o di riflessi di neve.
E in fondo al viale larghissimo c'è il roseo delicato, diafano
e insieme quasi carnale, incredibile per certa sua dolcezza che è
insieme di cielo e di carne; dico il roseo della facciata della chiesa,
col grande rosone nel mezzo della parte superiore della facciata e
i tre portali, in basso; e, dentro le nicchiette, le piccole statue
dei santi, mozzate nella testa (come già notai nelle chiese
di Avignone); eppure leggiadre anch'esse, anche se decapitate.
Queste, ed altre che potrei aggiungere, sono, naturalmente, soltanto
impressioni di uno scrittore; non sono notizie di un archeologo né
giudizi di uno storico né valutazioni di un tecnico dell'arte
medioevale o di quella antica.
Le notizie esatte della scienza archeologica o della storia o della
critica d'arte gioveranno moltissimo, come è ovvio, a chi vorrà
intraprendere per la prima volta un viaggio nell'Italia del Sud o,
meglio, a chi vorrà rivedere cose già viste e studiarle
sul posto.
Ma per quella prima impressione che Goethe, nel suo viaggio in Italia,
confermava essere la più genuina e in fondo la più importante,
non saranno forse inutili le due componenti a cui accennavamo: la
luce nitida, che scandisce le forme, e la ricchezza degli affetti
che, quasi come un coro di voci invisibili, di popolazioni appassionate,
un tempo vive, sembrano ancora vagare intorno ai monumenti dell'arte
dei tempi passati.
Anche sotto questi due punti di vista, luce classica e ricchezza affettiva,
l'arte del Sud d'Italia è tutta da scoprire.
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