Anche se decaduta
come "porta d'oriente" e scalo marittimo commerciale, conserva
intatti un fascino raccolto e una sottile magia che evocano memorie dell'antica,
indimenticata grandezza.
Un poema antico.
Una fossa comune. Un monumento dell'uomo a Dio. Un centro minacciato
dagli insediamenti urbani e turistici. Ecco quattro definizioni che,
per quanto eterogenee, sono ancora oggi ugualmente applicate a questa
città di cui il Salento, con molto orgoglio, si vanta. Due positive,
due negative. In genere, però, chi ad Otranto è stato
non ha saputo resistere al fascino del luogo, perché quella sinfonia
di forme e colori ha indubbiamente una sua perfezione viva e vibrante.
Si entra in città scivolando sul dorso di un grappolo di colline
segnate da una rete di strade asfaltate. La costa si immerge nelle acque
dell'Adriatico lentamente, con dolcezza, con una disinvoltura per nulla
turbata dalle fasce increspate di sabbia chiara, dal susseguirsi di
barche alla fonda, né dalle superstiti case
dei pescatori sparse qua e là, butterate dall'aria salmastra,
e quasi sospese a mezz'aria, tra cielo e mare. Ad oriente guardano l'orizzonte
le torri dei grandi bastioni di difesa eretti al tempo delle invasioni
barbariche: sono mas-sicci muraglioni verdi di muschio e neri per il
tempo, che hanno tramandato una inestritabile antologia di storie e
leggende. Gli otrantini vivono e respirano l'aria secolare della loro
città.
Lo dicono con gli occhi che ti scrutano intensamente, mentre raccontano
tra il serio e il faceto la rotta dei barbari; o con le mani, che indicano,
mentre il sole al tramonto raccoglie i suoi ultimi bagliori e li affonda
sull'opposto Jonio, i grandi massi quadrati cuciti da una grossa vena
di calcestruzzo.
Ma non è soltanto l'amore per il colore che porta gli otrantini
ad amare questo enorme serpente di pietra. Entrano in gioco altri fattori:
il rispetto della tradizione, per le credenze degli avi, per l'opinione
degli altri. Questi uomini sentono molto anch'essi il lascino e la sottile
magia della loro storia, che a tratti sfuma e perde consistenza, diventando
leggenda immutabile nel tempo. E senza dubbio questa città, simbolo
di un Salento che ha avuto una storia assai più tragica che grande,
porta per l'Oriente d'allora, ma anche trincea contro l'Oriente d'allora,
esercita un'attrazione notevole, realizza un'atmosfera mistica profonda,
come se dividesse ancora due mondi opposti, inconciliabili: una riva
carica di umanità, e un'altra spettrale, deserta. Fra le due
rive c'è un contrasto come fra la vita e la morte. Una sola può
unirle o dividerle: il volto antico del mare.
Sporge quasi dalla costa, ed è la città più vicina
alla dirimpettaia sponda d'Albania. Di tanto in tanto rispunta l'idea
di saldare con un ponte le due rive per creare una "transbalcanica"
che apporterebbe ai Paesi del bacino mediterraneo indubbi vantaggi (e
indubbi svantaggi). Ma l'idea non è nuova. Risale almeno all'epoca
cesariana, quando Marco Varrone, luogotenente di Pompeo, voleva gettare
un ponte di barche attraverso il canale otrantino, per farvi passare
le sue truppe, incalzate dalle legioni di Cesare. Certamente, da qui
mossero le truppe di Federico II per la Quarta Crociata.
La strada. inaspettatamente, si arrampica e piega in una curva obliqua
e stretta. A mano a mano che sale, le vecchie mura del Vescovado vanno
stringendo le lastre di pietra leccese in una morsa di scale a tromba
e porticati. Poi, come in un improvviso ritorno di respiro, la via spalanca
una piazza ad anfiteatro, ampia e aperta al sole. Qui s'innalza la Cattedrale,
con l'Arcivescovado e l'Archidiocesi. E' un gruppo monumentale stupendo.
Descriverlo? Non è facile. Sorge su due ampie terrazze sovrapposte,
quella bassa di pietra rossiccia, quella più alta in pietra serena.
La piattaforma superiore è una vasta scacchiera in chiaroscuro.
La prima cosa che attrae è la zona d'ombra che si apre sulla
facciata della Cattedrale: un grande frontone che va diritto al cielo,
poggiato su una morbida e misteriosa conchiglia che interrompe la poticroma
continuità delle colonne addossate ai muri, preludio delle altre
- maestose - delle navate interne dai pavimenti mosaicati (è
un unico mosaico, grandissimo, stupendo, che non si coglie per intero
con lo sguardo, ed e necessario osservarlo un poco per volta) e di quelle
della cripta, queste ultime tutte in stili diversi.
Fu nel 1480, nella calda mattinata del 12 agosto. Alitava una leggera
brezza di levante.
Le grosse barche erano rientrate per tempo dalla pesca notturna. Un
giorno come tanti altri, rallegrato dagli stornelli dei vasai al lavoro.
dal vocio delle donne fra i cortili, dai richiami dei pescatori di tonno
che riparavano le reti stese al sole. Le galere saracene apparvero all'improvviso,
e maledettamente vicine, snelle e veloci com'erano, come se fossero
affiorate dal fondo per una diabolica astuzia del mare.
Dare l'allarme e passare alla difesa fu questione di un momento. Dalla
Rocca della Candelora alla Torre del Vescovado si combatte una battaglia
senza quartiere. Ma alla fine i saraceni ebbero la meglio, e riuscirono
a toccare terra. Quando la città, esausta, cadde, fu il saccheggio,
e furono lo stupro e la morte. Raccontano ancora oggi che il prode capo
degli otrantini, benché decapitato, non morì subito. Il
suo tronco senza testa si rimise in piedi, nudo bronzeo forte, al cospetto
dei barbari stupefatti. E non si mosse, malgrado le esecrazioni e i
colpi di zagaglia, fino a quando il suo ottocentesimo, uomo non ebbe
la testa regolarmente mozzata dall'ascia del boia.
Le ossa dei martiri sono chiuse in quattro enormi stiponi incassati
nel muro dell'abside e protetti da un doppio cristallo. Appena un poco
più in là, verso il centro, è la Vergine d'oro.
Quella statuetta che, portata dai turcheschi come preda a Costantinopoli,
miracolosamente fece ritorno fra i suoi otrantini, che la scoprirono
alla luce di madreperla dell'alba, bagnata d'acqua di mare, come se
avesse percorso un lungo tragitto.
Entro nella grande navata, e mi avvicino all'immagine. Lascio la macchina
da presa, e non solamente perché non c'è abbastanza luce
per impressionare la pellicola. Il fatto è che la luce è
tanto poca da impressionare me. La Vergine, in oro splendente. tempestata
di pietre preziose, è una stupenda figura in abiti regali, nell'abbraccio
di uno schermo di cielo e di mare, sul puro marmo degli altari. Chiudo
un attimo gli occhi, per meglio abituarmi alla penombra, dopo lo splendore
esterno del sole meridiano. Quando li riapro, l'impressione è
di neve abbagliante, fra cui gioielli verdi rossi azzurri brillano in
intima luce. Un miracolo luminoso ha luogo qui dentro, ancora più
suggestivo di quello che avviene fuori, allorché i primi raggi
del sole sfiorano le superfici serene di questo monumento all'amore.
E, nel riverbero di tanta luce di poesia, resto a lungo silenzioso.
Il sole è giù, oltre le serre salentine che sono l'ondulato
spartiacque tra i due mari mediterranei. Ad est, le montagne dell'Albania
si vestono di bruma e di sera; e calano tra le canne le ultime folaghe
al passo sui laghi Alimini. I pescatori otrantini si accingono a prendere
il largo per la pesca della notte. Qualcuno canta un'antica canzone.
Il vento è caduto, l'aria si è fatta quasi più
dolce. Si accendono le prime luci nelle case, e lo spettacolo è,
come sempre. un poco surreale. Vista dal mare, Otranto è un piccolo
presepe. Prelude agli altri paesi-presepe che si incastonano lungo tutta
questa meravigliosa costa salentina, da Badisco a Castro a Roca Vecchia,
alle "Marine", alle "Torri". E pare trasvolare,
in questo cielo che è ormai viola scuro, il canto del Corano
che ha tanto una misura, un metro cristiano: " ... Per le stelle
al tramonto, per il soffio dei venti selvaggi, / per i cieli infiniti,
stesi sulle navi in cammino, / per la luna che apparve già dimezzata
in Oriente, / giuro che uomini e donne, con tutte le cose / nutrite
dall'aria e dal sole, sono creature divine..."
Il turismo non ha rotto soltanto un antico isolamento. Ha interrotto
un equilibrio ambientale, di tradizioni, urbanistico, di costumi, che
pare rispunti, qui, soprattutto col ritorno dell'inverno, quando la
città torna al suo silenzio antico, alla sua solitaria pace.
Allora la città è piena d'ombra, quasi incute soggezione.
Ha sempre un che di misterioso, di sacro, di segreto e inattingibile.
Per quanto lontana, forse, una tragedia non si cancella mai, lascia
sempre una sua indelebile impronta, scava le anime, le modella in modo
diverso, e alita nell'aria, appena stemperata dal tempo.
Forse proprio per questo si va via a malincuore da Otranto, le si volgono
le spalle, peregrinando per il Salento, con la bocca amara: vi si lascia
un poco del proprio cuore, e si porta via un poco di questa luce otrantina
d'un timbro che sembra essere unico, qui, dove tutto - luce compresa
- sa di madre Grecia.
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