Da un angolo
all'altro di questa straordinaria penisola, specchie, grave, vore, grotte,
dolmen, menhir, testimoniano che qui la vita fu civilissima all'alba del
mondo.
O si intraprende
un viaggio con i sacri testi archeologici sotto il braccio, e un pò
di nozioni di scorta, e allora è necessario muoversi con metodo,
seguire itinerari prestabiliti con scelte rigorose anche in ordine ai
tempi, o alle ipotesi di successione dei tempi: in questo modo vengon
fuori i capitoli differenziati: la via delle grotte, quella delle pietrefitte,
e così di seguito; dopo di che si entra diritti nella storia,
e tutto fila liscio. Oppure si va fuori dagli schemi accademici, ci
si avventura nel Salento chilometro dopo chilometro, come consigliano
i giorni e le notti: ed è in questo caso che la scienza cede
il passo all'immaginazione, si possono travalicare intere età
terrestri ad una fermata, o si deve retrocedere di migliaia di anni
alla meta successiva. Perché questa penisola è un mirabile
scrigno di sorprese, per chi non va nel mondo con gli occhi chiusi.
Si può oltrepassare la fascia ove le viti si arrampicano come
gigantesche ragnatele alle braccia di grossi alberi, a trattenere il
sole, e quella ove i tralci, senza sostegno e senza slancio, si stendono
rasoterra ruvidi e raccolti: da qui, ci si trova nella indeterminata
orizzontalità - spumeggiante, quando i mandorli esplodono in
fiore - della pianura del "Salento grande". La roccia grigia,
smussandosi grado a grado alla scoperta delle serre dell'ovest, preannuncia
i trulli. Qui finiva il territorio dei Messapi. Qui la natura impose
il segno della sua antica storia: le "Grotte di Castellana".
La "Bocca dell'Inferno": la gente vi girava al largo. Una
voce popolare raccontava che lo sprofondo si era creato quando due fratelli,
uno cieco e l'altro vedente, erano venuti a dividere il raccolto comune;
il cieco aveva chiesto all'altro se poteva aver fiducia in lui per l'equità
della divisione. E poiché quello, mentendo, lo aveva ingannato,
era stato ingoiato da quella frana che portava difilato al mondo dei
dannati. Ma c'è anche qualcosa di più vicino e di più
concreto della leggenda.
Il feroce bandito Scannacornacchia vi aveva posto il suo quartier generale,
e i carbonari vi portarono a fucilare una donna, spia borbonica, in
segno di spregio per la sua carne e la sua anima. Il corpo, nudo, precipitò
nel baratro lacerandosi, mentre i capelli corvini restarono impigliati
tra i rovi. Raccontano i pastori che d'estate, nelle notti bianche di
plenilunio, si ode salire un lamento lungo e agghiacciante, che si perde
in lontananza, su per gli altopiani che fronteggiano i venti del mare.
E dicono che sia la voce della splendida spia che cerca di sottrarsi
al tormento di quella secolare solitudine: e a tratti la riecheggiano
i corvi nottivaghi, mentre un brivido corre per le serre e le prime
murge, scomponendo la quieta distesa della notte lunare.
Esisteva la cognizione ufficiale di questo baratro, il cui nome, "grave
di Castellana", era riportato nel Dizionario Corografico d'Italia,
e sotto il capitolo "Reame di Napoli" (1852, Milano), compilato
dal De Luca e da don Raffaele Mastriani una notizia diceva: "Curiosità
naturale, una voragine detta 'grave' ". Nel '38 Francesco Anelli
(che dirigeva le grotte di Postumia) e uno speleologo dilettante locale,
Vito Matarrese, riuscirono a calarsi in profondità e a tracciare
una via. Attraverso tenebre sempre più fitte, dopo un chilometro
e mezzo di cammino sotterraneo, giunsero a una vastissima caverna, dove
stalattiti e stalagmiti rivelarono forme trasparenti e levigate. Superata
la prima cavità, la cui volta aveva un giorno ceduto, un susseguirsi
di gallerie, il cui incanto era fatto di inesorabili coerenze chimiche,
del cristallizzarsi di leggi fisiche in splendide rivelazioni, che si
stringono e dilatano in una immmobilità piena di segni, di silenzi
antichi, di movimenti antelucani, il cui riflesso non sarà mai
esaurito. E la straordinarietà di questa disincarnata teoria
di figure è l'adeguarsi a forme umane o animali, fissate in un
superamento che pare l'essenza stessa della forma, consueta eppure lontana,
intima eppure irraggiungibile. Gli scenari si susseguono ininterrottamente:
la caverna della Civetta, il corridoio dell'Angelo, la sala dell'Altare,
la grotta Bianca. E ciascuna di queste armonie agghiaccia espressioni
simboliche e primordiali, come il Serpente del Male o le Tavole della
Legge; o configura, per mirabile rispondenza, i misteri più profondi
della cronologia umana, e della storia che può non essere più
soltanto umana, nel Presepe, il cui splendore supera e travolge l'idea
stessa del colore. Qui la natura, che pure sembrava propensa a svelarsi,
poi ripete volontariamente il suo giuoco: accoglie nel suo cuore, e
respinge, fatalmente, al di là del muro invisibile del mistero.
Queste generose grotte di Castellana: le chiamano "fenomeno".
E sono, per la scienza, un fenomeno carsico: una legge. Per l'immaginazione,
forse è poesia. E sperduto è l'uomo di fronte a questa
disumana sensibilità della natura.
Le specchie sono un mistero. Cumuli di macigni dalla Murgia al Salento,
databili tra il neolitico e l'età del bronzo. A forma di cono,
sono solitamente dislocate nei punti più elevati e dalla loro
vetta si domina l'intera valle, fino a scorgere la specchia successiva.
Ho visto, tempo fa, la "Specchia del Re", a occidente di Santeramo,
in contrada De Nora: i blocchi megalitici sono stati disposti diligentemente,
dalla cima si scorge la specchia di "Femmina morta". Intorno,
alcune piccole tombe quadrangolari, come tumuli di bambini, ma appartenevano
ad adulti, allora si usava seppellire il corpo nella stessa posizione
in cui era nato: rannicchiato. Ma perché proprio nei pressi della
specchia? Non è il solo interrogativo che ci si pone. Ci si interroga
da anni, ormai. E le risposte che si azzardano sono ipotesi suggestive.
Semiramide non fece innalzare sulla tomba del marito Nino un cumulo
altissimo di pietre e sassi? E le ceneri di Aliatte, padre di Creso,
re di Lidia. non erano forse coperte da un cumulo altissimo di pietre?
E durante la guerra di Troia non furono innalzate colline sulle tombe
di Tideo, di Lico, di Edipo?
In terra d'Otranto le specchie, numerosissime, sono fra le più
grandi di Puglia. Alcune hanno un diametro di oltre trenta metri, e
come dice il Galateo nel "De situ Japvgiae" potrebbero essere
state elevate grazie all'opera di una gran moltitudine di gente: "Nei
pochi luoghi dove mancano le pietre, mentre ovunque i colli sono aspri
e sassosi, questi cumuli sono invece di terra, e di tale altezza da
poter sembrare montagne, quantunque il tempo e la mano degli uomini,
nonché il bestiame, li avessero in parte mozzati". Telegrafo
preistorico, dunque, o tombe di uomini illustri? Arduo dilemma, ove
si escludano - ma sarebbe azzardato - altre soluzioni. Certo, testimonianza
della laboriosità e dell'ingegno di queste antiche genti.
I menhir e i dolmen propongono per lo meno altrettanti interrogativi.
I menhir superstiti sono stati contati: quarantasette; quelli scomparsi,
di cui si ha memoria sicura, sono altrettanti. Giurdignano, che ne doveva
avere una foresta, ne ha salvati otto. E a Giurdignano sono gli stupendi
esemplari di "pietre orizzontali", i sette dolmen che dominano
- regali - le quiete, verdi campagne.
Cos'è l'ipogeo di Vitigliano; a chi era dedicato il "Centopietre"
di Patù; quali sorprese riservano certe vore; cosa si scoprirà
nella "Grotta dei Diavoli" di Badisco; cosa verrà fuori
ancora dalla "Grotta della Madonna della Serra" di Giuggianello?
Intere età planetarie sono scritte col linguaggio ermetico della
natura: scoprire i segni di quest'alfabeto è un gioco affascinante
e terribile, un magico confronto, che già scrive una sua storia
con le "Grotte di Enea o dei Cervi", a Porto Badisco, quinto
centro post-glaciale, dopo quelli dell'Africa settentrionale, della
penisola Iberica, della Scandinavia e dell'Unione Sovietica; con la
"Grotta Romanelli", fra Castro e Santa Cesarea; con la "Zinzulusa",
la "Palombara", con le grotte minori del territorio di Castro,
con le grotte marine sparse lungo la costa salentina, con la "lettura"
stessa dei fondali marini, cimiteri archeologici che sarebbe delittuoso
trascurare.
|