Una
rete ferroviaria adeguata alle necessità di riscatto del Mezzogiorno
al centro della politica "nuova" varata dalle Ferrovie dello
Stato.
Il treno, in Italia,
è nato nel Sud centotrentasei anni or sono, quasi un punto
di luce, una contraddizione nel buio di un regno - quello di Ferdinando
II delle Due Sicilie - che a giusta e malevola ragione il premier
inglese del tempo definì "la negazione di Dio eretta a
sistema di governo". Quegli, era Gladstone. Dicendo peste e corna
del re e dei suoi metodi di governo, intendeva evidentemente sferzare
anche il treno che, pur già presente nella sua isola, egli
disdegnava dall'usarlo scegliendo la carrozza a cavalli. O forse,
al vituperio del treno lo spingeva la malcelata invidia verso gruppi
etnici, quelli meridionali d'Italia, ai quali in definitiva nulla
era proibito da un estro non soggiogato ne estinto da secoli di storia
davvero vergognosi e indegni. Del treno, dunque, si parlò subito
male: il suo nascere, in Italia, coincideva con il germogliare di
una nuova vena critica, distruttiva, quella verso il treno! Una vena
che oggi sembra arteria. Il minimo che si senta dire è che
oggi in Italia si viaggia male: lo ha detto anche di recente un Ministro
dei Trasporti. A questo punto, visto il pulpito della predica, si
potrebbe chiudere bottega e, sulla scorta dell'esempio di Gladstone,
aggiornarsi e andare in automobile.
Ma in automobile ci siamo già andati, continuiamo ad andarci
con una costanza che sà anche di masochismo, pagando la benzina
a prezzi di Barbaresco (non l'arbitro di calcio, beninteso!), sfilando
dal nostro bilancio cifre folli per mantenere le mini e maxi cilindrate,
il tutto per rinchiuderci nella nostra scatola come sardelle, immersi
nella nevrosi, dilaniati dalla tentazione di dire bestemmie. Ogni
tanto, poi, aumenta il prezzo della benzina: allora sono mormorii,
fieri proclami dell'ACI, piccole fiammate di polemica. Ma poi è
subito automobile. Appetto, apriti cielo allorchè si ritoccano
le tariffe ferroviarie! Basterebbe a dirci quanto siamo sciammannati
un piccolo raffronto: le norme CUNA dicono che il costo per chilometro
di una auto di cilindrata 1.100, tutto compreso, si aggira fra le
75 e le 82 lire, vale a dire cinque o sei volte il prezzo medio del
treno. Non la niente, l'auto ci ha presi, continua ad esercitare un
richiamo così violento da ridurre a dimensioni di battoncella
periferica la Maga Circe. E noi a remare, a farci le corna per un
sorpasso.
Gillo Dorfles, in un suo aureo libro intitolato "L'evoluzione
del gusto", affermava che le inclinazioni e le scelte della massa
sono determinate da freddi centri di programmazione. Fuori d'eufemismi,
sulla massa incombe sempre un disegno di violenza psicologica. E'
stato così, ahimè, che allo spirare degli anni cinquanta
in questo disegno prese ad allignare la sembianza del trasporto individuale.
L'uomo, che è vocato per natura alla collettività, fu
spinto al gusto dell'individualità, con un innaturale ritorno
alle trame romantiche e del classicismo che lo sconvolsero e lo trasfigurarono.
E mette conto ricordare che solo qualche anno prima, a Roma, furono
firmati i protocolli della Comunità Europea: mentre da una
parte si tendeva a conferire alle singole nazioni una coscienza continentale,
dall'altra si agiva sull'individuo - che della nazione è entità
fondamentale - per esaltarne ed esasperarne l'individualismo più
irragionato e irragionevole, al solo fine di aggiustarne il gusto,
di conformarlo alle nuove programmazioni settoriali.
Duole, ma va anche ricordato quanto fecero e non fecero le organizzazioni
sindacali in quegli anni: affiancarono quel disegno vedendo in esso
solo la possibilità di nuove e cospicue occasioni di lavoro,
favorendo, certo involontariamente, lo sradicamento umano e culturale
di masse "pregiate" perché giovani, in particolare
dal meridione italiano, non identificando nella diaspora nessuno dei
pericoli che pure incombevano, il primo dei quali la logica fine,
nel tempo, della cuccagna automobilistica. Solo con Annibale alle
porte, nelle varie piattaforme e pacchetti inserirono, con vigore
pari all'annerirsi del dramma, la politica dei trasporti collettivi.
Oggi e solo da ieri, si parla di scuola, sanità, casa e trasporti.
Minimo, è malinconico. E' malinconico perché dura è
la constatazione di quanto precaria e approssimativa sia stata l'ottica
sindacale di fronte alla lucida determinazione dei gruppi di programmazione.
Al muro del pianto, si invoca, dopo quindici anni di baldoria, la
perfezione o quasi del trasporto collettivo, dunque del treno. Di
quel treno che da 136 anni ha preso a solcare l'Italia, accompagnandola
nelle sue alterne fortune, e che ha sempre potuto contare anche quando
lavorare e operare per esso e per il suo progredire in qualche modo
faceva spicco come un prete nella neve - su un piccolo esercito, agguerrito
e appassionato e pieno di dignità, i ferrovieri, dal direttore
generale all'ultimo manovale.
Centotrentasei anni di storia piena di trionfi, di eclissi, di stati
comatosi e di mirabili resurrezioni; pieni di coerenza, di quella
che vuole tenere sempre il passo con il progresso della tecnologia
e che fa consapevoli delle esigenze di domani, che saranno più
drastiche quando a reclamarle saranno quelli che ieri hanno disdegnato
e declassato il treno.
La storia del treno in Italia è un pezzo della storia tribolata
ed esaltante insieme del meridione. Il treno è nato a Napoli,
si è sviluppato nei dintorni, poi è andato a Bari e
si è un poco ramificato nelle Puglie. Il treno è nato
nel meridione, tutto è nato nel meridione, anche gli spaghetti
e la poesia popolare, anche il primo schema di lingua italiana e stato
partorito nel sud. Nel sud sono nate la mafia e la camorra, ma anche
Scarlatti e Boccherini sono figli del sud; il meridione ha generato
la medicina e la chirurgia, ci ha dato Flavio Gioia e Pirandello e
Salvatore Quasimodo: signori, ci ha dato anche Grazia Deledda, come
a dire tre dei cinque "Nobel" per le lettere assegnati all'Italia.
Il meridione ha inventato la superstizione e la jettatura ma anche
antidoti, massime le corna. Uomo del nord, e come tale in perenne,
amichevole polemica con il direttore di questa rivista, uomo del meridione,
posso bene affermare che, in fondo, siamo tutti del mezzogiorno, o
meglio, del mezzogiorno siamo tutti debitori: anche Gianni Agnelli
e la placida Svizzera, la ferrea Repubblica Federale e il pumbleo
Belgio, così come lo sono gli Stati Uniti e il Sudamerica,
l'Australia e la Francia. Tutti, se onestà ci assiste, dobbiamo
qualcosa al mezzogiorno: nella fattispecie per averci dato il treno,
che oggi è elemento primario del nostro ritorno ad una vita
meno insensata e più meditata. Prendo impegno, a testimonianza
della volontà di pagare il mio debito col sud, di affermare
(è una bugia che mi promuove!) che i tortellini sono stati
inventati nel meridione, forse a Napoli, forse a Bari!
In Italia, il treno propone dati emblematici: dai sette chilometri
e mezzo della Napoli-Portici dell'ottobre 1839, ai sedicimila circa
che oggi solcano l'intero territorio nazionale; dalla trentina di
"addetti" reclutati da Re Ferdinando ai 220/mila ferrovieri
di oggi diretti da Lucio Mayer, per coincidenza egli pure uomo del
sud, di Napoli.
Andiamo avanti, col proposito dichiarato di stendere una scheda anagrafica
- vorrei dire araldica - del treno da noi. Dalla breve tratta del
1839, ai quindici compartimenti ferroviari di oggi; dal treno solo
nel sud di quel tempo, il Mezzogiorno d'Italia ha visto l'assetto
ferroviario trasformarsi e dilatarsi in circa 5.400 chilometri di
linee governate da cinque compartimenti facenti capo a Napoli, Bari,
Reggio Calabria, Palermo e Cagliari.
Questo il grande mosaico di oggi, che ieri era appena una tessera.
Sulla scorta del successo riscosso dalla Napoli-Portici, una linea
che fu progettata e realizzata dal francese Armand Bayard de la Vingtrie,
ben presto il "Faraone delle due Sicilie" promosse altri
collegamenti. E' del dicembre del 1843 il viaggio inaugurale della
Caserta-Cancello-Napoli, una tratta di 33 chilometri, cui seguono
nel maggio dell'anno successivo i venti chilometri, della Portici-Torre
Annunziata-Castellamare di Stabia e gli undici della Capua-Caserta.
Si configura in qualche modo quello che molti anni più tardi
sarà il Compartimento Ferroviario di Napoli e che, nel nostro
tempo, ha giurisdizione su circa 1.216 chilometri di binari.
Ventidue anni dopo, precisamente il 25 giugno 1865, il treno entra
anche nelle Puglie correndo da Bari a Brindisi. Il cenno ha un suo
rilievo perché significativo dell'avanzare di un fenomeno,
quello del trasporto collettivo, che con buona pace dei "neo-romantici"
sarà irreversibile. E lo sarà ancor più in avvenire.
E' l'inizio della esportazione meridionale del treno, che sarà
in Lombardia, in Piemonte, nel Veneto, in Liguria, ovunque col trascorrere
del tempo. Il bello gli è che ognuno di questi centri col treno
crederà di avere inventato l'ombrello!
A proposito del "Faraone" e del suo treno, non si può
non rilevare un aspetto di gestione che è stato adottato, anche
e seppure in misura meno sfacciata e provocatoria, da tutte le amministrazioni
ferroviarie del dopo Ferdinando: parliamo dei biglietti a tariffa
speciale, di ribassi concessi a certe categorie di viaggiatori.
La codificazione risale al 1855 ed è inserita in un libercolo
pubblicato a cura della Regia Strada Ferrata (l'Azienda FS di oggi)
che è in pratica il primo orario ferroviario. Dice la norma
che la riduzione del 50% viene applicata a "sottouffiziali, soldati,
a coloro che fanno uso abituale di giacca, a donne e cacciatori con
cani e fucili". Fatto salvo l'omaggio riservato alle donne, il
resto è autentica discriminazione ai danni delle povere e diseredate
popolazioni del Regno, costrette alla tariffa piena semmai avessero
potuto far uso del treno. D'altra parte, va dato atto a Ferdinando
di Borbone di una coerenza estrema: fu il tipetto che applicava con
disinvoltura la regola delle "tre effe", vale a dire feste,
farina e forca, rispettivamente ai ricchi, ai poveri e alle carogne,
laddove poveri e carogne, tutt'uno essendo nella sua interpretazione,
avevano poca, pochissima farina e tanta, tanta forca.
Si può anche comprendere e giustificare, di fronte a questi
particolari, il rutto di Gladstone che intendeva denunciare una volta
di più ed a modo suo le incongruenze, le contraddizioni di
un metodo di governo.
Chiusa la dannata parentesi borbonica, il bilancio alla fine rivelò
una sola voce attiva, quella del treno. Poco o molto che sia non sapremmo.
Sappiamo, però, che "quel" treno ha proliferato anche
nel campo del costume ed ha determinato nel sud italiano una chiara,
esemplare tradizione ferroviaria. Non tanto nell'uso del treno,, pur
cospicuo, quanto nei suoi addetti, negli uomini che al suo sviluppo
ed al suo adeguarsi alle esigenze dei tempi, hanno dedicato tempi
e spazi generazionali. Senza dilatazioni mnemoniche, oltre al napoletano
Lucio Mayer, oggi direttore generale delle FS alle prese con il compito
di darci treni e tracciati di primo ordine, perché così
"reclama" il nostro gusto fuorviato e deluso da un fittizio
benessere da auto, dai nostri ricordi freschi emergono altri nomi
ed altre fisionomie di meridionali cui tutti, dico tutti perché
ognuno di noi ha viaggiato, viaggia e viaggerà in treno, dobbiamo
almeno riconoscenza. Si tratta del campano Ruben Fienga che diresse
l'impresa "impossibile" di rifare le ferrovie distrutte
quasi per intero dall'ultima guerra; si tratta di Luigi Misiti, un
altro meridionale che ha progettato la "Direttissima" Roma-Firenze,
tribolata finché si vuole, osteggiata anche da non sempre comprensibili
argomentazioni ecologiche, ma che si risolverà in un contributo
di portata straordinaria non solo per i traffici umani e merceologici.
Sono questi uomini del sud, insieme con altri di tutta Italia chiamati
da sempre alle cure ferroviarie e non sempre guidati politicamente
con il richiesto e necessario acume, che hanno gettato le basi e non
solo esse, dei piani di ristrutturazione ferroviaria che, in numero
di tre, due conclusi ed uno in via di varo, porteranno le ferrovie
del nostro paese a giusti livelli di efficienze e le porranno nelle
condizioni di adempiere al loro compito di servizio sociale primario,
come la casa, la scuola, la salute pubblica, per dire delle più
fresche esigenze portate sotto i nostri nasi da politici, sindacati
e imprenditori di nuova e redenta vocazione sociale.
Tre piani, tre maniere di fare politica ferroviaria. Il primo parlò
di riclassamento e siccome vagì nel 1962 allorché i
primi fumi della sbornia automobilistica ottenebravano un poco il
cervello di tutti, fra le pieghe di esso fece capolino una specie
di neologismo, "i rami secchi", vale a dire quelle tratte
ferroviarie poco frequentate che meritavano di essere recise, perché
deficitarie nella gestione. Meno male che quel principio ebbe poche
realizzazioni: oggi quei rami secchi reclamano d'essere rinverditi
perché la gente torna al treno. Immaginiamo cosa accadrebbe
se al posto dei binari la foia automobilarda d'allora avesse fatto
strade o, addirittura, autostrade! Il Piano di riclassamento ebbe
i suoi meriti, ma il primo fu senza dubbio quello di evitare il tracollo
delle ferrovie e di mantenerle vive nella considerazione generale:
la loro presenza e il processo d'aggiornamento tecnologico che le
interessava erano pur sempre punti precisi e duraturi di riferimento.
Esaurito, dieci anni dopo e in attesa della stesura del programma
di interventi straordinari per una cifra complessiva di 4/mila miliardi,
di cui duemila da utilizzarsi in cinque anni, a partire dal 1975,
ecco il "piano ponte". Dotato di 400/miliardi, strappati
(è la parola) nel 1972 dal ministro dei Trasporti dell'epoca,
esso rese possibile la realizzazione di opere fra le più urgenti
- alcune delle quali ancora in corso - in attesa della legge relativa
al piano straordinario già citato. Per dirne una, il piano
ponte rese possibile il raddoppio della linea Battipaglia-Reggio Calabria,
accelerando e rinvigorendo i traffici fra il nord, il centro, il sud
e la Sicilia.
Ora si propongono in termini di duemila miliardi gli interventi straordinari.
Una cifra cospicua anche in tempi d'inflazione, che dà la misura
dell'impegno delle ferrovie ad un servizio sempre più adeguato,
se si tiene bene presente che tale cifra è destinata solo al
compimento di opere ed alla dotazione di materiale rotabile d'avanguardia.
In essa non sono comprese le spese per i miglioramenti salariali riconosciuti
o da riconoscere al personale dipendente dall'azienda ferroviaria.
La cifra di cui si parla ha due destinazioni precise: 1.250 miliardi
ad opere di vario genere, quali raddoppi di binari, nuove stazioni,
centrali, linee elettriche, impianti di segnalamento e sicurezza,
telecomunicazioni, fabbricati di servizio e per il personale; 750
miliardi, invece al parco rotabili. Sono previsti centinaia di locomotori
di vario tipo e genere, carrozze per servizi ordinari e per i pendolari
del lavoro e dello studio, oltre ottomila nuovi carri merci, una nave
traghetto da aggiungere alla flotta delle FS per il collegamento con
la Sardegna. Questi i titoli di maggiore rilievo, ma capaci di rendere
edotto ognuno di noi su quanto è in via di realizzazione al
fine di rimandarci in treno nel migliore dei modi e toglierci una
buona volta dall'impasse attuale di cui, volenti o nolenti, siamo
tutti responsabili sia pure in misura diversa.
Tornando agli interventi straordinari, va ricordato che per legge
oltre trecento dei 750 miliardi destinati al materiale rotabile saranno
impiegati nel meridione con commesse a industrie e gruppi industriali
operanti nelle regioni del sud. E', come si vede, un contributo di
qualità alla ripresa della nostra asfittica economia. Il treno
aggiusta un poco i cocci degli altri.
Altro contributo, certamente vigoroso, viene dalle opere programmate
nei cinque compartimenti ferroviari del sud e delle isole. Per sommi
capi opere d'armamento e sulle linee sono programmate sulla Foggia-Potenza,
sulla Metaponto-Reggio Calabria, sulla Battipaglia-Reggio Calabria
e sulla Palermo-Messina. Lavori per ultimare la elettrificazione sono
previsti sulla Bari-Taranto, sulla Napoli-Reggio Calabria e sulla
Bari-Reggio Calabria; poi i raddoppi della Pescara-San Severo-Bari-Brindisi-Lecce,
e poi rettifiche di tracciato e poi lavori sui nodi ferroviari e relativi
rinnovi degli impianti di segnalamento anche automatici. Abbiamo detto
per sommi capi e così è stato: per dettagliare le opere
previste, basterebbe mettersi sotto gli occhi un orario ferroviario
completo e confrontarlo con il piano: ogni linea dell'intera rete
o quasi avrà lavori di entità e qualità diverse
ma significative.
E qui, anche per gli occhiacci del proto, si conclude il nostro viaggio
sulle ferrovie italiane, e in particolare su quelle del Mezzogiorno
con i loro sette chilometri e mezzo d'inizio ai cinquemila e passa
di oggi. E' stato un viaggio che ha suggerito a noi anche violente
reazioni e ci ha portato ai limiti potabili della polemica, ma che
ci ha aperto qualche spiraglio di speranza. Uno spiraglio di speranza
che corre sui binari, anche e soprattutto per gli uomini del sud molti
dei quali, tormentati dalla diaspora, vorremmo rientrassero con la
certezza che la speranza sarà certezza.
Alla fine di questo notare di cose, colpevole, riesumo un giudizio
tremendo di un caro, indimenticabile insegnante: letto che ebbe un
mio tema, mi guardò e disse: "Scrivi come Dio. . . . .".
Ringalluzzito, subito la folgore della giustizia mi colse. "Scrivi
come Dio - riprese -perché il tuo tema non' ha ne principio
ne fine".
Se così è stato anche ora - e ne ho fiero sospetto -
chiedo perdono a chi ho recato tedio